lunedì 11 agosto 2014

John Rae, un precursore di Thorstein Veblen

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Sembra che su questo blog le pagine più visitate siano quelle relative al sociologo Thorstein Veblen, della qual cosa sono ben contento, perché trovo in lui un pensiero rivoluzionario potenzialmente non inferiore a quello di Marx. Quest’ultimo auspicava esplicitamente un diverso riparto della ricchezza al momento della ‘produzione’ delle merci, sostenendo un’appropriata azione politica. Veblen auspicava invece un migliore utilizzo del reddito al momento del ‘consumo’, sostenendo implicitamente che, se gli strati sociali inferiori non si mettessero, in qualche misura, in competizione con gli strati superiori nell’acquisto dei beni di lusso e nella moda, il modello economico basato sul massimo profitto entrerebbe in crisi. Il profitto non può sopravvivere senza consumismo.

Da quanto detto risulta evidente la mia grande ammirazione nei confronti di Veblen, ma ho scoperto da poco che qualcosa di molto simile a quanto lui diceva nel 1899 era già stato detto, in un libro di Economia politica, da John Rae nel 1834, cioè sessantacinque anni prima. A evidenziare l’affinità fra i due è stato H. Leibenstein, del quale ho parlato nell’articolo del 14 giugno (“I beni Veblen e la curva della domanda”). Leibenstein, nel secondo paragrafo dell’articolo “Bandwagon, Snob, and Veblen Effects in the Theory of Consumers' Demand” (1950), afferma quanto segue:

“La letteratura precedente sugli aspetti interpersonali dell’utilità e della domanda (dei beni) può essere divisa in tre categorie: sociologia, economia del benessere e teoria pura. Gli scritti sociologici hanno a che fare con i fenomeni della moda e del consumo vistoso e le loro relazioni con lo status sociale […]. Questo modo di trattare l’argomento fu reso famoso da Veblen - anche se Veblen, contrariamente a quanto in molti credono, non fu il primo ad elaborare la teoria del consumo vistoso.
John Rae, scrivendo prima del 1834, aveva già trattato ampiamente il consumo vistoso e la moda, e praticamente aveva sviluppato questi argomenti lungo le linee poi sviluppate da Veblen. Rae attribuisce molte di queste idee ad autori precedenti arrivando a trovare la nozione di consumo vistoso nel poeta romano Orazio; ed una chiara esposizione nell’idea del “voler essere all’altezza dei propri vicini” di Alexander Pope.”.

Quello che dice Veblen è già abbastanza noto. Per Rae, trattandosi di autore ancora poco conosciuto, propongo qui di seguito la lettura di alcune pagine del suo libro “Statement of Some New Principles on the Subject of Political Economy,"(*), del quale ho trovato sul web (www.archive.org) una riedizione del 1905 con un titolo diverso e, forse, anche più appropriato: “The sociological theory of capital”.
In tale edizione compaiono 14 capitoli e una “Appendice” di 8 Articoli; il primo di questi articoli è intitolato “Natura e effetti del lusso” (pagg. 245-276). Il brano che segue è la traduzione da me fatta delle pagine 245-254.
Come per altre mie traduzioni presenti in questo blog, prego i lettori più esperti, che qui trovassero eventualmente qualche inesattezza, di segnalarmela all’indirizzo di posta elettronica mmcataldo@libero.it.

(*) Titolo completo dell'opera: “Statement of Some New Principles on the Subject of Political Economy, Exposing the Fallacies of the System of Free Trade, and of Some other Doctrines Maintained in the " Wealth of Nations"

Cataldo Marino

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John Rae “Teoria sociologica del capitale”, Boston, 1834
Capitolo XI “Natura ed effetti del lusso”
Traduzione di Cataldo Marino

(La vanità e il lusso)

In tutte le circostanze la tendenza generale dell’economia è quella di far progredire la ricchezza delle comunità. Se l’applicazione dei principi di invenzione e di accumulazione procedessero senza ostacoli, la ricchezza di tutte le nazioni aumenterebbe gradatamente e senza interruzione; uno fornirebbe i mezzi per offrire risorse supplementari per i bisogni futuri, l'altro indicherebbe gli scopi per i quali creare queste risorse. Ma vi sono alcuni principi opposti, la cui tendenza è di rallentare l’aumento delle risorse generali o, addirittura, diminuire quelle già esistenti. Di alcuni di essi dobbiamo ora occuparci.

