lunedì 26 dicembre 2011

Folletto da città


Il mio lavoro si divideva in due tempi: fra le 8.30 e le 13.30 a scuola e dalle 17.30 alle 20.30 alla scrivania, dove correggevo compiti, sceglievo esercizi ed annotavo su un quaderno da 50 centesimi, e non un diario da 10 euro, tutto ciò che avrei fatto il giorno dopo in ogni classe. E’ così che presi l’abitudine di una lunga pennichella post-prandiale, utile per ricaricare le batterie della mente e l’umore.
L’abitudine è rimasta ovviamente anche dopo il pensionamento. Ma adesso, sempre più di frequente, essa viene interrotta da sgradevoli telefonate: “Pronto è lei il signor marino? Io sono marcella della teletré e la chiamo per una eccezionale offerta promozionale fino al 30 marzo con soli 20 euro al mese può avere l’adsl 24ore e può chiamare a soli 15 centesimi al minuto senza scatti alla risposta”. Cosa si può rispondere a una tale raffica di parole, sparate in circa 10 secondi, mentre hai gli occhi ancora socchiusi e la luce delle persiane non ha ancora riacceso la mente alle cose del mondo reale?

Rimpiango la vecchia Sip: una sola offerta uguale per tutti gli Italiani. La rimpiango perché le eventuali fregature non facevano discriminazioni, mentre adesso spesso ti accorgi che è fregato solo chi, su queste cose, è… disinformato. Tu quotidianamente parli al telefono quanto il tuo amico, ma lui un certo giorno, con compiacimento, ti informa che da due anni ha gratis duecento minuti al mese pagando soli 5 euro e, nel vedere che tu di questa “offerta promozionale” non sai un cavolo, ti guarda come si può guardare un… beh, diciamo, un cretino.
Rimpiango la Sip perché non adescava migliaia di giovani laureati in Filosofia o Giurisprudenza per farti fare le telefonatine nel primo pomeriggio all’amaro prezzo, nostro, di venire svegliati di soprassalto e all’amaro prezzo, di questi giovani, di vedere buttati i loro studi ed essere posti sotto schiaffo da parte di utenti meno diplomatici di me, che alla raffica di parole pronunciate meccanicamente (sarà, quello, un lavoro alienante o no?) rispondono col garbato motto di Beppe Grillo, il Vaffanculo.
Io comunque da qualche tempo ho trovato un rimedio meno cruento, almeno per le ore pomeridiane. Fra le 15.00 e le 17.00 stacco il telefono; tanto, per le telefonate urgenti, mi si può rintracciare sul cellulare. I “folletti” di telecom, wind, teletu, tiscali, fastweb ecc., per due ore, sono belli e sistemati. E non possono più tentare di farmi credere che si facciano concorrenza: ognuno di loro, se dà qualcosa con la mano destra, prende qualcosa con la mano sinistra. Come nei supermercati: dieci prodotti con cinquanta centesimi in meno e novanta prodotti con cinquanta centesimi in più. Chi ci guadagna?

Ma oltre a quelli della moderna telefonia, c’è un altro tipo di “folletti da città”, quelli dell’arcifamoso Aspirapolvere Folletto Vorwerk. Loro non hanno orari, possono bussare alla porta alle dieci del mattino, come alle tre del pomeriggio, come alle sei di sera. Sono infaticabili. Tutti alti e bellocci, giacca e cravatta di gala, sorriso a trentadue denti, borsa da professionisti e cartellina con dépliant e contratti con mille clausole in “carattere sette”. Vendono una sola cosa: l’aspirapolvere. E’ inutile dirgli che questo tipo di elettrodomestici, come tutti gli altri, è ora in vendita in mille negozi specializzati e anche nei discount e che chi ne ha bisogno va personalmente a sceglierne uno confrontando i prezzi e le caratteristiche. Loro, per spingere all’acquisto, ti dicono che puoi pagarlo anche in comode rate; e poi, vedendoli, qualcuno si commuove e magari si convince di fare un’azione buona: la signora si fa un regalo e nello stesso tempo aiuta un povero giovane.

Per il modo in cui si presentano e per quel loro sorriso istrionico, diversamente dai telefonisti dei call center questi non mi fanno alcuna pena, anzi direi che mi irritano alquanto. Negli anni sessanta e settanta c’erano quelli che vendevano a domicilio le enciclopedie o le batterie da cucina ma, all’epoca, le città piccole e le contrade non avevano librerie o supermercati e le visite potevano avere la funzione di avvicinare l’offerta alla domanda. Oggi trovi tutto nel raggio di due chilometri e, perciò, niente più vendita diretta di enciclopedie e pentole. Per la Vorwerk invece il tempo non passa: la visitina a casa funziona ancora.
Non ci credete? Un giorno ad uno di questi giovanotti ho cercato di spiegare che l’invadenza della loro azienda era inutile e fastidiosa, ma lui, intuendo che quella tentata vendita era ormai senza speranza, mi ha buttato in faccia la realtà. “Non è inutile”, mi ha detto. “Io, vendendo questi aggeggi, guadagno in media tremila euro al mese”. Oggi, a distanza di un anno da quell’incontro, tento di fare un rapido calcolo: se la provvigione sul prezzo di circa 1.000 euro fosse del 20%, basterebbe venderne uno ogni due giorni per arrivare a quella cifra. Dunque quel giovanotto in ghingheri non ha mentito.
Mentre scrivo, mi accorgo che è il 22 di dicembre. Siamo in prossimità del Natale: perdoniamo loro, anche se… sanno quello che fanno!
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martedì 13 dicembre 2011

Edward Sapir: Cultura genuina e cultura spuria

“La cultura genuina non è necessariamente alta o bassa, ma solo essenzialmente armoniosa, equilibrata, soddisfacente in se stessa E’ l'espressione di un atteggiamento, riccamente variato e comunque unificato e consistente, verso la vita, un atteggiamento che scorge il significato di ciascun elemento di civiltà nel suo rapporto con gli altri. E’ una cultura, in cui nulla è senza significato spirituale, in cui non una parte importante del generale funzionamento porta con sé un senso di frustrazione, di sforzo mal diretto o non simpatetico. Essa non è un ibrido spirituale di toppe contraddittorie, di compartimenti-stagno della coscienza che evitano di partecipare a una sintesi armoniosa. (…) Se detesta la schiavitù, essa sente il dovere di un ridimensionamento economico che possa ovviare alla necessità del suo impiego; non fa gran mostra, nei suoi ideali etici, di una opposizione intransigente alla schiavitù soltanto per introdurre ciò che corrisponde al sistema schiavistico in taluni settori del suo meccanismo industriale. (…) Se inclina a smantellare le istituzioni religiose, è anche pronta a fare a meno delle case religiose istituite. (…) Non cura l'istruzione dei suoi figli in ciò che sa inutile e non vitale sia a loro che alla propria vita matura, né tollera mille altri ‘compromessi spirituali’ che sono manifesti nella vita americana di oggi.”
(E. Sapir, linguista e antropologo statunitense, 1884-1939) (1)

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A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, gradualmente, tutti i popoli hanno preso a modello di riferimento, economico e culturale, gli Stati Uniti. Eppure proprio da quel paese erano partiti i primi segnali dei pericoli insiti in quel modello. Il sociologo Thorstein Veblen già nel 1899 aveva denunciato le cause e le possibili derive di un consumismo, basato su una esasperata competizione sociale. L’antropologo culturale Edward Sapir, dopo un quarto di secolo, a quella denuncia ne aggiungerà un’altra: quella di una società economicamente efficiente, ma incapace di esprimere una cultura genuina, cioè organica ed aderente alle aspirazioni degli individui.
La cultura americana dà veramente rilievo al principio dell’uguaglianza politica e sociale? A giudicare dai discorsi ufficiali dei loro Presidenti e dalle linee ispiratrici di giornali e televisioni, sembrerebbe non esserci alcun dubbio: gli Usa sono la patria delle pari opportunità e dunque almeno di una 'certa forma’ di uguaglianza. Eppure tutti sappiamo del persistere di una sottile discriminazione razziale e dell’emarginazione dei negri (evito la recente, insulsa variante lessicale del termine) nei quartieri delle grandi città. Siamo dunque di fronte ad una società adagiata su una comoda ipocrisia: nel 2009 elegge un presidente negro, ma ai livelli più bassi il colore della pelle ha ancora la sua importanza.
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A parte una lunga storia della cinematografia contro i nativi “pellerossa” e gli esempi fatti a proposito dei negri, ci troviamo chiaramente di fronte ad una cultura ‘spuria’ in cui idee e sentimenti opposti, parole e fatti, pubblico e privato, entrano perennemente in conflitto. Sapir si addentra poi anche nei meccanismi economici, sostenendo che la forma estrema assunta dall’economia capitalistica in quel paese è in qualche modo assimilabile allo schiavismo. Più avanti nel saggio in questione dirà che la vita di una telefonista, che non sa esattamente a cosa serva il suo lavoro, è “inautentica”, non corrispondente alla sua interiorità, e dunque molto peggiore di quella di un indiano d’America che risolveva il suo problema economico con la pesca al salmone.
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A questo punto dobbiamo porci un'altra domanda, non esplicitata da Sapir nel breve saggio del ’24, ma alla quale egli dedicherà un altro articolo nel 1932 dal titolo Cultural Anthropology and Psychiatry. Poiché di esso non è disponibile la traduzione in italiano, ho potuto coglierne solo le linee essenziali, ma queste hanno rafforzato in me l’idea secondo la quale esiste un nesso abbastanza stretto fra una società “spuria” (non armoniosa e non equilibrata) ed una larga diffusione di stati di disagio psichico individuali.
La psichiatria, prima di assegnare ai meccanismi biologici ed alle terapie farmacologiche un ruolo dominante, con Freud aveva incardinato nel ‘sociale’ il problema delle varie forme di patologia. Su quel versante però essa trovava solo una componente della psiche, quella dei valori morali ufficiali. Sull’altro versante si trovava ancora qualcosa che apparteneva all’eredità genetica dell’individuo: gli istinti; in primo luogo, e non senza una certa esagerazione, quello sessuale. A mediare fra i due era deputato l’io razionale, il quale naturalmente poteva riuscire o meno nel suo compito. La patologia era dunque il frutto di uno scontro fra la natura, protesa sempre verso la piena libertà di espressione delle pulsioni primordiali, e le regole del vivere sociale, che tendono ad inibire questa libertà.
L’approccio antropologico-culturale di Sapir, pur non negando l’incidenza delle forze istintuali di amore ed odio, di vita e di morte, assegna invece ad esse un ruolo secondario. In base a questa diversa impostazione il disagio dell’individuo sembra sorgere non tanto da un conflitto fra gli istinti inconsci e un Super-io morale, ma dai contrasti di una duplice, o addirittura molteplice, educazione morale, derivata da più figure autorevoli e gruppi sociali influenti, portatori di norme e valori antitetici.
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Uno psicologo, del cui nome nella mia memoria s’è persa traccia, ha raffigurato il cervello umano a un nastro di registrazione a più piste, capace di memorizzare contemporaneamente cose diverse. Quando a un bambino il papà dice che il dolce fa male ai denti e nello stesso momento la mamma sostiene che in fondo basta lavarseli spesso, il bambino memorizzerà entrambe le risposte e, quando sarà adulto, di fronte ad un dolce non saprà quale dei due insegnamenti utilizzare.
Finché si tratta di cose simili il dilemma si risolve con facilità, ma quando si tratta di scelte di maggiore rilievo, cominciano i guai. Ad esempio, l’amore è un sentimento di bene che ha come sbocco naturale i rapporti sessuali oppure un desiderio di godimento che può giustificare anche un atto di sopraffazione? Se il giovane adolescente in famiglia e a scuola ha imparato ad avere rispetto per l’altro sesso, ma dal web e nei discorsi fra amici ha imparato ad agire da predatore, qualche anno più tardi, di fronte alle situazioni concrete, sarà indeciso nella scelta fra i due modelli di comportamento perché, scegliendo uno dei due, contravverrà all’altro. Se avrà un atteggiamento molto rispettoso verrà meno al modello interiorizzato dagli amici, mentre se sarà aggressivo verrà meno al modello acquisito in famiglia e a scuola. Nell’un caso e nell’altro, la scelta sarà causa di sofferenza.
Quando si vive in una società non genuina, le cause di sofferenza come quella appena citata saranno tante. Per molte si troveranno intelligenti compromessi, ma non sempre ciò sarà possibile. Ci sono percorsi che alla fine conducono a un punto di rottura, e da questo potrebbe derivare una angosciosa indecisione cronica. Oppure si può giungere alla soppressione di uno dei modelli acquisiti, a vantaggio esclusivo dell’altro, la qual cosa può determinare forme più o meno serie di disturbi fobici o maniacali.


