domenica 14 luglio 2013

Filmdarivedere: "Il maestro di Vigevano", 1963

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Fra il 1861 e il 2010 i contadini in Italia passano dal 70 al 4%. Nel seguire questa linea discendente essi, alla fine degli anni Cinquanta, si vedono superare in numero prima dagli operai dell’industria e poi dagli addetti ai servizi (1); è questo un momento cruciale della storia del nostro Paese, perché tali trasformazioni dell’economia sconvolgono anche il sistema di valori sul quale, fino a quel momento, si era retto il sistema sociale.

Anche in una società contadina le proprietà e il tenore di vita hanno una loro importanza, ma i professionisti e gli uomini di cultura godono di un certo prestigio a prescindere da questi elementi. Con l’industrializzazione questo assetto si sgretola, perché l’unico metro di valutazione sociale diventa il denaro: se un industriale, un artigiano, un commerciante o un operaio specializzato guadagnano più di un insegnante, questo è sufficiente per assegnare a quest’ultimo un ruolo sociale marginale.
E’ esattamente ciò che succede al maestro Mombelli, protagonista del film tratto dall’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, uscito nelle sale cinematografiche nel 1963, cioè solo un anno dopo la pubblicazione del libro.

Antonio Mombelli insegna nelle scuole elementari di Vigevano, una cittadina che, insieme a Varese, diventerà in quel periodo la capitale dell’industria italiana delle calzature. Molti operai, dopo un periodo di lavoro in fabbrica, visto il rapido arricchimento dei proprietari e impossessatisi dei trucchi del mestiere, si mettono in proprio, e così le attività produttive si moltiplicano rapidamente, i redditi delle persone e delle famiglie coinvolte crescono, e con essi cresce il desiderio inarrestabile di beni con cui ostentare il proprio benessere.
Unici esclusi da questo processo, schiacciati fra i vecchi imprenditori e i parvenu, restano i pochi soggetti ancora legati ai lavori agricoli, gli operai che continuano a lavorare come dipendenti e gli impiegati pubblici e privati. Loro, questa trasformazione, restano a guardarla, e se ne accorgono bene quando vanno nelle piazze affollate con i vestiti logori o non alla moda o quando arrivano a casa per sentire dalle mogli, più sensibili al fascino della moda e dei consumi, un lungo elenco di confronti impietosi.

Anche prima di questi rivolgimenti, il vecchio ambiente scolastico non garantiva un’economia familiare allegra, ma c’era un contrappeso, la ‘dignità’. Il ragioniere d’una azienda, l’impiegato comunale o l’insegnante – soggetti che si usa raggruppare nella categoria residua di ‘piccola borghesia’, perché un po’ al di sopra dell’operaio e del contadino e un poco, ma a volte anche tanto, al di sotto del piccolo o grande imprenditore – erano persone che, una volta uscite dalla fabbrica o dall’ufficio, spesso inchinandosi servilmente ai loro superiori gerarchici, in piazza potevano andare a testa alta per il diffuso riconoscimento dei loro meriti intellettuali e morali. Alla fine degli anni ’50 essi precipitano invece nella parte più bassa della scala sociale perché questi meriti, non essendo monetizzabili, non vengono più riconosciuti. Iniziano così i drammi familiari e umani, dei quali “Il maestro di Vigevano” è una rappresentazione toccante.

La moglie del maestro Mombelli, Ada, una donna carina e ancora giovanile (interprete l’attrice inglese Claire Bloom), non è il personaggio principale del libro e del film, però in essa si coagulano tutte le contraddizioni che dalla società si travasano nella famiglia. E’ lei che, prima del marito avverte ed elabora la nuova condizione sociale; si lamenta con lui per motivi banali, ma simbolici - prova ad esempio vergogna a portare indumenti intimi inadeguati - ma le sue aspirazioni vanno ben oltre. Vede come gli altri spendano con facilità in cibi, vestiti, automobili, divertimenti, e capisce che per rincorrerli in direzione di questa ‘dolce vita’ non c’è che un rimedio: lei andrà a lavorare in fabbrica e il figlio adolescente, che in fondo per lo studio non ha né stoffa né voglia, all’insaputa del padre andrà a consegnare pacchi.
Che lei non si limiti a fare ciò solo per non indossare più mutande maschili, diventa evidente quando, dopo aver costretto il marito ad accettare che lei e il figlio vadano a fare lavori da lui ritenuti umilianti, lo costringerà anche a dimettersi dall’insegnamento e ad affidarle la buonuscita per mettere su la propria fabbrichetta in società con suo fratello. Ed è sempre lei che, una volta raggiunto l’obiettivo economico, andrà alla ricerca di altri segni di prestigio: l’amante, un amante più facoltoso di lei, col quale fa accordi commerciali e andrà periodicamente in gita su una bella coupé… in albergo! E’ lì, in quella coupé, che la sua folle corsa, stradale e sociale, finirà per un incidente. La nemesi.
Ada non appare molto nel film; rispetto al maestro, interpretato da Alberto Sordi - al quale meritatamente la tv dedicherà un ciclo di film dal titolo “Storia di un italiano” – essa apparirà in un numero limitato di scene, quasi personaggio secondario, con ruolo antitetico a quello del protagonista. E però i desideri da lei covati sono il grimaldello con cui vengono scardinati i vecchi modelli di vita, nella società e in famiglia.

