mercoledì 19 giugno 2013

Prof. Giorgio Braga, Le forme elementari della società, Trento, 1964

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Le pagine che seguono vogliono ricordare e rendere omaggio ad uno dei primi docenti di sociologia in Italia, il prof. Giorgio Braga. Non ebbi il piacere di seguire le sue lezioni presso l’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, perché il primo anno iniziai a frequentare con alcuni mesi di ritardo. Ma nell’autunno del ‘67, per l’esame di Istituzioni di Sociologia, mi accinsi a studiare con passione i suoi libri: “Introduzione al metodo”, “Le forme elementari della società”, “I quadri strutturali”.
All’epoca quell’ateneo raccoglieva da tutta Italia docenti molto autorevoli, fra i quali, oltre al prof. Braga, voglio ricordare Franco Ferrarotti, Filippo Barbano, Mario Volpato, Francesco Gentile, Fabio Metelli, Carlo Tullio Altan, Gino Barbieri, Tullio Tentori, Luigi Meschieri, Guido Baglioni, Sabino Acquaviva, Franco De Marchi, Beppino Disertori, Giuseppe Bellone, Guido Petter e Alberto Izzo, generoso nel seguire i miei lavori finali per la tesi.
Giorgio Braga, vice-direttore dell’Istituto, fu il docente che tenne nel ’62 la prima lezione nell’ateneo appena fondato. L’esame nella sua disciplina era una discriminante per la serietà degli studi. Oltre alla lucidissima sintesi sistematica della materia, insegnata e contenuta nelle sue pubblicazioni, bisognava studiare diversi altri testi e dispense.

Sorse però, lì prima che in altri atenei, il Movimento studentesco. Provenendo dalla Giovanile comunista, io guardai all’inizio con simpatia i suoi possibili risvolti politici, ma quando, come oggi sottolinea il filosofo Diego Fusaro, questo movimento mise in secondo piano le rivendicazioni di classe in favore di più generici diritti civili, mi dedicai agli studi e basta. A quel movimento non rimprovero le sue impostazioni di fondo e ricordo con grande rispetto la figura del suo vero, forse unico, leader Mauro Rostagno. Di esso tuttavia non accettai alcune cose, in primo luogo la contestazione di un corpo docente così autorevole.
Fu proprio per questo tipo di contestazione che docenti come Braga vennero messi in ombra a favore di docenti come Francesco Alberoni che, col doppio gioco, prima strizzarono l’occhio al Movimento, per poi imbrigliarlo dopo un paio di anni e passare nelle file di Berlusconi venti anni più tardi. E mentre oggi il prof. Alberoni si pavoneggia sul ‘Corriere’ con articoletti per le massaie, sbrindellando la sociologia con argomentazioni prive di ogni fondamento metodologico, del prof. Braga non resta traccia.
Tutto c’è oggi su internet, ma, a digitare il nome del prof. Braga, se si escludono la presentazione di un suo libro su Wikipedia e un fugace cenno del maggio 2012 su questo blog, non si trovano dieci parole messe in fila che ricordino le sue qualità di ricercatore e di docente. E’ per rimediare, per quanto a me possibile, a questo vuoto, che ho deciso di riportare qui gli stralci di alcune sue pagine. Mi auguro che qualcun altro dei suoi ex allievi o colleghi di Trento, primo fra tutti l’allora suo assistente prof. Giuliano Di Bernardo, rileggendolo, senta il bisogno di fare qualcosa di simile, magari un breve ricordo o una qualche considerazione.