(1) Il brano in corsivo è tratto da un articolo pubblicato dall’antropologo culturale Edward Sapir nel 1924 sull’ “American Journal of Sociology” col titolo Culture, genuine and spurious e, in Italia, nel 1960, in “Antologia delle Scienze Sociali” (Il Mulino) col titolo Cultura e pseudocultura, da me inserito di recente alla pagina web
www.scribd.com/doc/233619377/Edward-Sapir-Culture-genuine-e-culture-spurie
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martedì 29 novembre 2011

Europa 2011, Mont Merkozy

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Col persistere della crisi finanziaria nei paesi europei più deboli e con il progressivo contagio ai paesi più forti, torna a farsi sentire la voce degli antieuropeisti, che vedono nella moneta unica il condizionamento delle politiche nazionali e quindi della democrazia. Si tratta di posizioni antistoriche, di persone che giudicano i singoli eventi in un contesto temporale troppo circoscritto.
Il libero scambio delle merci e la libera circolazione delle persone in ambito continentale, oltre a frenare il ritorno a forme di nazionalismo che nel passato hanno portato a disastrosi conflitti bellici, hanno il merito di sostenere l’Europa nella difficile competizione con nuovi sistemi economici di grandi dimensioni demografiche e forti potenzialità economiche.
Ma, al di là delle considerazioni relative al commercio internazionale, mettere in discussione il processo di unificazione politica e monetaria europea incide negativamente anche sul nostro modo di vivere quotidiano. A me non dispiace affatto poter confrontare con un’unica unità di misura i salari ed i prezzi nei vari paesi europei. E trovo giusto che un giovane italiano colga l’opportunità di guadagnare tremila anziché mille euro spostandosi in un altro paese, che un lavoratore tedesco possa programmare una vacanza sull’Adriatico conoscendone in anticipo il costo e che un esportatore siciliano possa sapere con certezza - senza gli intralci di un cambio instabile - quanto ricaverà dalla vendita degli agrumi nei supermercati di Berlino.

La speculazione finanziaria sta rallentando questo processo, ma non potrà bloccarlo né tantomeno invertirlo. In questo periodo lo si può solo gestire mediante politiche economiche concertate, capaci di proteggere i sistemi produttivi, i salari e i risparmi. Nessuno saprebbe, ritornando all’emissione di lire da parte dello Stato italiano, quale sarebbe il salario di un operario e quale il prezzo di un litro di latte, quante lire si ritroverebbe in banca chi vi ha depositato in euro il sudato tfr, quanto si ricaverebbe dalla vendita di una partita di merce con pagamento a due mesi e col prezzo nuovamente stabilito in marchi.
So di mettermi, con queste idee dei raffronti e delle convenienze, in una logica mercantesca che per la mia formazione politica mi sta anche abbastanza stretta. Però anche chi sogna una forma di società ideale in cui il dare e l’avere fra l’individuo e la società non devono necessariamente coincidere, prima di agire è costretto ad analizzare la situazione. Non si può guardare l’orizzonte senza stare attenti a dove si mettono i piedi, come non si può stare attenti soltanto a dove si mettono i piedi perdendo di vista l’orizzonte.

I vantaggi del processo di unificazione europea non si fermano all’aspetto puramente economico. Essi consentono anche importanti raffronti fra i sistemi elettorali, amministrativi e fiscali, fra i sistemi di istruzione e di organizzazione del lavoro, fra le varie forme di welfare, fra i livelli di garanzia dei diritti civili, fra le regole di funzionamento del mercato. Non si tratta di copiare, ma di cogliere l’opportunità di far emergere più chiaramente i punti di forza e di debolezza di ciascun sistema.
Sul piano politico la crisi ha comunque avuto in Italia un risvolto positivo. Ha costretto il 4° Governo Berlusconi a dichiarare il suo fallimento, ha costretto una opposizione eterogenea ad ammettere l’incapacità di proporre un programma unitario ed ha costretto l’uno e l’altra ad abbassare i toni dello scontro ed a cooperare per il bene comune. Certo l’azione del nuovo governo guidato da Mario Monti risulta lenta e, almeno per ora, di limitata efficacia: trattandosi di tecnici, ci aspettavamo ricette precise, prescritte senza bisogno di estenuanti patteggiamenti . Tuttavia il ruolo dell’Italia in Europa è almeno in parte tornato ad essere di primo piano e nei cittadini sembra risorgere una maggiore fiducia verso le istituzioni. Sono fattori che lasciano ben sperare.
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mercoledì 16 novembre 2011

Filmdarivedere: Fatti di gente perbene (1974)

Fra il 1902 e il 1905 la famiglia del professore Augusto Murri è al centro dell’attenzione delle cronache giornalistiche. Il figlio Tullio e la figlia Linda vengono accusati, processati e condannati per l’omicidio del conte Bonmartini, marito di Linda. Di fatti di cronaca nera di tal genere ne accadono in tutte le epoche, ma questo fu seguito con particolare interesse per le sue implicazioni politiche e morali.
Il prof. Murri era un docente di clinica medica di fama nazionale e nel contempo un rappresentante autorevole del partito socialista e della cultura laica, e l’omicidio commesso dai figli dimostrava , secondo le autorità politiche e religiose, che un’educazione familiare lontana dai principi del cattolicesimo portava inevitabilmente a comportamenti immorali e delittuosi.

La storia della famiglia Murri l’ho conosciuta per merito del film “Fatti di gente perbene”, diretto da Mauro Bolognini nel 1974 e vincitore del David Donatello come migliore film e del Nastro d’argento per i migliori costumi. Eccezionali interpreti ne sono Fernando Rey (nella foto), Giancarlo Giannini, Catherine Deneuve e Corrado Pani. Il film è di altissima qualità artistica, ma a suscitare il mio interesse è stata soprattutto quella implicazione sul rapporto fra educazione ed etica a cui ho già in qualche modo accennato.
Il prof. Murri viene descritto, tanto nel film quanto nelle note biografiche, quale uomo di alti principi e rigore morale: è molto stimato nell’ambiente universitario di Bologna, dove ricopre la carica di rettore, e nel 1891 viene nominato senatore del Regno e poi consigliere superiore della pubblica istruzione. Nel film e dagli atti processuali egli risulta incredulo per l’omicidio imputato ai figli, ma, in seguito alla confessione di colpevolezza da parte di Tullio, lo invita a rientrare dalla Svizzera e a consegnarsi alla giustizia.
Il figlio è un giovane e brillante avvocato, con tutti i presupposti per diventare anche una figura di spicco del partito socialista. Ma ha un carattere impulsivo e passionale, poi è schiavo del gioco e infine… ha un attaccamento morboso per la sorella Linda; morboso a tal punto da far quasi pensare ad un rapporto incestuoso.
Linda, anche se non bellissima, è una donna molto affascinante (prendo questa descrizione ed altre notizie relative al caso Murri dai numerosi articoli di Marina Marini sul sito http://www.arcobaleno.net/ ), ma pare che, disgustata dai tratti poco fini della personalità del marito, si sottraesse ai normali rapporti coniugali ed avesse invece una relazione duratura con un vecchio medico, di cui si era invaghita da ragazza.
Le personalità dei due giovani e la ricostruzione minuziosa degli eventi attraverso le prove testimoniali inducono la giuria a supporre una piena complicità nella premeditazione del delitto. Ma in quale misura la loro personalità è collegabile al fatto che essi avevano avuto una educazione laica? Gli atti processuali, questo non ce lo possono dire e quindi offrono solo lo spunto per delle considerazioni più generali.

Certamente l’educazione familiare è molto importante nella formazione culturale e morale. Ma la componente religiosa è davvero così determinante? Quanto incidono anche la base caratteriale, l’educazione scolastica, le frequentazioni giovanili, i disturbi psichici individuali e infine, e più in generale, quei valori culturali latenti che spesso animano la società al di là di quelli di natura giuridica e sociale?
Non si può disconoscere che l’inculcare nei giovani una netta distinzione fra atti dovuti, consigliati, leciti e illeciti, e il collegare a questi delle forme di premi e punizioni, immediate o lontane, può costituire una valida base per indurli in età adulta ad un maggiore rispetto delle regole sociali. Se premi e punizioni sono poi demandati a un essere che ‘tutto vede’, non c’è quella scappatoia dell’impunità, che invece è pensabilissima quando essi sono affidati unicamente alla giustizia umana, sempre fallibile ed eludibile.