Raccontata la storia di Ada, che rappresenta il nuovo mondo, si potrebbe dire che sia già raccontata anche la storia del maestro Mombelli, personaggio speculare del vecchio mondo. Ma sfuggirebbero degli aspetti interessanti.
Tutti coloro che hanno visto o vedranno il film, si faranno un’idea abbastanza precisa della vita d’un insegnante prima e dopo il boom economico degli anni ’60, ma chi ha passato la vita fra dirigenti, studenti, alunni , libri e registri, forse avvertirà meglio il messaggio dello scrittore Mastronardi e dell’attore Sordi.
Fino agli anni ’60 fare l’insegnante non era un ‘ripiego’ per non aver trovato lavori migliori. Si entrava in un ambiente dove tutti - eccezion fatta per il personale ausiliario allora numericamente irrilevante - avevano un livello di istruzione medio o alto; gli alunni e le famiglie avevano dell’istruzione un’alta considerazione. In un’Italia in cui ancora c’erano larghe sacche di analfabetismo (l’UNLA (2) organizzava i corsi serali per adulti e il maestro Manzi in tv diceva che per imparare “Non è mai troppo tardi”) chi usciva dalle severe scuole magistrali d’un tempo o da un Ateneo in cui, accademicamente, bisognava essere disposti a dare risposta anche sui cavilli, era beneficiario di grande rispetto da parte delle altre categorie sociali. Poi le cose sono cambiate e il destino del maestro Mombelli ne è una testimonianza.

La scuola, avendo il compito essenziale di trasferire conoscenze e valori dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani, è la struttura che recepisce per ultima le innovazioni. Quella di Mombelli non fa eccezione. C’è un dirigente che ‘conserva’ le sue prerogative di superiorità riservandosi il nos maiestatis, suggerendo le risposte alle sue domande con l’aiutino della sillabazione progressiva o dimostrando la superiorità della nuova didattica ‘attiva’. Sopravvive il culto della bella scrittura. Per accedere alla cattedra bisogna ancora conoscere bene D’Annunzio, anche se lo si ritiene un autore ormai superato.
Tutti questi caratteri, che della vecchia scuola rimangono intatti, compreso il modesto stipendio, Mombelli li accetta. Ciò che rifiuta è il riposizionamento del suo ruolo nella società: giudica umiliante che moglie e figlio di un maestro debbano andare in fabbrica o che il padre facoltoso di un alunno (lo stesso che diventerà l’amante di sua moglie) voglia corromperlo con cinquantamila lire. Fa di tutto per salvare la sua dignità, promette alla moglie di guadagnare quanto basta dando lezioni private, ma il suo destino è segnato. Quella, contro il vento della storia, è una lotta impari, destinata alla sconfitta.
In una scena iniziale, Ada cerca inutilmente di spiegargli tutto questo:
- Mandami a lavorare in fabbrica
- Ada!
- Insomma, non possiamo continuare così. Allora troviamo un lavoro per Rino, è grande. Può già incominciare a guadagnare qualcosa.
- No, Ada, Rino non può abbandonare la scuola, Rino deve studiare, lui non è figlio di un operaio, è il figlio del maestro Mombelli. Io faccio scuola agli altri e mando mio figlio a lavorare?
- Non è neanche tagliato per studiare
- Come sei cambiata, Ada.
- I tempi, sono cambiati. Quando ero ragazza la gente diceva “Beata lei, sposa un maestro”. Adesso dice “Povera diavola, ha sposato un maestro”
- Gente ignorante, Ada. Noi siamo migliori. Cerca di dimenticare che siamo poveri e saremo sempre felici.
- Si… buonanotte.
- Tu credi che io non sappia, Ada, quello che ti rende sempre triste. Tu sogni di essere una donna ricca, e non lo sei.

L’autore del libro, Lucio Mastronardi, nel raccontare queste trasformazioni della sua Vigevano, soffre; si sente che soffre come insegnante, ma soprattutto come uomo. La sua vita, come quella del protagonista del suo romanzo, sarà tormentata e finirà in modo tragico. In una intervista a ‘La settimana Incom’, rintracciabile su you tube col titolo “Non è pazzo il maestro”, egli dichiara: “"Sono molto vicino a una piccola borghesia a carattere casalingo, schiacciata dalla classe industriale da una parte e dalla classe operaia dall'altra. Il boom la seguita a schernire con crudeltà".


