sabato 30 aprile 2011

Nè metro nè bilancia

E’ l’espressione con cui un bravo e scrupoloso collega della mia scuola in una riunione respinse il tentativo di trovare sistemi di misurazione oggettivi per il rendimento scolastico degli alunni. Noi insegnanti, questo dovrebbe essere il significato dell’espressione, non possiamo misurare con precisione l’input e l’output culturale della scuola come fa un imprenditore con le merci. Questo - attraverso calcoli di spese particolari e generali, incassi per le merci vendute, valutazione per altro sempre incerta delle rimanenze di magazzino e altre poste di bilancio – può, sia pur con una certa approssimazione, determinare il valore aggiunto dalla sua attività alle merci. Come fa invece un insegnante a quantificare con esattezza il grado di maturazione di un alunno all’inizio e alla fine di un anno scolastico e il grado di conoscenze acquisite in quell’ arco di tempo?

Avendo l’ obbligo giuridico di dare dei voti in decimi, l’insegnante finisce per metter dei numeri sul registro in occasione delle verifiche scritte ed orali. Questo adempimento crea però, negli insegnanti che avvertono la delicatezza della questione, dubbi morali e problemi psicologici per due ordini di motivi.
Il primo e più immediato è la consapevolezza che, in un colloquio o nell’esame di un elaborato, la rispondenza fra ciò che sta nella mente e nell’animo dell’allievo e il voto, che l’insegnante deve attribuire, è sempre alquanto approssimativa, c’è sempre un insopprimibile elemento di soggettività. La sofferenza psichica, che l’operazione può determinare, si attenua col passare degli anni, perché ci si fa l’abitudine, così come un chirurgo col tempo fa l’abitudine nell’usare il bisturi sulla carne viva dei pazienti; è però una sofferenza che può diminuire, ma mai scomparire del tutto.
Il secondo tipo di problemi è di natura deontologica. Insegnare significa trasmettere conoscenze e valori e l’efficacia di tale azione dipende da molte variabili: 1) I contenuti da trasmettere sono decisi liberamente dall’insegnante oppure da un altro soggetto da cui egli dipende? 2) I tempi e le modalità del rapporto educativo sono scelti liberamente dal maestro e dall’allievo o sono predeterminati da una volontà esterna ai soggetti di tale rapporto? 3) Il docente ama e conosce bene le cose che vuole insegnare ad altri? 4) Il docente ha affinato l’ “arte” di trasmettere agli allievi le sue conoscenze e i suoi valori? 5) L’allievo partecipa al processo educativo per sua libera scelta o perché costretto dalle leggi dello Stato o per non dare dispiaceri ai genitori?
Queste e tante altre condizioni soggettive ed oggettive influiscono nella modulazione del rapporto fra i due soggetti e nella quantità e qualità dei mutamenti che si ottengono nella personalità e nelle conoscenze dell’allievo.
Ora, a parte il problema già esaminato della possibilità di misurare questi cambiamenti, dobbiamo chiederci, e qui subentra l’aspetto deontologico, se l’ insegnante debba controllare l’entità di questi cambiamenti e soprattutto se debba alla fine esprimere un giudizio di valore sull’allievo. Anche se il diritto positivo di tutti gli Stati moderni dà a tal proposito una risposta affermativa, dal punto di vista professionale e morale la risposta non è così semplice.