Questa impostazione non è però tale da ricondurre in modo significativo gli atti delittuosi alla carenza di un’educazione religiosa. Nel 1897 Emile Durkheim rilevava come “La Spagna, l’Irlanda e l’Italia (…) fossero i soli paesi dove il numero delle uccisioni superava quello delle morti volontarie.” (E. Durkheim, Classici della sociologia, UTET 1977, pag. 415), eppure, almeno all’epoca, questi tre paesi erano caratterizzati da una penetrazione rigida e capillare delle istituzioni e dei principi religiosi in ambito familiare e scolastico.
Oggi dalle statistiche dell’United Nations Office on Drugs and Crime (1) i più alti tassi di omicidi volontari per l’anno 2010 a livello mondiale sono segnalati nell’America del Sud (21/100.000 abitanti) e nell’Europa dell’Est (7/100.000), mentre nell’Europa occidentale c’è il tasso più basso (1,2/100.000). Anche in questo caso non è facile trovare delle correlazioni fra questi dati e delle cause specifiche, ma in generale sembra che una maggiore propensione all’aggressività etero-diretta (omicidi) sia da collegare all’instabilità economica ed istituzionale, mentre l’auto-aggressività (suicidi) è più diffusa nei paesi ricchi e con assetti sociali stabili. In ogni caso, accanto all’educazione familiare e in particolare quella religiosa, nell’analisi dei fatti delittuosi ci sono sicuramente fattori più incisivi.

L’oggetto di queste brevi riflessioni è troppo ampio e profondo per essere affrontato in tutti i suoi risvolti nella sede di un blog e, diciamo pure, da persona che non ha ancora analizzato il problema a sufficienza. Perciò, almeno per ora, mi limito alle poche considerazioni fin qui fatte.
Aggiungo solo che la storia della famiglia Murri, per la sua emblematicità, ha stimolato molto la mia curiosità e che questo mi ha spinto a ricercare per diverse ore, nell’”Archivio informatico” del quotidiano La Stampa di Torino (giornale del quale anche per questo non finiremo mai di ringraziare abbastanza l’editore e l’attuale direttore), la cronaca del processo d’appello seguito giorno per giorno, da febbraio ad agosto 2005, dal giornalista a firma Cini.
Per chi volesse vedere il film di Monicelli e, incuriosito come me, volesse approfondire la storia, ho appositamente pubblicato sul sito www.itineraricataldolesi.it le copie in pdf delle pagine relative agli atti processuali (2). Rileggerli è anche un modo per mettere a confronto la professionalità dei giornalisti del primo novecento con i molti “velinari” di oggi: non erano ancora in uso i registratori, eppure con l’ausilio di appunti stenografici riuscivano a dare tutti i dettagli e a riportare tutti gli interventi. Un altro raffronto possibile è quello dei principi del foro di un tempo con quelli di oggi: alcune delle arringhe della difesa venivano fatte in due udienze successive; e tale era la mole e l’ordine delle argomentazioni che il giornalista, diligentemente e opportunamente, suddivideva ogni articolo in più paragrafi.
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martedì 25 ottobre 2011

"In Onda" veritas

Nell’ultimo post, fra i possibili interventi per mettere sotto controllo le spese dello Stato, ne avevo indicato uno per il quale la ragionevolezza era quasi pari all’assurdità: eliminare le Regioni anziché le Province.
La ragionevolezza era di natura contabile: le regioni assorbono il 19% del bilancio statale per erogare ben pochi servizi e mantenere degli “onorevoli” che hanno gli stessi privilegi dei parlamentari, pensioni incluse. L’assurdità era di natura politica: per rinunciare alle regioni dopo la bocciatura delle macro-regioni, la Lega dovrebbe sciogliersi come neve al sole o essere messa all’angolo sia dalla destra che dalla sinistra.

Questa idea, ragionevole dal punto di vista economico ma destinata probabilmente a cadere nel vuoto, è stata sostenuta dopo due giorni, a sorpresa, nella trasmissione “In Onda” di LA7, anche da Vittorio Feltri, che di tutto può essere accusato - partigianeria o complicità col Governo Berlusconi e un taglio giornalistico disincantato che talvolta rasenta il cinismo - tranne che di essere uno sprovveduto.
Giovedì 20 ottobre scrivevo “Si parla molto di eliminazione delle Province, ma, Lega permettendo, io guarderei eventualmente di buon occhio all’eliminazione delle Regioni (fino al 1970 non esistevano e nessun cittadino ne sentiva grande necessità). (…) A guardare le cifre, il confronto è facile: i trasferimenti di denaro dallo Stato a Comuni e Province ammontano a 15 mld, mentre quelli alle Regioni sono pari a 86 mld.”
(http://ilsemedellutopia.blogspot.com/2011/10/il-bilancio-dello-stato-secondo.html  )
Sabato 22 Feltri, rispondendo ad una domanda di Luca Telese, diceva “Segnalo che il debito pubblico ha cominciato a crescere vertiginosamente in coincidenza con l’istituzione delle Regioni. E quindi anche su questo potremmo fare una discussione approfondita, perché tutti vogliamo abolire le Province tranne la Lega, quando la maggiore fonte di spesa è proprio l’istituzione Regione”.
(http://www.la7.it/inonda/pvideo-stream?id=i468301  , dal minuto 12:45 al minuto 13:28 della trasmissione)

In quella trasmissione Feltri sottovaluta l’indignazione dei giovani e arriva a dire che non trovano occupazione perché non sono abbastanza preparati per svolgere un lavoro preciso. E, quando Concita De Gregorio gli dice che gli manderà allora centinai di migliaia di giovani che sanno fare bene un lavoro ma non lo trovano, lui appare in evidente imbarazzo.
Quando però ha parlato dell’origine dell’eccessivo indebitamento dello Stato, a mio avviso ha colto nel segno. I politici di destra lo avevano sempre imputato alle lotte operaie e studentesche degli anni Sessanta e Settanta, senza considerare che in quel periodo crescevano i salari e il welfare, ma cresceva anche l’economia. A infliggere il pesante colpo al bilancio dello Stato fu in realtà l’istituzione dei nuovi e inutili centri di spesa regionali. Mi fa piacere che Feltri si dissoci, in questa analisi, dagli altri liberisti a oltranza e dagli storiografi improvvisati.
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giovedì 20 ottobre 2011

Il bilancio dello Stato secondo Tremonti

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      Bilancio dello Stato per l'anno 2011
      (spese in miliardi di euro)


Credo che, in un periodo in cui tutti siamo preoccupati per le manovre con cui lo Stato cerca di tagliare le spese e di rastrellare denaro fra i cittadini, sia giusto avere un’idea complessiva di come il denaro venga gestito. Non è cosa semplice perché, nell’elaborazione del documento contabile, la Ragioneria dello Stato va incontro a due opposti inconvenienti: o considera voci di spesa molto sintetiche e quindi poco chiare, oppure prende in considerazione voci di spesa molto analitiche, che non consentono una visione d’insieme.
Nel rispetto di complessi metodi contabili, nell’uno e nell’altro caso essa non è dunque in grado di mettere il cittadino nelle condizioni di fare proprie valutazioni. Eppure la politica è determinata prevalentemente proprio dai criteri con cui lo Stato reperisce ed impiega parte della ricchezza prodotta sul territorio.
Il prospetto qui proposto è di tipo sintetico ma, nonostante poche e irrilevanti riclassificazioni delle spese, non è arbitrario, perché ricavato dal documento ufficiale citato nelle note a margine.

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Alcune valutazioni sulle spese correnti.
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1) Poiché sono un insegnante in pensione ed ho vissuto, con sofferenza, la riforma scolastica di Luigi Berlinguer del 1999-2000, mi soffermo innanzitutto sulla voce “Dipendenti”.
Nel prospetto analitico essa include 0,650 mld per “Competenze accessorie al personale scolastico”: immagino si tratti del Fondo di Istituto, denaro dato a persone che il più delle volte trascurano la didattica per dedicarsi ad attività inutili (questa almeno è stata la mia esperienza). Se a questo aggiungiamo almeno 0,150 mld per le promozioni dei presidi e dei segretari scolastici a "Dirigenti", arriviamo a 0,800 mld (cioè 800 milioni di euro), che si potrebbero risparmiare togliendo i privilegi a questa casta “sindacale” (all’epoca delle promozioni i segretari generali dei sindacati scuola cgil, cisl e uil erano dei presidi!).
Questo è quanto si potrebbe fare per quanto riguarda il personale della scuola, ma credo che situazioni analoghe si siano verificate negli ultimi anni anche negli altri ministeri.
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2) Si parla molto di eliminazione delle Province, ma, Lega permettendo, io guarderei eventualmente di buon occhio all’eliminazione delle Regioni (fino al 1970 non esistevano e nessun cittadino ne sentiva grande necessità). In entrambi i casi, soprattutto dopo la riforma nel 2001 del Titolo V della Costituzione sulle autonomie locali, si tratta di provvedimenti complessi e difficili. Però, a guardare le cifre, il confronto è facile: i trasferimenti di denaro dallo Stato a Comuni e Province ammontano a 15 mld, mentre quelli alle Regioni sono pari a 86 mld. Non per nulla i loro “presidenti” sono diventati “governatori”.
Le Regioni sono centri di spesa dove il clientelismo regna sovrano. Il federalismo della Lega si basa sul presupposto che il decentramento responsabilizzi gli amministratori, e invece io sono convinto che è più facile avere santi nelle amministrazioni locali che in quelle nazionali. E i santi, si sa, sono gli unici che possono fare miracoli.
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3) I politici attuali – argilla rispetto alle perle degli anni del dopoguerra - di fronte alle difficoltà finanziarie rimettono sempre in discussione l’intero impianto previdenziale: la destra allungando all’infinito la vita lavorativa e la sinistra allargando il campo di applicazione del sistema contributivo. Nel primo caso i lavoratori attivi sarebbero "costretti" a non andare in pensione, nel secondo caso vi sarebbero, più semplicemente, "indotti" da pensioni molto basse. In entrambi i casi i giovani disoccupati sarebbero ulteriormente penalizzati nella ricerca di lavoro stabile.
Anche nel settore previdenziale si possono però ottenere dei risparmi. Nelle voci analitiche dell’Inps figurano pensioni di invalidità per quasi 17 mld. Ora ognuno di noi conosce qualcuno che, pur fruendo di una pensione di invalidità, si dimostra perfettamente efficiente nella guida dell’auto, nel riempire carrelli al supermercato ed a volte persino in… attività sportive: i giornali sono pieni dei casi più eclatanti di questo tipo. Fino a trenta anni fa, quando tutti stavamo un po’ meglio, i medici proponenti e le commissioni mediche di controllo recepivano con scioltezza le istanze dei furbetti, e giustificavano il fenomeno inserendolo impropriamente fra gli ammortizzatori sociali. Ma adesso che i giovani trentenni vanno a spasso, queste pratiche e questi ragionamenti non sono più tollerabili.
Come intollerabili sono diventate le pensioni baby. Nel ’91 avevo già maturato 21 anni di servizio come insegnante. Potevo, come tanti, andare in pensione a soli 43 anni, ma non ci ho pensato minimamente: me ne sarei vergognato per tutta la vita, come un ladro! Altri ne hanno invece approfittato, e poi si sono dedicati ad una seconda attività.
Vogliamo sottoporre a nuova, più seria, visita coloro che hanno ottenuto le certificazioni di invalidità? E vogliamo togliere, a chi ha smesso di lavorare a quaranta anni e poi si è dedicato a un nuovo lavoro, una fetta della torta di cui indegnamente si nutre?
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4) Una delle voci di spesa con maggiore incidenza è quella degli interessi. Fra le poste analitiche del bilancio statale figurano interessi per 67 mld su un debito pubblico di 1.900 mld. A gennaio 2010 il tasso di interesse sui bot annuali (che è sempre più basso rispetto ai titoli a più lunga scadenza) era dello 0,80%, a gennaio 2011 era del 2% e a settembre 2011 è arrivato al 4,15%. Colpa dei mercati internazionali, dice il governo. E invece no. Solo l’Italia, la Grecia e la Spagna hanno avuto questi contraccolpi della crisi, perché la speculazione ha colpito solo i Paesi in cui il debito cresce in modo smisurato rispetto al pil.
In Italia il debito pubblico fra il 2001 e il 2011 è salito da 1.358 mld (dato della Banca d’Italia) a 1.900 mld (ultime stime). In questi anni è cresciuto dunque di circa 500 mld, cioè di circa il 40%, mentre il pil è cresciuto da 1.248 mld a 1.521 mld, cioè di circa il 22%. Il rapporto debito/pil è così passato dal 108% al 118%.
Beh, come si fa allora a risparmiare sugli interessi sul debito?
Chi, stando al governo in questi ultimi dieci anni, ha fatto aumentare vertiginosamente il debito ed i tassi di interesse, deve cedere il posto di comando a qualche persona più esperta, più dedita agli interessi collettivi, più seria nei rapporti politici nazionali e internazionali. E di specchiate qualità morali.