Note:
.(1) Istat – Popolazione attiva per settore economico, anni 1861-2010 (composizioni %)
 http://www.istat.it/it/files/2011/05/01_occupazione.swf 



(2) Unione Nazionale Lotta contro l’Analfabetismo
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mercoledì 10 luglio 2013

Lester F. Ward, Recensione a “La teoria della classe agiata” di T. Veblen, 1900


Lester F. Ward, Recensione a “La teoria della classe agiata. Uno studio economico sulla evoluzione delle istituzioni” di Thorstein Veblen. American Journal of Sociology, The University of Chicago Press, 1900, Vol. 5, pagg. 829-837. Traduzione di Cataldo Marino

I
L’ultimo critico di un libro ha lo stesso vantaggio del critico di un vecchio dipinto. Egli non ha bisogno di una qualche idea sua propria, ha imparato qual è la cosa giusta da dire e non gli resta che dirla. In questo caso la cosa giusta è di condannare il libro, definendolo pessimistico o addirittura ‘cinico’. Pessimismo, ora, qui vuol dire: guardare i fatti in faccia, dire le cose come sono, chiamare vanga una vanga, e chiunque faccia questo merita la censura come disturbatore dell’ordine delle cose.
Se c’è qualcosa che il mondo non vuole, questa è la verità. La verità è una medicina che va somministrata in pillole ricoperte di zucchero. Una parte piccolissima di essa reagisce sul sistema pubblico e non andrà giù. Questo non è un fatto moderno, è quanto è stato sempre fatto per ‘bruciare’ le persone; oggi ci si limita a mettere i loro libri in una specie di indice morale (index librorum expurgandorum).

Il problema di questo libro è che contiene troppa verità e inoltre che suggerisce una grande quantità di verità che in effetti neppure contiene, e questo è brutto quanto il dire chiaramente la verità. Galileo e Servetus furono perseguitati non per quello che dissero, ma per le deduzioni che i loro persecutori trassero da ciò che essi avevano detto.
I recensori di questo libro basano le loro critiche quasi interamente sulle conclusioni che loro stessi traggono da ciò che in esso è scritto e molto poco da ciò che esso effettivamente dice. Essi dimenticano completamente che il libro è, come attesta il suo sottotitolo, “Uno studio economico sull’evoluzione delle istituzioni”, e presumono invece, senza fondamento, che esso costituisca un attacco alle istituzioni esistenti. Questa è solo una deduzione, ma una di quelle per le quali nel libro non vi è alcuna prova. Qualcuno ha detto che la legge di gravitazione sarebbe stata attaccata se vi fosse stato il sospetto di intaccare gli interessi umani. La storia dell’uomo è stata paragonata esattamente alla storia delle piante e degli animali, ma nessuno ha inveito contro i fatti biologici, perché essi riguardavano gli esseri sub-umani. Darwin fu duramente contestato per le supposte conseguenze di questi fatti sull’uomo, ma solo per questo motivo. [829]

Ora, nessuna verità è emersa più chiaramente, dal più approfondito studio dell’evoluzione organica, del fatto che tutto il suo processo comporta degli sprechi. Darwin dimostrò questo; Huxley moltiplicò gli esempi su di esso; Herbert Spencer, per il quale l’uomo imita la natura in tutto, ha fornito alcuni dei più evidenti esempi della ‘prodigalità’ della natura.
Nel descrivere questa prodigalità i naturalisti non sono stati sospettati di condannare le abitudini e gli istinti degli uccelli, dei pesci del mare e dei micro-organismi coltivati. Ma quando un economista, con abiti mentali strettamente scientifici, indaga sulla storia della specie umana e scopre che l’evoluzione umana, come l’evoluzione organica, scaturisce dall’azione ritmica delle grandi forze cosmiche - una delle quali è centrifuga e distruttiva - e ci dice come questi processi distruttivi cooperano nella società con le forze di conservazione, allora egli suscita ostilità e viene considerato pericoloso. Questo perché il campo sul quale ha indagato è quello degli uomini.
In realtà il libro è uno specchio nel quale possiamo guardarci. Esso è, anzi, di più. E’ come un telescopio attraverso il quale possiamo vedere i nostri antenati e, quando con un solo sguardo riusciamo a vedere tutte le generazioni del nostri antenati, fino a includere noi stessi, percepiamo quanto piccola sia la differenza, e questa immagine prende un aspetto abbastanza sgradevole. Questo è il motivo per cui esso offende. Il percorrere a ritroso istituzioni, costumi, abiti mentali, idee, credenze e sentimenti, verso le loro origini, cioè le fasi barbariche e selvagge, e vedere la loro base reale, non è cosa gradevole per le persone orgogliose dei propri antenati; per molti nulla è più importante che avere antenati di cui essere orgogliosi.
E’ perfettamente legittimo cercare di dimostrare che i fatti non sono così come descritti nel libro, ma un critico, quando lo fa, deve procedere scientificamente. Egli non deve sprecare i suoi sforzi per dimostrare che vi sono altri fatti che hanno una tendenza opposta. Deve tenere presente quale compito l’autore si è assegnato; e, nel caso di Veblen, deve ammettere che egli si è attenuto tenacemente al campo di indagine prescelto, resistendo alla tentazione - che, come chiunque può vedere, dev’essere stata ben forte - di sconfinare in altri campi e di occuparsi della classe di fatti di opposta tendenza. Senza dubbio egli potrebbe scrivere con forza e competenza un libro sull’“istinto di operosità” come ha fatto con l’“istinto di rapina”, ed è sperabile che possa farlo. Ma, occupandosi di questo libro, il critico non ha il diritto di lamentare che esso non si occupi di altri temi, diversi da quello scelto dall’autore. Infatti è molto più vantaggioso occuparsi di volta in volta di un solo aspetto dell’evoluzione umana. Ben pochi scrittori sono capaci di cogliere distintamente i diversi fattori. Ciò richiede una mente lucida. [830] Quasi tutte le trattazioni che troviamo su questo oggetto altamente complesso sono viziate dal continuo intersecarsi dei settori di indagine, e si finisce in una grande confusione, Wirrwarr. Qui abbiamo un solo oggetto per volta, trattato in modo chiaro e molto aderente, anche a rischio di infastidire le persone, la cui suggestionabilità è così forte da non riuscire a cogliere gli aspetti che non rientrano nel loro proprio campo visivo.