Le pagine che seguono non sono certo di facile lettura per chi non ha una certa dimestichezza con alcuni termini e concetti sociologici. Io ho però cercato di semplificarle, eliminando alcune parti che ritengo non indispensabili per cogliere il filo conduttore del discorso. Per facilitare la lettura voglio inoltre precisare in anticipo il significato della parola ‘attore’, usata dall’autore all’inizio di questo scritto.
Il termine ‘attore’ è da intendere, non nel senso restrittivo di interprete di un film, ma nel senso etimologico di ‘persona che agisce’, ed è perciò riferibile a ogni uomo. Ma, in fondo, la cinematografia proprio a questo significato si richiama quando, per riprendere una scena, si dice “Ciak, azione!”.
Dopo aver spiegato che dell’attore conosciamo le azioni subite e le azioni compiute, ma non il meccanismo interno che collega questi eventi esterni, il prof. Braga cerca di pervenire, secondo i due criteri della finalizzazione e della complementarietà, ad una tipologia delle azioni umane. Ricorriamo al criterio della ‘complementarietà’ quando partiamo dal presupposto che l’agire umano è determinato prevalentemente dalle aspettative delle persone con cui veniamo a contatto e dalle norme di comportamento prescritte dallo ordinamento sociale. Ricorriamo invece al criterio della ‘finalizzazione’ quando partiamo dal presupposto che ogni persona cerca di raggiungere i propri fini anche indipendentemente dalle aspettative altrui; queste ultime vengono sì previste, ma solo in modo strumentale, per poter superare gli ostacoli frapposti al raggiungimento dei propri fini o per avvalersi dei vantaggi offerti.
Sono consapevole che questa succinta presentazione dell’argomento non può rendere piena giustizia al testo che segue, e questo salterà immediatamente agli occhi dalle pagine successive; con essa ho solo inteso indicare i punti di partenza e di arrivo della rigorosa esposizione del prof. Braga.
Alcune parole messe fra parentesi sono mie e sono utilizzate per ricucire il discorso in seguito allo stralcio di qualche rigo.

Cataldo Marino

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L’ “attore” come costrutto ipotetico

"Se potessimo stabilire in guisa univoca un rapporto fra azioni in entrata negli ed azioni in uscita dagli individui partecipanti ad un processo sociale, noi non avremmo necessità stretta di introdurre quel costrutto ipotetico che è l’ “attore” […] Il concetto di “attore”, costrutto ipotetico in quanto meccanismo interiore, ma esternamente denotabile, ci richiama il concetto di “scatola nera” dei teorici della “Cibernetica”, cioè di un apparato di cui si sanno le prestazioni esterne, ma non il meccanismo interno, che può essere ipotizzato a piacere.

Un costrutto ipotetico può essere sostituito a piacimento con un altro costrutto ipotetico, purché si parta dagli stessi dati sperimentali e le deduzioni verificabili, che se ne possono trarre, siano le stesse.
Nulla vieta dunque al sociologo di costruire il concetto di “attore”, ignorando, se crede, gli apporti degli psicologi. […] Resta (tuttavia la possibilità di ricorrere a qualcuno di essi), specie a quelli […] che si interessano a forme socialmente rilevanti. […] Esaminiamo dunque la recente rassegna delle teorie dell’apprendimento fatte dall’Hilgard, (il quale) ha trovato due gruppi di teorie contrastanti, non riducibili le une alle altre, anche se ambedue con la pretesa di poter spiegare tutti i fenomeni di apprendimento:
1) le teorie del tipo “stimolo e risposta”, che sottolineano il “condizionamento” delle azioni a stimoli (anche semplici percezioni, rappresentative o simboliche) associati in precedenza ad altre azioni;
2) teorie del tipo “conoscitivo, che danno risalto all’azione cosciente, per cui la dinamica delle motivazioni si svolge entro un quadro situazionale o cognitivo, appreso in gran parte per il tramite di percezioni e comunicazioni. […]
Ci troviamo dunque di fronte a due modelli distinti dell’attore, che sociologicamente potremo definire:
1) Il modello automatizzato, indicato spesso come meccanicistico od anche, con dubbia proprietà, irrazionale;
2) Il modello decisorio, indicato spesso come volontaristico, o anche, con dubbia proprietà, razionale.

Il modello automatizzato riesce a coprire i comportamenti sociali inconsci e quelli consci più elementari, ma non quelli più complessi. Viceversa il modello decisorio copre i comportamenti consci, compresi quelli più complessi – entro cui vi sono fenomeni di previsione, decisione e controllo – ma non quelli inconsci, spesso mascherati da epifenomeni di coscienza (razionalizzazioni, derivazioni paretiane, ecc.). La difficoltà di unificare i due modelli si è dimostrata, a tutt’oggi, insuperabile. Ciò condizionerà pesantemente i nostri ulteriori ragionamenti, i quali non si presenteranno di norma, entro un discorso unitario, ricostruzione realistica o tipica del mondo fenomenico, bensì per un duplice discorso, il quale porrà dei limiti ideali, fra i quali si svolgono i fenomeni reali.