Note:
1) Il prospetto è stato ricavato dalle pagine 3-11 del PDF pubblicato dalla Ragioneria Generale dello Stato alla pagina web http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Bilancio-s/Gennaio-2011/5.analisi_delle_spese.pdf
2) Le spese sono qui elencate in modo sintetico, ma nella pagina web sopra indicata è possibile controllare le voci più analitiche, che meglio ne indicano la natura;
3) Alla pag. 5 del PDF, alla voce “Trasferimenti a società di servizi pubblici”, qui “Poste, ferrovie e altre società pubbliche”, ho riscontrato un errore di mld 0,242 (!) tra l’importo complessivo e la somma delle singole sottocategorie; dei due valori nel prospetto ho utilizzato il primo, perchè coerente con il totale delle spese correnti;
4) Nella “Nota metodologica al Documento di economia e finanza 2011”, la voce “Consumi intermedi” viene descritta come il valore dei “beni e servizi consumati quali input in un processo produttivo”;
5) Le spese qui esposte fanno parte del Bilancio di previsione e quindi non includono quelle stabilite nelle successive manovre correttive.
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lunedì 26 settembre 2011

Bossi, Venezia 18 settembre 2011

Il pendolo leghista, che oscilla fra la secessione e il federalismo a seconda di come tira il vento, una settimana fa s’è fermato. Il leader di quel fazzoletto di terra che confina a nord con le pendici delle Alpi e a sud con la riva gauche del Po (perché dalla riva droite in giù è storia ben diversa), è salito sul palco di Venezia e, per le genti che hanno momentaneamente messo nel cassetto la tuta e indossato una camicia verde, ha recitato come al solito il suo credo.
Su alcune pagine web, quel giorno, vicino al nome di Bossi era proposta “la diretta”, e così ho potuto vedere l’eroe varesotto mentre parlava il suo incerto italiano, con alle spalle un enorme dipinto simil-fascista, un braccio legato al collo e un altro che si alzava minaccioso, per denunciare che… Che in Italia non c’è democrazia, che i giornali(sti) sono “stronzi”, che i lombardi e i veneti, indigeni ed allogeni (vedi per tutti Rosy Mauro), vogliono la secessione e infine che, se quest’ultima non è possibile ottenerla con un referendum, ci sono pur sempre milioni di militanti pronti a trasformarsi in milioni di militi.
Nessun timore per tutto questo. Sono slogan che ripete da trent’anni accompagnandoli con faccia feroce e gesti triviali, ma poi resta sempre fermo lì, al palo. Dove sono, infatti, i numeri? Dove sono le armi?

Nelle urne, alle regionali del 2010, in Veneto, di schede verdi se ne sono ritrovate una su tre (1/3); una su quattro (1/4) in Lombardia; una su sei o sette (1/6) in Piemonte, Emilia e Friuli; una su dieci (1/10) in Liguria; una su venti (1/20) in Toscana, Umbria e Marche! Dove sono, dunque, i numeri? Il referendum ventilato è poi illegittimo in base all’articolo 138 della Costituzione. Ma, se pure, in via puramente ipotetica, riuscisse in qualche modo a farlo, i voti reali di cui dispone ed i sondaggi dicono che la consultazione lascerebbe le cose come stanno. Appare allora evidente come la stramba idea non sia che un semplice… “bluff” e che, a giocare e scoprire le carte, i promotori la pagherebbero cara. Tanto più cara quanto più alzassero la posta in gioco, e cioè l’ampiezza del territorio e delle popolazioni coinvolte.

Ho in altre occasioni osservato come i voti leghisti abbiano avuto nel corso degli anni un “andamento ciclico con trend negativo” e come siano stati racimolati in prevalenza nelle campagne più che nelle città. Ma le rivoluzioni - tanto quelle sociali quanto quelle indipendentiste - sono sempre partite dalle grandi città, e non dalla provincia o dai borghi o dalle campagne. Conosco le gloriose “Cinque giornate di Milano” e le “Quattro giornate di Napoli”, ma mai ho sentito parlare delle quattro, o cinque, giornate di Sondrio o Benevento. E poi, dove sarebbero le armi? Nelle fabbrichette dei commendatur, che le canottiere di Bossi le mettono solo sulle isole felici del Pacifico? O nei cascinali, sotto il culo delle mucche?
Probabilmente le armi non ci sono, ma se davvero ci fossero, ci sarebbero anche gli estremi per riconoscere nel partito leghista una associazione “che persegue scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”, le quali “sono proibite” (art. 18 Cost.). Organizzazione, scopi politici (contrari all’art. 5 della Costituzione), simboli (inno, bandiera e alzabandiera), divisa e infine armi; in una parola un nuovo “squadrismo”; cos’altro occorrerebbe per schiaffarli in galera?

Il secessionismo e la minaccia della forza sono ormai, come si diceva, slogan vecchi e un po’ consunti. Ma nel comizio di Venezia c’era, nascosto fra le pieghe, anche qualcosa di nuovo, del quale lì per lì non si nota la rilevanza.
La pedagogia moderna tende a valorizzare la comunicazione mediante immagini per l’immediatezza e la facilità con cui viene recepita, ma io penso che ciò vada a scapito della riflessione. E’ per questo che ho pensato di "sbobinare" (così si diceva quando ancora si usava il registratore) il comizio e ricavarne una pagina che offrisse l’opportunità di valutare, in tempi più adeguati, quei messaggi che - nel frastuono degli applausi, nello sventolio di bandiere e nell’impeto teatrale dell’oratore – spesso sfuggono all’attenzione dello spettatore, fisico o virtuale che sia.
Lasciando da parte i consueti intoppi linguistici ed alcuni blackout logici - che pure appaiono evidenti a un qualunque lettore di media cultura - poniamo ora la dovuta attenzione a una nuova argomentazione dell’oratore:


Se l’Italia va giù, la padania vien su”.

L’affermazione è la dimostrazione lampante del fatto che Bossi & C. non possono più, per legge (infedeltà alla Costituzione), fare i ministri. Basti per questo un sillogismo:
a) Bossi vuole fortemente che la valle padana venga su;
b) la valle padana viene su, se l’Italia va giù (è lui a dirlo);
c) Bossi, ergo, non può che desiderare che l’Italia vada giù.
E’ cioè un ministro che rema contro lo Stato, di cui, in modo ingannatore, si fa rappresentante.
Questo non è un “giochino” logico. Credo che egli non si limiti ad essere contento che in Italia ci siano problemi di declassamento del debito pubblico, di grave disoccupazione giovanile e di instabilità politica. Molto probabilmente lavora proprio per questo! Fa il doppio gioco!
Basta o non basta per prenderlo a calci in culo?

Documenti. E’ possibile rivedere il comizio finale tenuto da Bossi a Venezia il 18 settembre 2011 su: http://www.youtube.com/watch?v=a9y3J1hc8rM (gli ultimi minuti del video evidenziano bene la stanchezza e il disorientamento dell’uomo politico). Qui di seguito inserisco inoltre la fedele trascrizione del discorso cui accennavo. Può essere utile per una più approfondita analisi da parte degli amici lettori.