Si può dire che l’autore avrebbe dovuto almeno dimostrare come questa classe molto agiata, e solo in virtù della sua agiatezza, abbia svolto il ruolo maggiore nelle più recenti ricerche scientifiche ed abbia risolto alcuni dei più importanti problemi; che anche la scienza moderna deve così tanto a questa classe sociale quanto tutte le altre classi messe insieme (come dimostrato da de Condolle nella sua Histoire des Sciences et des Savants); che tutte le più importanti “istituzioni”, incluse le professioni dotte e la ricerca scientifica, come Spencer ha dimostrato si sono sviluppate dalle “istituzioni ecclesiastiche” e devono la loro esistenza e il loro carattere moderno a questa tipica classe agiata, il clero, dedito all’“agiatezza derivata” e alle “osservanze devote”; che nessuna classe sociale e nessun essere umano, come giustamente affermano i riformatori sociali, possono svolgere un elevato lavoro intellettuale o coltivare l’intelletto, senza una certa misura di agiatezza e di riposo dal continuo lavoro.
Il nostro autore poteva – così sembra a qualcuno – almeno soffermarsi su questi fatti ben noti e universalmente riconosciuti, che riguardano direttamente la classe agiata. Ma, in primo luogo, egli non si è voluto impegnare nella spiegazione del progresso intellettuale e morale del mondo e, in secondo luogo, questi fatti sono già abbastanza noti e perciò non è necessario sottolinearli; inoltre sembra che lui non provi interesse per questi argomenti triti. Questi fatti non contraddicono nulla di ciò che lui dice: semplicemente sono veri anche essi. Essi sono evidenti, mentre quelli che lui ci dice sono latenti, ed egli sceglie fra i due tipi di argomenti, dicendoci un buon numero di cose che prima non conoscevamo, invece di dirci molte cose che già conoscevamo. In terzo luogo, e principalmente, il suo punto di vista è strettamente economico; lui si occupa dell’argomento in base alle sue proprie competenze e non ha ritenuto di dover entrare in campi più vasti, come gli economisti tanto spesso usano fare. Ne sutor ultra crepidam.


II
In breve, il nostro autore si occupa del problema della ricchezza e tutta la sua trattazione si limita all’aspetto “pecuniario”. Per lui qualsiasi cosa ha un valore pecuniario, che poco ha a vedere col suo valore intrinseco o razionale e che è scaturito da una lunga serie di eventi della storia umana che ha inizio nell’età barbarica. Si tratta di un caso tipico di idee convenzionali da tenere ben distinte dalle idee razionali. Le si può far sembrare razionali solo quando [831] sappiamo e possiamo tracciare la loro storia e vedere come, a prescindere dalle circostanze, non poteva andare diversamente.
Il valore pecuniario di un bene, come ogni altra cosa, è il risultato di cause naturali, ma il succedersi delle condizioni è come un lungo e tortuoso labirinto di cause ed effetti, che hanno alla fine prodotto qualcosa che, visto direttamente, appare irrazionale e assurdo. Ciò non costituisce un’eccezione rispetto alla legge generale della sopravvivenza sostenuta dagli etnologi.
Ogni giurista sa cosa sia una “finzione giuridica”, ma la maggior parte di essi sbaglia nell’immaginare che solo le società evolute siano capaci di creare tali finzioni. Gli studi di etnologia dimostrano che anche le più antiche istituzioni sono un mucchio di finzioni. Il selvaggio è più logico dell’uomo civilizzato. Analizzate la couvade (il padre finge di “covare” i figli appena nati, ndt), considerata dagli etnologi una finzione mediante la quale il sistema matriarcale fu trasformato in patriarcale, senza rottura nella catena logica.