Le dimensioni del campo sociale

Il campo sociale è la parte del mondo fenomenico entro cui operano gli attori. Esso, come tutte le porzioni del mondo fenomenico, ha una dimensione spaziale, o sincronica, ed una dimensione temporale, o diacronica.
Se noi consideriamo solo la dimensione sincronica, […] possiamo distinguere entro il campo:
- gli attori (o, se vogliamo essere precisi, tutti quei fenomeni che riferiamo agli attori);
- la situazione, concetto residuo, che comprende quanto nel campo non è attribuito agli attori.
Attori e situazione stanno interferendo fra di loro, per cui dalla situazione si distaccano: 1) gli elementi su cui gli attori esercitano la loro influenza (strumenti dell’azione); 2) gli elementi che esercitano la loro influenza sugli attori (vincoli dell’azione). D’altra parte, poiché gli attori sono più di uno, vi sono rapporti di interferenza fra gli attori. […]
Riesaminiamo il campo sociale dopo un certo lasso di tempo; ritroveremo ancora attori e situazione, però modificati. Quelle modifiche che sono dovute all’azione, chiameremo risultati dell’azione.

Se il modello dell’attore fosse quello ‘automatizzato’, conoscendo campo di partenza e leggi dell’azione potremmo preveder il campo d’arrivo. Mantenere il costrutto ipotetico dell’attore potrebbe essere utile, ma […] non indispensabile.
Ma, se considero il ‘modello decisorio’, devo ammettere, oltre alla temporalità attuale, una temporalità virtuale, cioè una capacità degli attori di previsione delle possibili future situazioni, ed una scelta fra i possibili risultati dell’azione. Tali risultati prescelti diremo fini dell’azione. L’introduzione della temporalità (virtuale) entro lo schema sincronico, e con esso dei fini, modifica la stessa descrizione del campo. Infatti, entro al campo, non devo considerare solo:
- gli strumenti attuali, ma anche quelli virtuali, comprendendoli sotto il temine complessivo di mezzi;
- i vincoli attuali, ma anche quelli virtuali, comprendendoli sotto il termine complessivo di condizioni.
Si noti che, così facendo, il limite fra mezzi e condizioni con la situazione residua, appare meno netto che non quello fra strumenti e vincoli con la detta situazione, poiché basta l’interesse di un attore a trasformare un fenomeno neutrale in mezzo o condizione.

Diremo finalizzazione dell’azione questo processo di inserimento dell’azione nella temporalità virtuale. La finalizzazione avrà una sua “portata” virtuale. Si possono anche considerare diversi livelli coesistenti di portata; per cui ciò che è un fine entro un livello di minore portata, può essere un mezzo in un livello di portata maggiore, mentre un mezzo idoneo entro una finalizzazione ravvicinata, potrà non esserlo entro una finalizzazione più profonda. […]
Anche l’interferenza fra azioni viene a trasformarsi, considerando il modello decisorio, in qualche cosa di più complesso che diremo complementarietà: per la quale gli attori tengono conto anche delle interferenze virtuali, sia a fini competitivi che collaborativi. Si noti, ancora, che certe interazioni gratificanti possono divenire fini per gli attori; in tal caso complementarietà e finalizzazione si confondono.
Abbiamo così identificato nella finalizzazione e nella complementarietà i due criteri analitici di base per l’ordinamento delle azioni. […]

L’ordinamento delle azioni secondo le due dimensioni è profondamente diverso, in quanto mentre la complementarietà implica una regolarità secondo le aspettative degli altri attori, la finalizzazione richiede significanza per singolo attore, che può anche proporsi di agire in modo del tutto inopinato per gli altri attori.
L’azione che non è ordinabile secondo l’uno o l’altro dei due criteri, è l’azione “fortuita” che costituisce come un residuo asociale, d’interesse quasi più del socio psichiatra che del sociologo, se non fosse che a quest’ultimo serve come origine o punto zero, da cui si iniziano i due ordinamenti.



Ordinamento dell’azione secondo la complementarietà.