"Mi chiedevo 'Chi è quel genio che ha trovato la soluzione? Secessione'. Ehhh, ehhhh, come si fa a restare in un paese… (“Se-ces-sio-ne”, Se-ces-sio-ne” ), come si fa a stare in un Paese che sta addirittura perdendo anche la democrazia? Giorno per giorno. Se qualcuno pensa che il fascismo è finito, mi sembra che è ritornato; con altri nomi, con altre facce, però… Addirittura hanno aggredito i corridori del Giro di padania, ehhh. Per dirvi come è finito il sistema italiano: non è più neppure in grado di essere democratico.
Ebbene, non c’è – che siano dei vigliacchi è fuori discussione – ma non c’è il minimo dubbio che i popoli vincono sempre. Non vincono gli eserciti, vincono i popoli, alla fine, ehhh. E quindi bisogna trovare la via democratica per – forse quella referendaria – perché un popolo storicamente importante, dignitoso, lavoratore, che fino adesso è stato costretto a mantenere l’Italia, non allegramente, eh?, noi non è che siamo contenti di mandare a Roma un treno di soldi al giorno, no? Siamo stati costretti. Però è evidente che così non si può andare avanti. D’altra parte, se l’Italia va giù, eh?, la padania vien su, non c’è santo che tenga.
Sono coltelli, i giornali sono dei grandissimi stronzi, sono degli Jago, sono degli Jaghi. Jago era quello che nell’opera verdiano parlava male continuamente della donna di un amico finché, finchè diciamo, fece provocare una tragedia. Gli Jago della carta stampata, che raccontano bugie sistematicamente, adesso stanno un po’ esagerando. Ho visto che, non potendo attaccare me, attaccano anche la mia famiglia. Sono dei delinquenti. E sì, devo dire ai nostri Jago che le cose cambieranno perché, quando finiscono i soldi, la gente perde la pazienza, e come se la perde, non si fa mica fermare da quattro saltimbanco che minacciano in strada la gente comune, che va a picchiare i corridori. Quattro saltimbanc.
Vi devo dire a proposito che in primavera ci sarà la prossima manifestazione, una grande manifestazione come quella che abbiam fatto sul Po. Eh, questa volta però non sarà sul Po. No, non lo dico ufficialmente, pubblicamente, per non dargli, per non dargli la soddisfazione ai giornalisti, che così sanno prima. Sapranno dopo, dopo i nostri militanti. Quella sarà una grande manifestazione.
Abbiamo salvato le pensioni, tanto per dirne una. Se non c’eravamo noi, mi sa che questa volta l’Europa, i poteri quelli van da soli, eh?, i poteri forti, l’Europa, tutti i partiti italiani. E’ un mondo alla rovescia: la sinistra dovrebbe salvare le pensioni, e invece era dall’altra parte. Per fortuna c’era la vecchia Lega che le pensioni ha messo il veto, nonostante che Casini dice “Bossi mostra il dito”. Si, si, mostro il dito perché sono soldi di chi ha lavorato una vita e ha pagato una vita, e ha diritto di avere la sua pensione. Adesso addirittura non vuole più neppure, i sindacati volevan mangiarsi anche le pensioni, ehhh. Calma, calma, è bastata la vecchia Lega. Eravamo in pochi, però in pochi si son dati da fare.
Molti sono i popoli amici della padania, sono molti. Ogni giorno abbiamo un popolo nuovo che dice “Avete ragione. Come avete fatto a sopportare un peso così grave?”. Tutti i nostri soldi costretti a regalarli, con gli altri che se li mangiano anche, e sa la ridono sotto i baffi. Ebbene, tutto arriva, alla fine tutto arriva a bersaglia. Noi siamo qui per dire che da adesso in avanti ritorna la grande battaglia per la lotta, la grande lotta di liberazione, per la libertà dei nostri popoli, i popoli padani (“Se-ces-sio-ne”, “se-ces-sio-ne!). Ehhh, ehhh. Ebbé!
Ho visto subito che quel signore lì che ha scritto “Secessione” è un genio, ha capito qual è la soluzione. Però piano piano, ragazzi, uno può sognare, illudersi che possa cambiare qualcosa senza fare la secessione, senza fare i cambiamenti che si poi diventa necessario. Un popolo non può vivere schiavo del centralismo politico, no non può vivere. I popoli hanno diritto alla loro libertà, soprattutto noi. Abbiamo diritto alla nostra libertà… E abbiamo anche la forza per ottenerla, se fosse necessario.
Fratelli padani, la prossima volta che ci vedremo, in un…, in posti bellissimi, la grande manifestazione, ma prima di allora alcune cose, alcuni diritti saranno già stati presi. Innanzitutto in via referendaria. Ehhh, bisogna che tutti noi si abbia, gli altri fan questo ragionamento: “Noi non gli diamo la possibilità di far le cose democratiche. Così, se vogliono, devono combattere”. State attenti, perché in padania ci sono milioni di persone disposte a combattere per la pada…, per la libertà della padania. Eh, Padaniaaaa! Padaniaaaa!
(“Auguriiii!”- Bossi fa le corna). Quali auguri? Io è trent’anni che non faccio più gli anni. Va bene. Auguri perché guarisca subito il braccio. E’ già tutto fatto, ehhh, mi sono già fatto operare, adesso manca solo che passi il dolore, e basta. Ricordatevi, non correte mai giù dalle le scale a casa vostra con le ciabatte, rincorrendo i figli, soprattutto quelli più piccoli, che vanno da tutte le parti, se no vi fate male come mi son fatto male. Però, alla fine, quando appena passerà il dolore, fra pochi giorni, sarò guarito. Vabbé, grazie, grazie, grazieee. Vabbè, un abbraccio, passiamo ad altro."
(Umberto Bossi, Venezia, comizio conclusivo della Festa del 18 settembre 2011)
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giovedì 8 settembre 2011

Classi sociali e classi di età

L’ultima a dirlo è stata Giorgia Meloni: vecchi e adulti devono accettare un più basso tenore di vita per garantire un futuro ai giovani. Lei, ministra della Gioventù, queste cose le sa bene; se pure non le avesse imparate in un istituto professionale alberghiero, ne avrà di sicuro sentito parlare ripetutamente dal prof. Tremonti.
Su questa tesi io nutro però dei dubbi. Se a un pensionato viene decurtata la pensione di 400 euro mensili, l’Inps ne ricava un risparmio equivalente. E se il salario di un operaio viene decurtato di 300 euro, è il datore di lavoro a ricavarne un risparmio. Ora, se l’uno e l’altro fossero sicuri che questi 700 euro finissero nelle tasche dei figli, credo che non opporrebbero grande resistenza. Ma purtroppo, per le stranezze della nostra politica, è difficile avere fiducia sulla correttezza di questo travaso. Il denaro risparmiato dall’Inps potrebbe finire nel calderone del bilancio dello Stato, mentre il denaro risparmiato dall’imprenditore potrebbe essere investito in una villa con piscina. Parte di quegli euro, inoltre, dopo qualche giro o raggiro, potrebbe finire nelle tasche dei politici di turno. Così facendo, evidentemente, non risolveremmo il problema dei giovani.

La Meloni forse sorriderà all’idea di circoscrivere i calcoli al “qui ed ora” e sciorinerà subito la teoria della gobba pensionistica del 2030, con tanti pensionati e pochi lavoratori attivi. La stessa persona che a giugno non sapeva minimamente cosa sarebbe accaduto in luglio, pretenderà di dirci ora cosa accadrà fra 19 anni: sulla base di statistiche demografiche ed economiche, s’intende. Con ciò ritiene infatti di poter prevedere se la natalità continuerà a diminuire o invece aumenterà; se vivremo fino a 120 anni, come spera di sé Berlusconi, o invece verrà fuori qualche piccolo virus che ci stronca molto prima; se ci saranno o no guerre; quali progressi ci saranno nelle tecniche di produzione e, di conseguenza, quanti saranno i lavoratori occupati e disoccupati.
In realtà lei sa tutte queste cose esattamente allo stesso modo in cui noi anziani, nel 1990, sapevamo cosa sarebbe accaduto vent’anni dopo. Indottrinati, ai tempi della “Milano da bere”, coi fulgidi scenari liberisti e l’inarrestabile crescita delle libertà e della ricchezza, ci siamo poi ritrovati di fronte una realtà ben diversa: vaste sacche di povertà e disoccupazione, i ripetuti attacchi alle libertà dei lavoratori, razzismo, terrorismo e guerre preventive. Come si vede, non è poi così facile prevedere il futuro in base alle proiezioni statistiche. Le variabili della storia sono troppo numerose per poter essere controllate nei periodi lunghi.

Se dunque la Meloni vuole veramente aiutare i giovani, non dica più loro, con la leggerezza che contraddistingue la sua fazione, che in futuro non avranno la pensione perché i padri oggi stanno troppo bene. Perché questa è una grossa bugia, ed anche perché seminare zizzania fra padri e figli è mestiere del diavolo, e non dei cristiani. In un paese come l’Italia, poi, con certe sue peculiarità culturali, questo tipo di ingiustizie difficilmente può annidarsi nella famiglia. Credo che abbia origine altrove, forse nella forte, intollerabile discrepanza fra quel 10% di famiglie che possiede il 45% del patrimonio nazionale (i ricchi) e quel 50% di famiglie che ne possiede solo il 10% (i poveri) (1). Conosciamo gli studi di Pareto in materia di reddito, ma non per questo di fronte a ciò cessiamo di stupirci ed indignarci.
Immagino la signora Meloni, inorridita, dire che con queste argomentazioni si mette in dubbio la proprietà privata! Ebbene, non volevo dire esattamente questo: ho preso in considerazione la distribuzione della proprietà, solo perché essa è in buona misura indicativa del reddito. Ma, se pure così fosse, ricorderei che la proprietà privata non è un istituto giuridico universalmente valido nello spazio e nel tempo. La Storia l’ha creato e la Storia lo può cancellare. E pazienza se la “ricchezza delle nazioni” crescerà un poco più lentamente: vuol dire che quel 10% di famiglie di cui parlavamo prima rinuncerà a qualcosa. La ricchezza oltretutto è vissuta in modo diverso a seconda di come è distribuita. Se c’è equità, nessuno rincorre il superfluo, “vanità delle vanità”.
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(1) C’è un 10% di famiglie che possiede in media un patrimonio di un milione e mezzo di euro e c’è un 50% di famiglie che possiede in media un patrimonio di 70.000 euro. Al rimanente 40% tocca il 45% del patrimonio. Si tratta della classe media: finché una classe media ci sarà! (I dati sono della Banca d’Italia, dic. 2010, riferiti al 2008. Fonte:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/20/banca-ditalia-il-45-della-ricchezza-in-mano-al-10-della-famiglia/82840/ ).
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venerdì 26 agosto 2011

Eboli. Non fu Cristo a fermarsi

Carlo Levi, finito dal Piemonte in Basilicata per attività antifascista, nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli” ha tratteggiato in modo suggestivo le arretratezze della comunità di cui fu ospite e volle sottolinearne l’enorme divario con la sua Torino. Lo fece naturalmente da narratore, non aveva alcun obbligo di indagare sulle cause di tale divario; da quanto mi rimane in mente della lettura del suo romanzo autobiografico, mi pare che, sia pur involontariamente, sia caduto nella trappola delle differenze di mentalità e di costumi, lasciando un po’ sullo sfondo le radici storiche e strutturali di quell’arretratezza: il titolo del libro ne è un segno.
Non credo che Cristo si sia fermato ad Eboli. Come poteva fare ciò, colui che ha detto che la fede sposta anche le montagne? No, Cristo ha raggiunto e penetrato gli animi degli abitanti della Lucania e delle altre regioni del sud almeno quanto quelli delle regioni del nord.
Coloro che si sono fermati ad Eboli sono stati invece Cavour, Giolitti ed i loro eredi, gente un po’ meno magnanima. Non è che si siano fermati loro personalmente, hanno fatto fermare le ferrovie, le strade, le scuole e le banche e, quando queste invece di fermarsi hanno attraversato la cittadina che segnava il confine fra due terre, lo hanno fatto per fagocitare ciò che vi trovavano e non per portarvi qualcosa.