Il valore pecuniario, distinto da quello intrinseco (valore d’uso), ha origini remote e probabilmente ciò non è stato finora mai dimostrato tanto bene. Qui accenniamo solo ad alcuni passaggi, ma bisogna leggere il libro per vederli tutti e per vedere come sono collegati fra loro.
Non appena la proprietà venne riconosciuta come il mezzo principale per assicurare il soddisfacimento dei desideri, la “legge di acquisizione” entrò in vigore e quindi il problema diventò, non quello di come “produrre”, ma quello di come “acquisire” il più possibile con il minimo sforzo possibile.
Il minimo sforzo (parte della formula) è il concetto base della distinzione dell’autore fra “produzione e rapina”. La rapina (prima espropriazione violenta e poi sfruttamento, ndt) è, in confronto alla produzione, molto più facile. La produzione diventò allora sinonimo di enorme fatica.
L’amore per l’attività (produttiva), cioè il piacere immediato di esercitare le proprie facoltà, che è l’essenza dell’“istinto di operosità” (workmanship), difficilmente viene meno e l’“agiatezza” non è per alcun motivo incompatibile con l’attività. Però, l’attività eccessiva – lo sforzo prolungato e faticoso richiesto per la costante riproduzione di oggetti di consumo – è essenzialmente noioso e, quando possibile, si è sempre cercato di evitarlo.
Ma questi oggetti devono pur essere prodotti affinchè si possa godere del loro consumo e l’unico modo per possederli senza produrli è di fare in modo che altri li producano. Per ottenere ciò, viene immediatamente esercitata ogni forma di potere e, da come si è sviluppata la storia dell’umanità, ciò si è configurato come creazione di una classe produttiva dipendente e una classe agiata indipendente.
La più semplice forma (di classe produttiva dipendente) fu la schiavitù e, come l’autore dimostra, i primi schiavi furono le donne; dopo furono i prigionieri resi schiavi, e infine tutti furono schiavi e pochi dotati di privilegi e potere. Mutazioni così vaste naturalmente avvennero gradualmente.
Ora, la cosa più naturale del mondo è che questi due gruppi di persone formassero due grandi classi completamente diverse sotto ogni [832] aspetto. La classe dipendente è bassa, avvilita, degradata; la classe indipendente è alta, nobile, esaltata. Questo non è solo il giudizio della classe più alta, ma anche di quella più bassa. Il rapporto (fra le classi) è riconosciuto da tutti e costituisce ciò che viene denominato regime di status. Tutte le occupazioni della classe dipendente sono, secondo la felice espressione del nostro autore, “umilianti”, e tutte le occupazioni in cui può essere impegnata la classe indipendente devono essere “onorevoli”. Queste occupazioni non devono incrociarsi fra di loro, devono essere completamente differenti.
Le occupazioni umilianti sono tutte quelle industriali, produttive, e quindi i membri della classe agiata non devono svolgere alcuna di esse, pena il sospetto di appartenere alla classe dipendente. Le occupazioni umilianti sono le uniche da considerare “utili” in senso economico, quindi nessun membro della classe agiata può fare qualcosa di utile. La classe agiata trae soddisfazione dall’esercizio delle proprie facoltà, ma questo non deve apportare alcuna “utilità” e deve invece essere caratterizzato dalla “futilità”. Il piacere dell’attività è consentito solo in alcune direzioni, senza creare il sospetto di uno stato di dipendenza o di necessità. Fra queste occupazioni puramente futili troviamo la guerra, la caccia, il gioco, la politica, il comando, gli adempimenti religiosi, ecc.
Vi sono dunque molte modalità secondarie mediante le quali la classe agiata, quando ne ha pieno potere, è capace di divertirsi. Si dice, ad esempio, che un comune divertimento dei nobili Romani fosse quello di abbattere un plebeo e poi pagare un sesterzio, che era l’importo dell’ammenda fissato dalla legge per questo reato; e l’idea di ‘divertimento’, con cui i giovani nobili inglesi si svagavano nel sedicesimo secolo, era quella di sfigurare il viso di un povero incontrato per strada con un bastone appuntito, che essi si portavano dietro a questo scopo. Tutto ciò che viene fatto deve avere la natura di sport, mai di lavoro. Il surplus di energia deve esprimersi in attività assolutamente non lavorative e assolutamente parassitarie, altrimenti si viene espulsi dalla casta.