Nell’ordinamento secondo complementarietà, l’azione la cui prevedibilità è massima è quella che potremmo indicare come “adempimento”. L’adempimento è pur esso un’azione piuttosto rara, la cui formalizzazione è estrema, in quanto in esso il rispetto della forma è essenziale a ciò che certi gruppi (soprattutto lo Stato) riconoscano una particola efficacia o validità dell’azione stessa. E’ evidente che fra i due estremi, dell’azione fortuita e dell’adempimento, vi è un continuo di situazioni, che noi possiamo raggruppare in un numero arbitrario di livelli. Una scala che reputi conveniente tre livelli intermedi, è la seguente:

1) azione condizionata, i cui limiti sono stabiliti da vincoli. Che potremo chiamare regole del gioco, non rispettando le quali si incorre in sanzioni, ossia azioni punitive da parte degli altri attori, a titolo personale o di gruppi più o meno estesi. […]
2) azione correlata (relazione sociale), facente parte di una relazione sociale, posizione di equilibrio fra azione condizionata ed azione secondo ruolo; in cui cioè, i ruoli sono ridotti a trame e vi può essere anche un distacco notevole da essi, purché entro limiti posti da regole;
3) azione secondo ruolo, fortemente vincolata dalle aspettazioni reciproche e complementari degli altri attori;

Ordinamento dell’azione secondo la finalizzazione.

Similmente, nell’ordinare secondo la finalizzazione e la sua portata, possiamo indicare come “azione teleologica”, quella che è perfettamente orientata al raggiungimento di un fine, senza limiti alla portata della previsione. Similmente fra azione fortuita ed azione teleologica, possiamo considerare un continuo di azioni, le cui caratteristiche di finalizzazione hanno portata crescente. Qui pure possiamo considerare quanti livelli intermedi vogliamo, e qui pure, per simmetria, ne sceglieremo tre, pervenendo alla scala seguente:

1) azione orientata (alternativa fra azioni), quella che si dirige verso un fine immediato, senza sforzo previsivo, come scelta fra alternative immediate;
2) azione concatenata (concatenazione di alternative), quella che si dirige verso un fine non immediato, ma non troppo lontano (se il fine è assai lontano, l’azione concatenata prende come fine intermedio una situazione più vantaggiosa per il raggiungimento del fine ultimo). Ogni scelta tiene conto delle possibili risposte degli altri attori, e delle successive scelte che tali risposte proporranno;
3) azione strategica, quella che si dirige verso un fine anche lontano, ma raggiungibile entro un numero limitato di mosse. Ogni scelta avviene fra strategie, ossia ogni mossa rende possibile un certo ventaglio di mosse, che tendono al raggiungimento del fine."

.* Brani tratti da: Giorgio Braga, “Le forme elementari della società”, Parte prima: L’accostamento analitico, pagg. 17-26, Quaderni dell’Istituto Universitario di Scienze Sociali di Trento, anno 1964

martedì 4 giugno 2013

Lidia Grimaldi: "Ritorno"

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Il paese compare all’improvviso, all’uscita da una galleria. Ha la testa incappucciata in un costone di roccia e sciacqua lembi di pelle disseccata nel mare. Lo attraverso dalla fine al principio, risalendo le sue gambe distese sulla sabbia sottile, immergendomi nel ventre palpitante di balconi barocchi, fino alla testa profumata di incenso dell'antica cattedrale normanna. Srotolando i volti che incrocio. Cercando quelli di una vita fa.
Il caffé bevuto a metà del percorso è forte e bollente, l’aria punge di salsedine. Dai vicoli salgono profumi di sale e fatica, di fiori appesi ai davanzali e vecchi sogni lasciati sui gradini di una chiesa. Hanno il sapore di ciò che ci appartiene per nascita, come il profilo del naso e la curva dei fianchi.
Mi chiedo se il basolato di questa via riconosca i miei passi come io riconosco ogni sua levigatezza scivolosa, ogni smusso di marciapiede. Se noi manchiamo ai luoghi come i luoghi mancano a noi, quando ce ne separiamo.