Oggi, venendo da nord, giunti alle pendici dell’Appennino meridionale col treno o l’autostrada, anche se con difficoltà si passa. Ma ricordo bene che, ancora negli anni Sessanta, superare quelle montagne con la mia ‘500 era un’impresa. E col treno, per andare fino a Roma dalla Piana che ospitò 2.500 anni fa la città di Sibari, si impiegavano tredici ore.
Adesso a Roma si arriva più velocemente, ma per fare cosa? L’Europa non ha ancora una struttura politica, ma dal punto di vista economico, per produrre e vendere, ha i suoi punti di riferimento nelle regioni che l’Eurostat indica come quelle più ricche, per lo più gravitanti sull'asse Londra-Amburgo-Milano (1). Di fronte a questa nuova realtà l’Italia meridionale è nuovamente spiazzata: niente alta velocità, niente autostrade degne di questo nome e, soprattutto, pochi aeroporti.


Le grandi distanze si coprono ormai con gli aerei e, anche in questo, la classe politica italiana è mancata all’appuntamento con il sud. Nel territorio compreso fra le Alpi e il Lazio, 161.000 kmq con 34 milioni di abitanti, l’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) segnala la presenza di 21 aeroporti, mentre dal Lazio alla Calabria, un territorio di 90.500 kmq con 20 milioni di abitanti, ce ne sono solo 9. Con un rapido calcolo si può osservare che nelle zone ricche c’è un aeroporto ogni 7.600 kmq e ogni 1.600.000 di abitanti e nelle zone povere ce n’è uno ogni 10.000 kmq e ogni 2.200.000 abitanti.
Gli eredi di Cavour, dopo 150 anni, continuano sulla stessa scia nella dislocazione di ospedali, università, strade, ferrovie, aeroporti. Qualcuno dirà che è lo sviluppo economico a potenziare le infrastrutture, ma io credo che questo sia un dilemma simile a quello dell’uovo e della gallina, per il quale non può esserci che una duplice soluzione. Fra strutture produttive e infrastrutture c'è un rapporto di interdipendenza: la ricchezza crea le vie di comunicazione, così come le vie di comunicazione creano ricchezza.
Spesso cerco di rendere meno aride certe pagine, dove i numeri disorientano, con qualche esperienza personale. Qui l’ho già fatto a proposito dei tempi di percorrenza dei treni negli anni Sessanta, ma voglio aggiungere un esempio circa la raggiungibilità degli aeroporti. Per arrivare a quello di Lamezia con l’automobile, impiego – non sono più un giovanotto – circa due ore e mezza; per arrivarci col treno me ne servono il doppio. E far coincidere i pochi treni coi pochi aerei è difficile quanto riempire gli “incroci obbligati” della Settimana Enigmistica.
Mi chiedo se ci sia, nelle regioni ricche, un qualunque altro paesino dal quale, per raggiungere un aeroporto, ci voglia altrettanto tempo. Invito i lettori a vedere sulle pagina web dell’Enac l’elenco degli aeroporti e delle compagnie operanti in ognuno di essi, per verificare come fra le Alpi e il Gran Sasso nel raggio di cento chilometri ce ne sia sempre almeno uno, comodamente raggiungibile in auto o in treno, e quanto numerosi siano i treni e i voli. E li invito poi a guardare quale vuoto vi sia invece nel quadrilatero Roma, Pescara, Napoli, Bari e nel triangolo Napoli, Bari, Lamezia.


(1) I dati statistici elaborati da Eurostat, organo della Commissione Europea, dicono che il reddito pro-capite nelle regioni del Nord supera i 30.000 euro, nell’Italia centrale oscilla fra i 20 e i 30.000 e nel Sud e nelle isole oscilla invece tra i 15 e i 20.000. Questa suddivisione economica dell’Italia ci è nota da oltre un secolo ed eminenti studiosi l’hanno messa in risalto col titolo di “Questione meridionale”. Eurostat ce ne dà oggi una quantificazione in base a comuni parametri europei, ma gli economisti convengono sul fatto che, per numerosi motivi fra i quali spicca l'evasione fiscale, i dati sul pil non sono poi così precisi e che fra il pil così calcolato e quello reale ci potrebbe essere un notevole scostamento percentuale.
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mercoledì 10 agosto 2011

Buongiorno a lei, Gramellini

“Pare proprio che a salvare la patria in mutande dovranno essere i pensionandi. Decine di migliaia di lavoratori che, dopo aver sgobbato fin da ragazzi e pagato contributi previdenziali per decine e decine di anni, arrivati a poche buste paga dal traguardo stanno per sentirsi dire che la loro pensione è diventata un lusso insostenibile. I nullatenenti con yacht a carico, le società municipalizzate che proliferano come funghi velenosi: queste e altre minuzie possono aspettare. La vera urgenza è il taglio di un diritto maturato, e autofinanziato, per tutta una vita.
E’ un’ingiustizia, quindi si farà. Nel più totale disprezzo dei progetti di quelle persone, che ora rischiano di annegare nell’incertezza insieme con le loro famiglie. Un’ingiustizia e anche un controsenso: come riusciranno i giovani a entrare nel mondo del lavoro, se si impedisce ai diversamente giovani di uscirne? Le ragioni della scelta sono fin troppo facili da comprendere. I pensionandi non hanno una lobby che li tuteli e non godono neppure di simpatia sociale. Come gli anziani in genere. Con il prolungamento della vita media, la società sembra quasi imputare loro la colpa di non voler morire. Di questo passo guadagnerà seguaci la provocazione dello scrittore inglese Martin Amis, che in un’intervista alla Bbc propose di rimettere in ordine i conti dello Stato Sociale sopprimendo i cittadini al compimento dell’ottantesimo anno. Va bene tutto (insomma, quasi tutto). Ma un Paese di privilegiati come il nostro eviti almeno di mettere alla gogna degli individui che hanno la sola colpa di aver creduto nelle leggi.” (Massimo Gramellini “La colpa di vivere”, La Stampa, 9 agosto 2011)

Se in Italia abbiamo pessimi politici, in compenso abbiamo ottimi giornalisti, e uno di questi è Massimo Gramellini. Nel suo “Buongiorno” quotidiano su La Stampa, poche righe bastano sempre per colpire nel segno: per individuare un problema, indicarne i responsabili, suggerire le soluzioni. Ma a che serve? Come voce che grida nel deserto, le sue parole restano lì sulla carta.
L’articolo di ieri dovrebbe essere la nuova bibbia di un politico, ma non credo ve ne sia uno solo che si prenderà la briga di studiarlo e trarne le conseguenze. Lo riporto qui per intero, perché amputarlo di una qualunque parte sarebbe quasi un sacrilegio. Tuttavia vorrei concentrarmi sulla frase che ho evidenziato in grassetto “…un controsenso: come riusciranno i giovani a entrare nel mondo del lavoro, se si impedisce ai diversamente giovani di uscirne?”
Nell’articolo “Disoccupazione: che fare?” del 16 novembre 2010 avevo indicato un rimedio alla disoccupazione nella diminuzione dell’orario di lavoro per gli occupati: “Se per 20 milioni di lavoratori attivi l’orario di lavoro si riducesse di un 5%, le imprese, per mantenere invariato il livello produttivo, dovrebbero assumere circa un milioni di giovani”.
La domanda di Gramellini contiene in sé una risposta che va nella stessa direzione: se i lavoratori anziani andassero in pensione con qualche anno di anticipo, si creerebbero posti di lavoro per i giovani in cerca di prima occupazione.
Le mosse dei nostri politici e dei nostri imprenditori vanno invece in direzione opposta: aumentare le ore di lavoro ordinario (e, se ciò non è possibile, favorire fiscalmente quelle di straordinario) ed allungare la vita lavorativa. Il tutto per tagliare le spese degli enti pensionistici e risanare il bilancio dello Stato.

L’altro giorno sull’edizione telematica di un quotidiano si proponeva un sondaggio: “Quali spese pubbliche tagliereste?”. Era un quesito a risposta chiusa: sanità, scuola, difesa, ecc…. quasi un elenco dei vari ministeri. Mancavano naturalmente altre possibili risposte, fra le quali giusto quella che avrei segnato io. Rivoluzione? No, almeno per ora. Solo tagliare i profitti con un significativo, molto significativo, inasprimento fiscale e con metodi di accertamento polizieschi, di quelli che farebbero inorridire Berlusconi e tutti i fortunati imprenditori come lui.
Mi si obietterà che il pdl ha basato la sua fortuna elettorale proprio sul popolo delle partite iva, il quale si sentiva tar-tassato. E’ vero, il popolo delle partite iva è oggi folto e agguerrito, ma ciò non toglie che esso debba contribuire in modo più sostanzioso alle spese nazionali, perché molte sono le imprese con redditi notevoli e che evadono facilmente il fisco.
Qualche mese fa mi si raccontava di una vecchia signora - di quelle per le quali Mr. Amis suggerisce una qualche forma di “cacotanasia” - che non potendo recarsi dal coiffeur è stata gentilmente servita a domicilio: tempo 10 minuti, euro 20. Ritengo che in generale i bilanci "interni” della categoria siano un po’ diversi da quelli presentati al fisco. Il prezzo di shampoo, taglio e tintura oscilla fra i 30 e i 50 euro (media 40, dipende dalla città, ma è sempre abbastanza salato). Se il titolare serve otto clienti al giorno e altri sedici li affida a due aiutanti, arriva ad incassare 960 euro al giorno, che nei ventidue giorni lavorativi mensili fanno 21.120 euro. Tolti 2.000 euro per fitto e ammortamenti, 1.000 per i prodotti utilizzati e 5.000 per le aiutanti, restano 13.120 euro, pari a 157.440 euro l’anno. Quanti ne dichiarerà? E quanto pagherà di Irpef e Iva?
Questo il caso di un povero coiffeur, ma potremmo fare qualche calcolo sommario anche per medici specialisti, odontoiatri, estetiste, meccanici, idraulici ecc., per non parlare delle piccole e grandi imprese industriali e mercantili, per le quali gonfiare i costi e sgonfiare i ricavi è facile come per un gommista calibrare la pressione degli pneumatici.
Ecco dove prendere i soldi. E non aumentando ai lavoratori l’età della pensione (dopo i 65 anni ci sono solo vecchiaia e malattia) e lasciando i giovani senza un lavoro, una casa, una famiglia. Un futuro.