Tutto ciò dà una qualche idea della natura della fondamentale antitesi che sorse naturalmente, come visto, e che persiste ancora fino ai nostri tempi. La distinzione è stata descritta come “invidiosa” e questa parola è stata criticata, imputando ad essa dei motivi biasimevoli. Ma essa è usata in senso letterale, come ciò che ha invidia nelle sue proprie radici, perché non è solo la classe produttiva ad invidiare la classe agiata, ma ogni membro della classe agiata cerca sempre di provocare invidia negli altri membri della sua stessa classe.
Anche se tutti i membri della classe agiata sono esentati dal lavoro, essi non sono assolutamente uguali nella loro capacità di spendere e, poiché non vi è alcun limite alla possibilità di [833] ostentare i loro futili consumi, nessuno riesce ad avere quanto vuole per superare e oscurare i suoi rivali. Si instaura così, non solo una gerarchia in base alla ricchezza, ma una continua competizione per eccellere gli uni sugli altri. La ricchezza diventa la base della stima. Il criterio diventa solo pecuniario. La ricchezza non deve solo essere posseduta, ma bisogna anche dimostrare ciò. Deve essere chiaro a tutti che si ha a disposizione una riserva finanziaria inesauribile. Quindi l’agiatezza deve essere resa nota attraverso l’ostentazione dei consumi e dello spreco. Se un sufficiente numero di persone adatte allo scopo potesse vederlo e conoscerlo, sarebbe un fatto onorifico quello di accendere un sigaro con un biglietto di mille dollari.
Un uomo non può limitare i consumi a se stesso e alla sua famiglia, egli deve vivere in un palazzo molto più grande di quello che può effettivamente utilizzare, ed ha una vasta schiera di servi e di domestici; apparentemente per soddisfare i suoi desideri ma in realtà per far notare la sua capacità di spendere.
Da questo nasce l’importante principio dell’“agiatezza derivata” e del “consumo derivato”. Anche la maggior parte di questi servitori deve essere esentata dal lavoro produttivo, così come le donne della sua famiglia devono assolutamente essere improduttive ed inattive. Nel moderno sistema di sfruttamento semi-industriale e quasi-predatorio da parte della borghesia, il capitano d’industria deve dirigere le sue attività e quindi sembra forse darsi da fare per qualcosa di utile, ma, come in un castello feudale, le apparenze devono essere salvate ed a sua moglie si estende la “performance di agiatezza” e la dimostrazione della sua capacità di spesa per cose inutili. Egli le conferisce una agiatezza derivata, e lei, nell’abbigliamento e nei rapporti sociali, dev’essere in grado di dimostrare queste capacità di consumare e sprecare senza limiti.
Si vedrà che ciò avviene completamente applicando la legge fondamentale dell’economia politica: il massimo rendimento col minimo sforzo. Ma se la creazione di un oggetto è di per sé un’attività gradevole, lo sforzo inteso in senso economico è solo quello industriale, produttivo, utile.
In origine le principali occupazioni onorifiche erano la guerra e la caccia, sviluppatesi nella fase precedente, nella quale entrambe erano più o meno produttive. La guerra per il bottino cedette poi il passo a quella per i prigionieri, cioè gli schiavi a cui far svolgere il lavoro produttivo, e infine la caccia perse completamente il suo valore produttivo e fu trasformata semplicemente in sport. Prova ne è il disprezzo, ai nostri giorni, per il bracconiere e colui che va a caccia per profitto.
Inizialmente lo sfruttamento fu sempre di tipo predatorio; ora esso è diventato ciò che il nostro autore definisce “quasi-predatorio”. Non c’è oggi maggiore rispetto per la giustizia effettiva di quanto ce ne fosse allora, ma lo sfruttamento deve avvenire secondo le leggi imposte dalla classe sfruttatrice, e così apparentemente abbiamo una giustizia. Il fine è di acquisire ricchezza ad ogni costo, ma non è sufficiente [834] dire che esso sia raggiunto senza badare che qualcosa venga prodotta oppure no: tutte le acquisizioni devono essere realizzate senza lavoro, pena l’esclusione dalla classe agiata.

Nessun biologo può sbagliare osservando la somiglianza fra il mondo organico e molti dei fatti esposti in questo libro. Lo spazio non ne consente l’enumerazione completa, ma non si può non notare, fra i tanti fenomeni di spreco nella natura, quello dei caratteri sessuali secondari, come nel caso delle corna del cervo e la coda sgargiante del pavone.
Questi fenomeni possono essere paragonati alla dispendiosa moda degli uomini, così come enumerati nel capitolo sui “Canoni pecuniari del gusto”. La principale differenza è che la natura, nel produrre questi organi inutili e scomodi, ha realmente conferito ad essi un alto grado di intrinseca bellezza - e questo vale anche secondo il giudizio dei gusti umani - mentre i prodotti della moda umana, basati sul canone della bellezza pecuniaria, cioè il loro costo, sono degli inutili impedimenti nei movimenti e non hanno la minima pretesa di costituire un modello razionale del gusto.

La teoria dell’autore sui mutamenti della moda è geniale e deve essere ritenuta ampiamente corretta. La sgradevolezza determinata dal suo costo superfluo, rende una moda intollerabile da sopportare per un lungo periodo di tempo, sicché il senso estetico, anche quello della classe agiata, impone di cambiare; ma le nuove mode non possono essere migliori, perché anch’esse sono caratterizzate dalla “rispettabile futilità” e dallo “spreco vistoso”, che sono necessariamente offensive del gusto, il quale si fonda invece sull’istinto dell’operosità. Anche esse quindi devono presto cedere il passo ad altre, a loro volta non migliori delle precedenti, e così via indefinitamente.
Vi è un eterno conflitto fra bellezza pecuniaria e bellezza razionale, le quali sono incompatibili, ma in cui prevale sempre la prima, e tutto ciò che la seconda può fare è di condannare il prodotto e costringere la vincitrice a proporne un altro.