Nella storia della cultura occidentale abbiamo avuto molti filosofi e molti profeti che ci hanno lasciato grandi insegnamenti; pochi sono però quelli di cui conosciamo il “modo” di insegnare. Fra questi un posto di rilievo occupano Socrate e Gesù, i quali non si sono limitati a creare idee e valori nuovi, ma ne sono diventati personalmente divulgatori. Forse non è esercizio puramente intellettualistico prendere in esame, sia pur brevemente, come questi due grandi maestri hanno impostato il rapporto educativo.
1) Entrambi stabilivano al momento quali erano gli insegnamenti da dare, a seconda delle circostanze, e certamente nessuno ha mai loro imposto di trattare una serie di argomenti predeterminati in un tempo prestabilito. Non diamo quindi per scontato che l’organizzazione della scuola pubblica renda inevitabile un sistema formativo con contenuti, metodi e tempi prestabiliti. L’ansia di fare determinate cose, in determinati modi e in tempi prestabiliti è il motivo principale dei fallimenti scolastici e degli abbandoni.
2) Entrambi parlavano ai discepoli di cose che amavano e conoscevano profondamente. Se fosse accaduto quello che a volte succede oggi ed avessero dato una cattedra di religione a Socrate ed una di filosofia a Gesù, il corso della storia sarebbe stato diverso da quello che conosciamo.
3) Entrambi sapevano come catturare l’attenzione dei discepoli, come tener viva quell’attenzione, come metterla a frutto per insegnare; Gesù faceva ricorso alle parabole perché parlava a persone con basso livello di istruzione; Socrate faceva giungere i discepoli alle stesse sue conclusioni con una serie di passaggi logici, a volte complicati, ma comunque alla portata degli interlocutori.
4) Gli allievi andavano spontaneamente e con desiderio agli incontri con i loro maestri; anzi, nel caso di Gesù, vivevano col loro maestro. E’ difficile, lo sanno bene soprattutto gli insegnanti di oggi, comunicare con chi ci sta davanti solo perché vi è stato costretto coi ricatti fisici o morali.
5) Per Socrate e Gesù gli allievi non erano tutti “uguali”, però essi si guardavano bene dall’umiliare con giudizi affrettati quelli più pigri o meno brillanti. Socrate non si stancava di dialogare con l’interlocutore, finchè non riusciva a fargli capire i suoi errori logici, e la tenacia con cui affrontava l’impresa determinava quasi sempre un successo: l’ironia era un metodo di comunicazione non uno strumento di giudizio. Quanto a Gesù non c’è dubbio che non abbia mai rimproverato qualcuno per non aver capito, ma solo eventualmente per “non aver voluto capire”: i suoi insegnamenti erano di natura morale ed egli pensava che alcuni avessero convenienza a non capire; bocciava eventualmente la cattiva disposizione d’animo, non la difficoltà di intendere.

I due grandi maestri di cui si è finora parlato dunque non hanno mai usato metro o bilancia per misurare i frutti del loro lavoro, non hanno mai dato voti, non hanno mai intimorito nessuno registrando giudizi.
Dovrebbero imparare a meditare su questo genere di problemi i nostri ministri dell’istruzione, prima di metter mano alle riforme ed inondare la scuola di “livelli standard”, programmazione, efficienza ed efficacia, raggiungimento di obiettivi, strategie educative e castronerie varie.

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Tratto dal saggio "Il disagio degli insegnanti - La crisi della scuola di fronte alle riforme" da me pubblicato nel 2000 e presente sul web alla pagina



(Nella foto Testa di Socrate, scultura di epoca romana conservata al Museo del Louvre).

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giovedì 14 aprile 2011

Concorrenza monopolistica: l'inganno

“Libero mercato”, due belle parole di cui riempirsi la bocca. “Libero” rende felice il bambino che vuole correre incontro ai suoi giochi, e il misogino che a cinquant’anni vuole ancora poter fare le ore piccole al bar sotto casa. “Mercato” elettrizza la massaia che vuole trovare le scarpette giuste a buon prezzo e il self-made man che dai quindici anni in su ha imparato a comprare a 100 e vendere a 200. Peccato che il mercato, una volta libero dagli impedimenti dello Stato, si sia autodistrutto per dare luogo a qualcosa di libero sì, ma che di mercato ormai ha ben poco.

Quando una volta si parlava di mercato, ci si riferiva alla sua forma più nobile: la “concorrenza perfetta”. Un sistema di relazioni economiche contraddistinte dal fatto che tante persone offrivano una certa merce e, fra loro, vendeva di più chi lo faceva al prezzo più basso. Il presupposto principale di questo meccanismo era che il consumatore fosse un essere perfettamente razionale e capace di sottrarsi ad ogni inganno. La verità è invece ben diversa. L’uomo è un essere complesso e, senza scomodare Platone con i suoi due cavalli condotti da un unico auriga, con l’aiuto di Ralph Dahrendorf e di qualche altro studioso di scienze sociali abbiamo capito che, accanto al modello dell’homo oeconomicus esiste anche quello dell’homo sociologicus e che le differenze fra i due hanno un certo rilievo nell’interpretazione del suo comportamento concreto.

Entrambi in fondo vogliono la stessa cosa: vivere nel modo migliore possibile. Le strade però già a questo punto si dividono. Per l’economista, aiutato nell’economia moderna a quantificare ogni cosa con l’unico metro di misura della moneta, il vivere bene si concretizza nel guadagno e nell’accumulazione di beni. Per il sociologo invece il vivere bene dipende dalle gratificazioni psicologiche ottenute nella società: il metro di misura cambia, non è più la moneta ma i saluti, i sorrisi, le simpatie, le complicità, tutte cose che lo psichiatra Eric Berne, accomunandole, chiama “carezze sociali”.