P.S. Per la prima volta riporto sul blog un articolo e non una semplice citazione. Oltre che un’occasione di approfondimento di un tema molto rilevante, vuole essere un omaggio a uno dei più seri, colti e graffianti giornalisti italiani.
Segnalo in coda che il suo “Buongiorno” di oggi, dal titolo “Fine del mondo”, sulla ribellione dei ragazzi inglesi contiene una lucidissima analisi dell’attuale intreccio fra economia e cultura. Eccola:“Il teppista griffato non si rivolta per ottenere un impiego, del cibo o dei diritti civili. Reclama soltanto l’accesso agli status-symbol della pubblicità acquistabili attraverso il denaro. Dal giorno infausto in cui il capitalismo dei finanzieri ha soppiantato quello dei produttori, il denaro si è infatti sganciato dal merito, dal lavoro e dall’uomo, trasformandosi in un valore a sé. L’unico. Quel ragazzo è il prodotto di questa bella scuola di vita. Mettiamolo pure in galera. Ma poi affrettiamoci a ricostruire la scuola.”
La si può condividere in tutto o in parte o anche rigettarla, ma si tratta di un’analisi comunque degna di serie riflessioni.
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venerdì 22 luglio 2011

Brunetta e il giudice




Non è mio costume - non può essere nei costumi di qualunque uomo civile - far riferimento alle caratteristiche fisiche di una persona per poi tratteggiarla in modo tendenzioso. Ieri però in famiglia, parlando del ministro Renato Brunetta, a qualcuno è venuta in mente la canzone di Fabrizio De Andrè “Un giudice”. E tutti gli altri, fra i due personaggi, hanno immediatamente ravvisato alcune affinità.

Il “giudice” di cui si narra nella canzone è persona che reagisce positivamente ad una condizione di anomalia somatica, cercando una rivalsa in campo professionale. E fin qui la sua figura si staglia nell’alveo della normalità, anzi non può che suscitare ammirazione. E’ nel momento in cui l’emulazione si trasforma in mania di onnipotenza che la simpatia per il personaggio si trasforma nel suo opposto.
Non possiamo certamente imputare ai testi poetici di De André - il nostro più delicato e acuto cantautore, verso il quale la mia generazione è fortemente debitrice - una qualche forma di discriminazione nei confronti di chicchessia, perché i suoi versi sono spesso dedicati alla comprensione e alla riabilitazione morale di tutti coloro che la società ha cercato di emarginare. L’antipatia per il giudice di bassa statura parte dunque, non dalle sue caratteristiche fisiche, ma dalla sua voglia di prevalere sugli altri, approfittando della posizione sociale faticosamente raggiunta.

E a questo punto, mi dispiace dirlo, le analogie col ministro sono del tutto evidenti. Nulla a che vedere naturalmente con le sue posizioni politiche. Si tratta piuttosto della natura delle sue esternazioni: quello che dice (giudizi negativi sulle fasce sociali oggi più deboli) e come lo dice (strafottenza). Se lui è arrivato al gradino più alto degli studi e poi alla cattedra universitaria e poi alla carica di ministro, vuol dire che i “suoi giudici” non lo hanno penalizzato così tanto né hanno infierito su di lui. E allora perché, adesso, si permette di dire che i giovani lavoratori precari sono “la parte peggiore dell’Italia”? Perché nelle trasmissioni televisive risulta sempre così irruento e così tranchant? Da cosi gli viene tanta sicumera, se non anche una certa dose di cattiveria?
In questi giorni pare abbia sposato una donna affascinante, che lo supera facilmente di una o due spanne. Ne siamo tutti lieti, nessuna invidia, ognuno ha la compagna che merita, e lui merita molto perché è ministro, e poi perché, come sottolinea De Andrè, è possibile che fra le tante altre virtù possieda anche “la più indecente”. Tutto questo va bene, ma allora perché i tanti giovani precari, oltre a non poter mettere su famiglia con le loro forse meno appariscenti fidanzatine, debbono anche sopportare la sua arroganza e la sua derisione?

Qualcosa forse avrebbero da dirgli anche gli impiegati pubblici, che a suo vedere sono tutti degli scansafatiche e che perciò lui pretenderebbe di monitorare sul lavoro mese per mese, giorno per giorno, ora per ora. Eppure qualcuno ha fatto le pulci anche a lui – con le statistiche sulle sue presenze al Parlamento europeo - e pare che non fosse così zelante come ora pretenderebbe dagli altri.
Ma tutto questo trova una giustificazione. Anche se molto alto egli non è, poggia ormai i piedi su un piedistallo, che gli dà sufficiente autorità per dire ciò che vuole:
“… e allora la mia statura non dispensò più buonumore, a chi alla sbarra in piedi mi diceva Vostro Onore, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio, non conoscendo affatto la statura di Dio”.

Documenti video da Youtube:

http://www.youtube.com/watch?v=Go7cMxRnxy8
Brevissima biografia del ministro su “L’espresso”

http://www.youtube.com/watch?v=VBxHnnBw_VA&feature=fvst
La canzone di De Andrè associata ad alcune fotografie del ministro
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mercoledì 13 luglio 2011

Piazza del Campo (Divagazioni estive)



Una piazza è un vuoto circoscritto, un “non essere” che si guadagna un nome solo in virtù di ciò che esiste intorno. In base a questo concetto, non dovremmo mai poter dire che una piazza è più bella di un’altra. Eppure tutti diciamo che Piazza del Campo, Piazza S. Marco, Piazza Navona e Piazza S. Croce sono senz’altro più belle di tante altre. Questo unicamente a causa della bellezza degli edifici che le hanno create, lasciando fra di loro un certo spazio di una certa forma.
Quasi sempre al centro delle piazze si erige qualcosa che simbolicamente la vuole rappresentare – statua, obelisco o fontana o un qualunque altro elemento decorativo di pregio - ma chiaramente non sono queste cose a fare del vuoto una piazza. Il deserto, che sta ai quattro lati della piramide di Cheope, nessuno osa chiamarlo “Piazza Cheope”.

Sono cittadino di due città, che hanno lo stesso nome e costituiscono la stessa entità amministrativa. La prima, costruita in collina nel corso di mille anni, è fatta di viuzze e piazzette corrispondenti all’incirca alle “calli” e ai “campi” di Venezia, anche se non paragonabili a questi per il valore estetico degli edifici che li delimitano, e per quel solitario fondarsi di Venezia su acque lagunari. La seconda, costruita in pianura negli ultimi cinquant’anni, è fatta di strade larghe, costruite in funzione delle automobili più che delle persone; in pratica una copia più o meno bella di una qualunque periferia d’una qualunque grande città.
In pianura, quando negli anni Sessanta furono costruite due lunghe file di edifici, in un certo punto non fu più possibile continuare per la presenza di un torrente, del quale più tardi un bravo sindaco pensò bene di coprire l’alveo. Un lavoro ben fatto perché, trattandosi di un geologo, mise attenzione a convogliare le acque piovane in modo tale che fluissero senza pericoli. Quello “spazio”, una volta pavimentato, poté accogliere una fontana di discreto disegno, un traliccio che scimmiotta in modo pacchiano la Tour Eiffel e alcune panchine.

Oggi nella toponomastica cittadina quello spazio – delimitato solo da due miseri lati paralleli con edifici anni Settanta, privi di un qualunque accorgimento estetico - nell’ufficialità dei nomi risulta essere una “piazza”. Ma, a dispetto dell’etimologia (plateia), uno spazio ampio non designa di per sé una piazza. Senza una corte, non esiste un re.
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martedì 21 giugno 2011

Furto di voti

Un blog non è posto adatto per una trattazione sistematica di argomenti complessi come i sistemi elettorali. Ma poiché spero, e prevedo, che questo argomento divenga cruciale nei prossimi mesi, cercherò almeno di cogliere le differenze tra il sistema proporzionale, che in Italia è stato in vigore fino al 1993, il sistema misto con collegi uninominali in vigore dal ’93 al 2005 (c.d. mattarellum) e il sistema proporzionale corretto (o corrotto?) dal premio di maggioranza, col quale si è votato nel 2006 e nel 2008 (c.d. porcellum).

Al referendum del ’93 contro il proporzionale votai con un no, perché intuii che si trattava di un espediente dei partiti maggiori (DC e PDS) per trasformare, a livello di collegi, le competizioni elettorali nel gioco di “asso piglia tutto”. Col sistema proporzionale fino ad allora in vigore, il numero di seggi assegnati in parlamento a ciascun partito era “esattamente proporzionale al numero di voti ottenuti”: il Parlamento diventava così lo specchio fedele dei vari partiti e dei vari strati sociali su cui ognuno di essi si reggevano. Col mattarellum, che fu la dovuta conseguenza dell’esito del referendum, le cose cambiavano: 475 dei 630 seggi della Camera dei Deputati erano posti in palio per il partito che, in ogni singolo collegio elettorale, avesse preso un solo voto più degli altri. Poteva dunque accadere che in uno dei collegi di Firenze il candidato della sinistra prendesse diecimila voti in più rispetto a quello di destra, e venisse eletto allo stesso, identico modo di un candidato di un collegio di Milano in cui la destra vinceva con soli tre voti di scarto.
Era un effetto iniquo, ma non era né l’unico né il più importante: infatti con questo meccanismo i piccoli partiti erano destinati a sparire. E questo era il vero scopo di DC e PDS, la prima aveva così la speranza di salvarsi da tangentopoli e il secondo la speranza di fagocitare tutta la sinistra. Alle elezioni del ’94 però, con Craxi in fuga e Forlani in tribunale, Berlusconi in modo inatteso scombussolò i giochi di entrambi: si sostituì alla DC e – aiutato da Dell’Utri (!), Previti (!), i fondi Fininvest e le trasmissioni di Mediaset – frustrò dolorosamente le aspirazioni della sinistra.

Nel 2001 Berlusconi vince per la seconda volta e nel 2005, quasi alla fine della legislatura, fa ciò che nessun politico corretto avrebbe mai fatto: cambia le regole del gioco. Non si trattò di ritocchi marginali, era qualcosa che stravolgeva i risultati elettorali e quindi la volontà popolare. Prima di lui questo lo fece solo Mussolini, al quale secondo me lui si è sempre segretamente ispirato. Ecco le nuove regole: 1) i partiti possono presentarsi in coalizioni; 2) alla coalizione che prende un solo voto in più su tutto il territorio nazionale, a prescindere dalla percentuale ottenuta viene assegnato il 55% dei seggi della Camera (il maggioritario si sposta così, agli effetti pratici, dai singoli collegi all’intero corpo elettorale!); 3) si riconferma lo sbarramento per i partiti minori; 4) nelle varie circoscrizioni i partiti o le coalizioni presentano una lista di candidati, e l’ordine con cui essi vengono elencati determinerà l’eventuale elezione (conosciamo adesso i criteri coi quali Berlusconi forma queste liste: molti avvocati capaci di legiferare a suo favore, faccendieri e belle ragazze); 5) ogni coalizione indica un candidato premier (per una repubblica parlamentare come la nostra, ritengo che si tratti di una norma incostituzionale, ma evidentemente le mie nozioni giuridiche devono essere un po’ scarse).