Il libro spiega l’origine di un gran numero di istituzioni, costumi, consuetudini e convincimenti, di cui evidenzia chiaramente l’origine barbarica. Sarebbe inutile cercare qui di farne l’elenco e ne cito solo alcuni dei più curiosi, come l’esenzione delle donne dal lavoro (agiatezza derivata); abuso di alcolici e sperpero; decorazioni costose e antiestetiche; l’immunità per i crimini compiuti su vasta scala; evoluzione dei cerimoniali religiosi che richiamano lo stadio tersicoreo della danza; l’istruzione superiore, o “classicismo”; preferenza per i beni prodotti a mano, che sono di qualità inferiore rispetto a quelli industriali; amore per l’arcaismo in generale; rispettabilità del conservatorismo; degenerazione delle più alte istituzioni culturali; patriottismo, duello, snobismo, sellini inglesi, bastoni da passeggio, sport atletici, cameratismo collegiale, cappello e abito, ecc. [835]

III
L’autore ha certamente usato la lingua inglese con consumata perizia e, a dispetto della sua accusa, egli dimostra una non modesta conoscenza dei classici. Il libro abbonda di espressioni concise, antitesi taglienti e frasi pittoresche ma indovinate. Alcune di esse sono state interpretate come ironia o satira ma, come già detto, questo è il mestiere degli stessi critici. Il linguaggio è chiaro e senza possibilità di malintesi, così come deve essere; lo stile è il più lontano possibile dalla partigianeria come dall’ingiuria, e il linguaggio, per usare le stesse parole dell’autore, è “moralmente incolore”. In alcune parti, se non è classico, probabilmente tende a diventare tale. I termini più frequenti sono già stati usati abbondantemente in questa rivista e le parole e le espressioni particolari vengono virgolettate.
Se lo spazio lo permettesse, molte di queste potrebbero essere citate, come ad esempio, “consumo rispettabilmente dispendioso”, o “spreco rispettabile”, “futilità rispettabile” e “rispettabilità pecuniaria”; e poi parla di alcune cose che danno “vantaggi in direzione dell’inutilità”. D’altra parte abbiamo espressioni come “occupazioni volgarmente utili”, “volgare efficacia” e “infezione da utilità”. Poi abbiamo “animus predatorio”, “metodi quasi-predatori”, “frode predatoria”, “parassitismo predatorio”, “predazione parassitaria”. Molte espressioni incidentali sono notevoli, come “ebbrezza esperta e graduale” e “duello superficiale” degli studenti tedeschi, e la sua affermazione che “l’alta istruzione” conferisce “una conoscenza dell’inconoscibile”. Egli dice che “l’esaltazione del difettoso” e l’ammirazione per “la scrupolosa crudezza” e “l’elaborata inettitudine” sono caratteristiche dei “modelli pecuniari del gusto”. E chi ha notato come gli sport atletici degenerano e siano riservati a pochi professionisti, apprezzerà la sua puntualizzazione che “la relazione fra il calcio e la cultura fisica è identica a quella fra la corrida e l’agricoltura” (l’allevamento, ndt).

Come abbiamo già visto, le due grandi classi sociali sono caratterizzate da un assortimento di parole e frasi fortemente contrastanti; e non solo il loro tipo di attività, ma anche i loro sottostanti istinti vengono definiti con espressioni come “l’istinto della rapina” e “l’istinto di operosità”, “sfruttamento e industria” o “sfruttamento e lavoro”, occupazione “onorifica e umiliante”, attività “superficiali e proficue”, tutte analoghe al contrasto di base fra “futilità e utilità”. In ognuna di queste coppie, il primo termine si riferisce alla classe agiata e rappresenta le condizioni migliori per sopravvivere nella società umana. La classe agiata è biologicamente quella più adatta, socialmente la migliore, l’aristocrazia. [836]

Dell’aspetto generale del libro, come di tutto ciò che viene pubblicato dalla ben nota casa editrice, non c’è altro da fare che apprezzarlo, salvo notare la conservazione di una superflua “u” in parole come “honour, favour, colour” ecc. Chiamare la Festa del Lavoro americano “Labour (anziché Labor) Day” è un evidente caso di “arcaismo” e di “spreco vistoso”, e questo può essere citato in difesa della tesi principale del libro. [837]

Lester F. Ward.

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Nel 1899 Veblen pubblica la sua opera più conosciuta, “La teoria della classe agiata”. La critica non è benevola con lui, perché essa mette a nudo le irrazionalità del comportamento umano e del sistema economico e sociale; ma nell’anno successivo, il 1900, Lester F. Ward (nella foto), sul n. 5 dell’American Journal of Sociology, rivista della quale diventerà direttore nel 1905, pubblica una lunga e appassionata recensione di segno completamente diverso.