Quando andiamo al mercato (negozietto, supermarket, boutique o autosalone che sia), facciamo veramente come prevedono gli economisti? Cioè scegliamo veramente il prodotto che ha il miglior rapporto qualità-prezzo? Oppure ubbidiamo, come dice il sociologo, all’approvazione degli altri? In questo secondo caso potremmo comprare un vestito più costoso solo per far vedere agli amici ed ai colleghi di lavoro che “siamo dei loro”, siamo allo loro altezza e magari anche un pochino più su. Ma perché poi a loro volta i nostri amici dovrebbero considerare un prodotto migliore di un altro? I motivi sono tanti. La pubblicità - di cui oggi si nutrono le tv, i giornali e internet – è una tecnica raffinatissima che collega un prodotto a un simbolo che ti qualifica. Insomma non siamo solo ciò che mangiamo, come sosteneva Feuerbach , ma più in generale siamo ciò che compriamo e che possiamo esibire agli altri.

Quando penso a questo, non posso non pensare anche al “cane di Pavlov”. La presenza di un suono anticipava sistematicamente la somministrazione di cibo: Pavlov misurò la quantità di secrezione salivare prodotta dal cane e constatò che a un certo punto questa aumentava alla sola percezione del suono, simbolo del cibo, ancor prima della sua somministrazione. Molti psicologi nel ‘900 hanno ampliato le conoscenze della psiche umana. Quelli della gestalt ci hanno insegnato che l’uomo, in una immagine o in una situazione, percepisce prima il tutto e poi le singole parti, mentre gli psicanalisti hanno scavato nel profondo, per trovare il doppio di ogni uomo nella zona recondita dell’inconscio. Tuttavia sembra che, ai fini dei pubblicitari, lo schema stimolo-risposta del vecchio biologo russo ancora funzioni. L’uomo non è certamente così semplice come il cane, ma nei comportamenti quotidiani sembra che non sia neppure tanto più scaltro.

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Del fatto che le cose stiano veramente come dicono psicologi e sociologi anziché come sostenuto dagli economisti, si trova conferma nel mutamento avvenuto nella forma di mercato nell’ultimo secolo nei paesi economicamente sviluppati. Siamo passati dalla “concorrenza perfetta” alla “concorrenza monopolistica”. Nella prima, ottocentesca, ogni merce aveva più o meno le stesse qualità a prescindere dal produttore, veniva venduta “sfusa” (ogni acquirente doveva procurarsi il suo contenitore) e, oltre al prezzo, l’unico criterio con cui l’acquirente sceglieva il fornitore era la vicinanza fisica, perché per i tragitti più lunghi si andava a piedi. Nella seconda forma di mercato, se anche la qualità di una merce non è migliore di tutte le altre, a farla diventare tale ci penseranno la pubblicità e il marketing, in parole povere le “tecniche di vendita”, una “disciplinazza” (mi concedo l’uso del termine per sottolinearne l’estensione e la negatività), che studia come irretire il consumatore. La distanza non è più un problema: prendiamo l’auto anche per andare all’edicola a trecento metri da casa!

In tanti ci hanno avvertito del fatto che - esempio classico - i detersivi sono tutti uguali e che conviene comprare quello meno costoso. Ma poi come facciamo a dire alle amiche che usano Perlana, che noi ne usiamo uno diverso e di minor prezzo? Uno potrebbe dire che non è necessario dire tutto alle amiche. Questo non è sufficiente per evitare il disagio, perché le norme sociali, anche quelle di minore importanza come questa, valgono solo se interiorizzate, e siamo dunque noi stessi a giudicarci male se compriamo qualcosa di meno prestigioso. E l’autostima… crolla!

Tutto questo i venditori, gli studiosi di marketing e i grafici pubblicitari, non solo lo sanno, ma ne sono addirittura gli artefici. Sono loro che vogliono un mercato di concorrenza monopolistica per poter aumentare, contemporaneamente, le vendite ed i prezzi, in pratica il profitto. Però non vengano poi a predicare, con le trombe dei politici a loro affini o conniventi, che il risultato massimo per tutta la collettività è ottenibile col “libero mercato”. Poteva anche essere vero ai tempi di Adam Smith. Oggi le cose sono cambiate. In peggio, molto peggio.


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