Nel 2006 il cavaliere viene disarcionato dai tanti rami dell’Ulivo, ma due anni dopo, si rimette in sella. Il nuovo congegno elettorale finalmente si è dimostrato a lui favorevole e può perciò dedicarsi, come gli imperatori gaudenti nel declino della Roma imperiale, alla cetra e al bunga bunga. Forse in futuro questi diversivi gli costeranno caro, ma non tanto caro se alle prossime elezioni voteremo ancora col porcellum, capace di trasformare le minoranze in maggioranze. Ne abbiamo un esempio nella tabella che segue, dove sono riportati in ordine i partiti e le coalizioni presenti alle elezioni del 2008, le percentuali di voti da essi ottenute, il numero di seggi a cui avrebbero avuto diritto se si fosse votato col sistema proporzionale (un dato “virtuale” che consente però il confronto fra i sistemi), i seggi che - in virtù del premio di maggioranza e dello sbarramento al 4% - i partiti della coalizione vincente hanno rubato agli avversari e ai partiti minori e, nell’ultima colonna, il numero di deputati assegnato col metodo di Calderoli, il dentista che ha spostato il trapano dalla bocca dei pazienti al cuore della democrazia.
Ecco qui sotto la tabella, che spero si abbia la pazienza di osservare per due minuti, superando la diffidenza e l’idiosincrasia per i numeri, dalla quale noi Italiani siamo afflitti più di altri popoli se tali numeri non rappresentano lire o euro. Seguirà una concisa spiegazione.
Con 289 deputati Berlusconi non avrebbe potuto formare un governo e sarebbe stato costretto a genuflettersi all’UDC di Casini, che da poco lo aveva mollato. Ma col nuovo congegno elettorale non c’è stato bisogno di farlo. Il PDL si è infatti auto-premiato con 51 deputati, sottratti a Bertinotti e Vendola (19), a Storace e Santanchè (15), a Boselli (6), a Ferrando(4) e a Sinistra Critica (3); altri dodici provengono dai partitini con meno dello 0,40%. Non tutti questi seggi rubati finiscono a Berlusconi, sette li rubacchia anche il PD e uno anche l’UDC, ma il colpo grosso lo fa il cavaliere.
Le storture di questa legge elettorale mi sembrano evidenti. E’ vero che negli USA può diventare presidente anche uno che prende meno voti se conquista più Stati ed è anche vero che il bipartitismo domina in Inghilterra da tanto tempo. L’Italia però è socialmente frastagliata come il territorio che la ospita, è lunga e stretta, ha un sud che lo Stato ha sfruttato e poi abbandonato sin dall’avvio dell’unità nazionale, e gli Italiani sono diversi dagli USA per storia e risorse naturali. Se per il sistema elettorale vogliamo proprio prendere qualcuno a modello, facciamolo con quello tedesco: proporzionale, con scelta popolare dei candidati e un qualche sbarramento che pone al riparo dai partiti “alla Mastella”.

A chi ancora sostiene il maggioritario, o il proporzionale con premio di maggioranza, con l’argomentazione della maggiore stabilità del governo, faccio osservare che 1) il governo Berlusconi è durato cinque anni dal 2001 al 2006 e adesso dura da tre anni, ma l’incompatibilità della Lega con Fini e Casini per motivi politici e l’incompatibilità di tutti e tre questi partiti con Berlusconi, per il suo stile di vita e i suoi problemi giudiziari, bloccano l’attività dell’esecutivo; 2) il fatto che un governo abbia maggiore durata non costituisce di per sé sempre un vantaggio: se fa leggi o riforme sbagliate, più dura e peggio è.
Nella prima repubblica, Presidente del consiglio e Ministri cambiavano ogni due anni o forse meno, ma c’era continuità nell’azione di governo e soprattutto c’era ascolto per le opposizioni e per le libere espressioni degli umori diffusi nei vari strati sociali. Adesso c’è il muro contro muro e la completa mancanza di rispetto per le regole più elementari. Quando Forza Italia vinse le elezioni nel ’94, per la prima volta nella storia della Repubblica la Presidenza delle Camere non fu più assegnata alle opposizioni: “Non si fanno prigionieri” era il motto di Giuliano Ferrara, l’ eminenza grigia nostrana, il Richelieu italiano del XX secolo.

Note.
1) I dati della tabella si riferiscono solo alla Camera dei Deputati e non tengono conto dei 12 seggi delle circoscrizioni estere e del seggio della Valle d’Aosta (è per questo che risultano 617 anziché 630); il sito del Ministero degli Interni riporta i dati disaggregati.
Al Senato il premio di maggioranza è a livello regionale, e non nazionale, ma anche per Palazzo Madama al cav. nel 2008 è andata bene, perché in regioni come la Sicilia, patria di Dell’Utri, Previti e Mangano, prese 15 senatori su 26.
Alle prossime elezioni però le cose per lui non saranno più così semplici; l’uscita di Fini gli è costata cara: dal 37,38% il pdl passa, nei sondaggi post-amministrativi e post-referendari, a circa il 28%, quasi dieci punti in meno, tanti quanti Fini gliene aveva portati in dote alla fusione dei due partiti.
2) Si è da poco costituito un comitato referendario per modificare il porcellum. Sosteniamolo con la raccolta delle firme: i tre quesiti, le ragioni del referendum e le modalità per la raccolta delle firme sono reperibili sul sito http://www.referendumleggeelettorale.it/
Del comitato promotore fanno parte: Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Umberto Ambrosoli, Alberto Asor Rosa, Corrado Augias, Gae Aulenti, Andrea Carandini, Luigi Brioschi, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Carlo Feltrinelli, Inge Feltrinelli, Ernesto Ferrero. Vittorio Gregotti, Carlo Federico Grosso, Rosetta Loy, Dacia Maraini, Renzo Piano, Mario Pirani, Maurizio Pollini, Giovanni Sartori, Corrado Stajano, Massimo Teodori, Giovanni Valentini, Paolo Mauri, Gustavo Visentini, Innocenzo Cipolletta, Domenico Fisichella, Stefano Mauri, Benedetta Tobagi, Franco Cardini, Luciano Canfora, Irene Bignardi e Margherita Hack. (Fonte: Repubblica.it)
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domenica 5 giugno 2011

Uomini di fede con diritti d'autore

Ci sono uomini di grandi qualità intellettuali, che si fanno portavoce di valori e che lavorano per divulgare il loro sapere e condurre così singoli uomini o l’intera società verso nuovi orizzonti. Parlo di illuminati laici, come Eugenio Scalfari, o di egregi studiosi della religione, come Enzo Bianchi e Vito Mancuso.
Sono persone che apprezzo molto, ma che suscitano in me un importante interrogativo: se il loro scopo (per non dire la loro missione) è quello di far giungere a tutti il loro messaggio, perché mettono le loro opere sul mercato editoriale a prezzi così alti? Che bisogno c’è di una rilegatura elegante, di un editore importante, di una distribuzione presso librerie che, da quanto mi risulta, pretendono circa il trenta per cento del prezzo di copertina? E, soprattutto, se amano così tanto il popolo, perché pretendere cospicui diritti d’autore?
Che io sappia, Scalfari non dovrebbe avere bisogno di tanto denaro. Ha ormai una certa età e, alle spalle, una carriera giornalistica importante e remunerativa. A cosa gli serve altro denaro? Enzo Bianchi è fondatore di una comunità cristiana in cui lo stile di vita quotidiano dovrebbe essere improntato all’indirizzo evangelico della povertà. Allora perché i suoi libri costano quanto quelli di un qualunque saggista? Vito Mancuso si fa coraggioso alfiere di una approfondita esegesi dei testi sacri, per dare una svolta più moderna ai principi religiosi. E allora perché i suoi volumi sono inaccessibili alla gente comune, che fa fatica a far quadrare il bilancio familiare?
La stessa cosa vorrei dire per i libri di D’Alema e Veltroni o altri politici della stessa estrazione, che dicono di battersi per il popolo e la democrazia. Ma per loro queste domande non me le pongo proprio: devono abitare in appartamenti lussuosi e concedersi la barca lunga per solcare i mari e andare in vacanza negli stessi posti in cui vanno gli industriali e i manager. Per loro è inutile farsi troppe domande: parlano alla sinistra ma con gli occhi guardano a destra e con le mani pescano a destra e a manca.

Sono in tanti - gente di minore caratura - quelli che studiano i problemi politici e morali della nostra epoca e dedicano ore e ore della giornata e anni e anni della loro vita per comunicare qualcosa agli altri. Non sono né degli Scalfari né un Bianchi o un Mancuso, ma mettono i loro modesti scritti su internet, dove tutti possono leggere gratuitamente. Se qualcosa merita poi di essere pubblicato su carta, lo fanno a costi bassissimi e la vendita è senza profitti. Oggi, con l’aiuto dei mezzi informatici, si possono stampare copie di un libro con un costo che va dai tre ai cinque euro. Allora perché i nostri tre moschettieri della laicità o della religione non mettono le loro opere sui loro siti oppure non le fanno arrivare nelle librerie a prezzi bassi?
L’ultimo libro di Eugenio Scalfari, Scuote l’anima mia Eros, costa 14,45 euro; L’anima e il suo destino di Vito Mancuso, un best seller, costa 18,61 euro; Enzo Bianchi ha pubblicato Una lotta per la vita. Conoscere e combattere i peccati capitali: chi vuole cimentarsi in questa dura battaglia deve però sborsare 14,88 euro. I tre libri vengono a costare complessivamente 48 euro mentre su internet potrebbero essere letti gratis. Qual è il motivo della scelta degli autori? Non è, per caso, che predicano bene e razzolano male? Non è , per caso, che per Padre hanno Dio ma per nipoti hanno i figli dei propri figli o i figli dei fratelli di sangue?

P.S. Mia moglie, fedele ascoltatrice della trasmissione Uomini e Profeti su Radiotre, che ospita molto di frequente Enzo Bianchi, mi fa osservare che la Comunità di Bose si autofinanzia col lavoro ed i contributi di tutti coloro che vi partecipano o ne vengono ospitati e che il ricavato dei diritti d’autore di Bianchi potrebbe essere il suo personale contributo economico alla comunità da lui organizzata e diretta. E’ molto probabile che sia così.
Osservazione accolta!
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