Pur non avendo io adeguata padronanza della lingua originale di tale recensione, ho voluto cimentarmi nella sua traduzione, nella speranza di contribuire, pur se in piccola misura, a un giusto riequilibrio fra le ipotesi vebleniane ed altre teorie economiche e sociologiche.
La prima traduzione è stata quasi letterale, ma poi, con piccoli ritocchi, ho cercato una riformulazione più libera, in qualche punto forse arbitraria, che consentisse però una lettura più scorrevole. Sia nel primo che nel secondo caso, sono cosciente di aver potuto, in alcuni punti, non comprendere del tutto correttamente le intenzioni dell’autore o di non averle sapute esprimere nel modo giusto. Poiché su questo blog c’è il mio indirizzo di posta elettronica, mmcataldo@libero.it, invito chiunque a segnalarmi l’opportunità di rettifiche, ringraziando in anticipo per il contributo.
Anche se L.F.Ward non lo ha fatto, ho ritenuto utile dividere il suo scritto in tre parti. La prima è un’accorata difesa di Veblen, una lettura gradevolissima per via dei forti accenti ironici con cui si dimostra la faziosità e superficialità delle precedenti recensioni. La seconda parte è una esposizione sintetica dei principali argomenti trattati nel libro, dunque una intelligente introduzione o guida per gli studenti e i cultori della sociologia. La terza parte è una accurata analisi del linguaggio usato da Veblen, il quale purtroppo, secondo Ward, si scaglia contro il classicismo per poi ricadervi a sua volta. In cauda venenum, ma in quantità veramente esigua.

Io forse do troppa importanza ai motori di ricerca del web, quasi fossero, come le agenzie di rating, capaci di attribuire un voto anche ai pensieri e ai pensatori. Però non posso non notare che il nome di Veblen appare in una infinità di pagine in lingua inglese, intervallate solo da sporadiche pagine in italiano: migliaia di articoli e monografie nella prima lingua e qualche paginetta nella seconda. E’ vero che il linguaggio di Veblen è un po’ tortuoso, perchè a pagine sferzanti e coinvolgenti seguono talvolta divagazioni che confondono le idee, tanto che il primo traduttore della sua opera in italiano, il Prof. Franco Ferrarotti, lo definisce “anfrattuoso”(1). Questo però non è sufficiente a giustificare l’ombra calata su di lui in Italia. Da noi la politica ha inciso più che altrove sul libero pensiero, e se la destra, secondo me a ragione, ha visto in Veblen un rivoluzionario, la sinistra, secondo me a torto, anziché vedere in lui un pensatore da innestare sul pensiero marxiano per nuovi e più promettenti ramificazioni, vi ha scorto anch’essa un suo concorrente o avversario.

L’idea di proporre la recensione di Ward in italiano nasce indubbiamente dal mio apprezzamento per essa. Tuttavia devo precisare che l’ultima frase del penultimo paragrafo (“La classe agiata è biologicamente quella più adatta, socialmente la migliore”) mi lascia un po’ dubbioso. Certamente chi riesce a ottenere una grande quantità di beni senza produrli è più furbo e coraggioso degli altri, più capace di trarre vantaggio dalle situazioni (fittest), ma basta questo per dire anche che è socialmente il migliore (best)? Nel capitolo VIII del libro dal titolo “Esenzione industriale e conservatorismo”, Veblen dice:

“La classe agiata è in gran parte al riparo dall'influenza di quelle esigenze economiche che prevalgono in ogni moderna società industriale altamente organizzata. Le esigenze della lotta per i mezzi di sussistenza sono meno pressanti per questa classe che per qualsiasi altra; e come conseguenza di questa posizione privilegiata, noi dobbiamo aspettarci di trovarla una delle classi sociali meno aperte alle esigenze, che la situazione pone, di un ulteriore sviluppo di istituzioni e di un riequilibrio a una situazione industriale mutata. La classe agiata è la classe conservatrice. Le esigenze della generale situazione economica non incidono liberamente o direttamente sui membri di questa classe. Ad essi non si richiede, pena la rovina, di cambiare le loro abitudini di vita e i loro modi di vedere teorici secondo le esigenze di una mutata tecnica industriale, poiché essi non sono in senso pieno una parte organica della società industriale. Per questo tali esigenze, nei membri di questa classe, non creano prontamente quel grado di disagio verso l'ordine esistente, che solo può condurre qualunque gruppo di uomini ad abbandonare i suoi modi di vedere e le sue maniere di vita divenute abituali. L'ufficio della classe agiata nell'evoluzione sociale è di rallentare il movimento e di conservare ciò che è fuori moda.”(2)

Cataldo Marino

Note
1. Appendice a: Gaston Bouthoul, Storia della Sociologia, Armando Editore, Roma, 1966, pag. 134
2. Classici della Sociologia, Opere di Thorstein Veblen, UTET, 1969, pag. 207

Il testo originale della Recensione in lingua inglese è disponibile sul sito http://archive.org/index.php  alla pagina
http://www.archive.org/stream/americanjournalo05chicuoft#page/828/mode/2up
Nella traduzione sono stati indicati i numeri delle pagine corrispondenti a quelle del libro.
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