Eccomi, sono arrivata. Riesci a vedermi? O sei anche tu come le pietre su cui ho camminato sin qui?
Il giorno che sono partita, mi hai detto: -Segui il tuo destino e non preoccuparti per me-. Avevo vent'anni e non desideravo che preoccuparmi del mio destino. Qualcuno lo chiama egoismo, a volte è solo istinto di sopravvivenza. Ma il confine è sottile e facilmente lo si attraversa senza rendersene conto.
Poi, in un giorno di tregua, ho cercato di tornare indietro. Ma la strada della vita va in una sola direzione, avanti sempre finché ce n’è.
Forse è come hai sempre detto, c’è un destino che ci porta dove è scritto che dobbiamo arrivare, lasciandoci credere di essere liberi e che possiamo tornare a riprenderci quello che ci è sfuggito di mano strada facendo.
Sono venuta a riprendermi il pezzo del cuore che è rimasto con te. Ora che non ti serve più.
L’avevo lasciato qui da qualche parte. Nel tuo armadio, fra le vestaglie di seta del corredo, odorose di sogni, che non hai mai indossato e gli abiti dozzinali che hanno vestito i tuoi giorni senza sorprese.
L’avevo lasciato qui sulla veranda col gelsomino raccolto a profumare le pagine di una vita senza odore.
L’avevo lasciato accanto al tuo cuore rosso come l’amore che hai dato e che nessuno ha raccolto, e su quel molo dove andavi a rubare un po’ di azzurro per colorare giorni senza tinte.
L’avevo lasciato come si lascia la tristezza che rallenta il passo e il dolore che annebbia la vista. Come un bambino che ancora ha bisogno della madre.
L’avevo lasciato perché potesse riscaldare le tue notti di freddo. Affinché tu potessi consolarlo nei miei giorni di rimpianto.
L’avevo lasciato ma forse non ti è mai servito.
Come non è servito molto a me camminare con la metà del cuore da un’altra parte.

Lidia Grimaldi
(a Cefalù e a mia madre)


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Non so se definire prosa o poesia questa pagina di letteratura, una delle più belle che mi sia capitato di leggere. Della narrativa ha la consequenzialità logica e temporale, mentre della poesia ha il palpito della soggettività: la dilatazione e i restringimenti delle immagini reali e la proiezione dei sentimenti nel tempo.
Ho provato forte commozione nel leggerla, perché, nonostante io abbia quasi sempre vissuto nella mia terra d’origine – me ne sono allontanato per quattro anni solo per gli studi – avverto il dramma sotterraneo dei giovani che, per il lavoro, salirono sui treni maleodoranti di ieri e salgono sui velivoli low cost di oggi. Verso terre nuove, sconosciute, talvolta ostili.
Il dramma è sotterraneo perché, al momento della partenza, la giovane età porta ad essere fiduciosi e temerari; ma, col tempo, l’aspetto drammatico è destinato a riemergere, perché è difficile dimenticare i profumi, i colori, gli affetti, le sottili sfumature dei rapporti sociali nei quali la giovinezza si è incarnata.
Queste cose le scienze sociali non le dicono e, se le dicono, le mettono in secondo piano, come fatti quasi marginali. Esse ci danno degli indici approssimativi sul livello economico degli immigrati, sulla loro integrazione nel nuovo ambiente e sulle mutazioni determinate nelle strutture sociali, ma sul terreno della vita interiore devono cedere il passo alle testimonianze, alle confessioni, alla narrazione, al librarsi dei sentimenti attraverso le parole, a volte levigate e a volte aspre, della poesia.

Lidia Grimaldi è nata negli anni Cinquanta a Cefalù, una delle piccole perle delle coste siciliane che per il loro fascino attraggono tanto turismo e dalle quali è difficile allontanarsi senza portarsi dietro tanti ricordi. Appena ventenne si è trasferita in Lombardia, dove ha lavorato come impiegata, ha messo su famiglia ed ora ha la gioia di seguire i primi passi della sua prima nipotina. La sua produzione letteraria è stata profondamente segnata dalla perdita prematura del marito, trauma che permea in modo discreto e impercettibile gran parte dei suoi racconti e delle sue poesie. A partire dal 2007 pubblica i suoi scritti su Descrivendo.com, una piccola ma calda e accogliente community letteraria nella quale è nato, da parte mia, un sincero sentimento di ammirazione per la sua scrittura profonda e delicata.

Cataldo Marino

Altri scritti di Lidia Grimaldi su questo blog:
http://ilsemedellutopia.blogspot.it/2015/12/lidia-grimaldi-letterina-di-natale-al.html
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