Poiché il prevalere dei sentimenti benevoli e sociali e la forza delle facoltà intellettive sono i fattori che determinano l'incremento della ricchezza, ci possiamo aspettare che la diminuzione di quella ricchezza derivi principalmente dal predominio di principi opposti, e cioè dal dominio dell'egoismo e dal degrado intellettuale e morale della nostra natura.
Il primo di questi principi, del quale dobbiamo considerare il modo di operare, è la vanità; con questo termine io intendo il puro desiderio di superiorità sugli altri, senza alcun riferimento al merito di questa superiorità. Una persona perfetta può essere desiderosa di superiorità facendo il bene, non per l'intento di superare gli altri, ma per il piacere provato nel fare il bene. Un essere molto cattivo può invece trarre soddisfazione dalla capacità di fare il male, semplicemente per il piacere che gli deriva dalla certezza di aver causato agli altri grandi danni. Ma sembra che esista un sentimento, che trova gratificazione semplicemente nel superare gli altri, indipendentemente dal modo in cui ciò avviene.

C’è chi sarebbe contento di eccellere nel vizio, se non fosse che viene frenato dal sentimento morale; c’è poi chi, sarebbe contento di eccellere nella virtù, se non fosse che le tendenze immorali gli impediscono di arrivare a un livello molto elevato di virtù. È questo che, in mancanza di un termine migliore, io intendo con la parola vanità. Si tratta di un puro sentimento egoistico; le sue soddisfazioni sono incentrate nell'individuo; e, se essa non cerca di diminuire i godimenti altrui, il suo scopo non è mai direttamente quello di aumentarli. Quando accade che, nell'agire, agli altri si trasmette un piacere, ciò deriva solo dal fatto che la vanità si è fusa con altri sentimenti.

Lo scopo della vanità è in ogni caso di avere ciò che gli altri non hanno. Uno dei casi più esemplari, da sempre citato, è quello di Cleopatra, quando sciolse una perla molto preziosa (in un bicchiere di aceto, ndt) per poterla bere d’un fiato. Non vi poteva certamente essere alcun piacere nel sapore di quel liquido, che doveva essere piuttosto sgradevole; la soddisfazione consisteva nel bere ciò che altri non potevano permettersi di bere. Apprendiamo da Plinio che a Roma ciò diventò una specie di moda, così come sembra essere stato anche in Oriente.

Ma è raro che questo sentimento si diriga verso beni che soddisfino solo la vanità, beni desiderabili unicamente per la difficoltà di possederli e per la superiorità che il loro possesso implica. La vanità induce piuttosto a preferire quei beni capaci di gratificare anche altri desideri e procurare altri piaceri. La somma di questi altri desideri è spesso molto piccola; ma, se essa è abbastanza ampia da poterli differenziare dai beni completamente inutili, alla vanità ciò sembra sufficiente per il suo scopo. La stravaganza delle pietanze su cui i Romani indulgevano a tavola erano di questo tipo.
Il piacere tratto dai cibi consumati, doveva evidentemente derivare dall'alto prezzo pagato. Un piatto di cervelli d’usignoli difficilmente potrebbe essere considerato un boccone delizioso; tuttavia Adam Smith, citando Plinio, dice che il prezzo pagato per un solo usignolo era di circa sessantasei sterline. Per una triglia se ne pagavano ottanta. Secondo Svetonio, il pranzo di Vitellio non costava mai meno di duemila sterline. I prezzi enormi pagati per vari capi di abbigliamento e di arredamento erano resi possibili solo dalla spinta di desideri dello stesso tipo. Adam Smith valuta in 30.000 sterline il costo di certi particolari cuscini, utilizzati durante i pasti per piegarsi, sdraiati, verso la tavola.

Le cose che la vanità sembra più prontamente ricercare, sono quelle il cui uso o consumo sia più appariscente, e i cui effetti si distinguono più difficilmente. I beni il cui consumo non sia vistoso, non gratificano questa passione. Per nessuna persona la vanità trae soddisfazione dall’uso di un certo tipo di legname adoperato per la costruzione della propria casa, perché il lavoro in legno è generalmente coperto dalla vernice o da altre cose. Inoltre, se i risultati ottenuti possono essere verificati con precisione, il materiale usato raramente può essere considerato un indice di superiorità.
Così il carbone viene consumato per il calore che può produrre, e le diverse quantità di calore prodotte dalle diverse qualità si possono facilmente verificare; quindi difficilmente qualcuno può inorgoglirsi nell’usarne un certo tipo anziché un altro.
Non è altrettanto facile accertare quanto il marmo di cui è composto un caminetto superi, o sia inferiore, in bellezza, varietà e disposizione dei colori, rispetto allo stesso tipo di materiale usato per scopi simili dai propri vicini di casa. La fantasia in questo caso, stimolata dalla vanità, può innalzare più o meno l’uno sull’altro; e quindi, in base alla forza della passione, la presunta superiorità può sembrare maggiore o minore.

Poche cose hanno qualità più adatte a gratificare la vanità, quanto i liquori. I loro particolari aromi e sapori permettono di distinguerli, e tuttavia non bastano per determinare quanto l'uno superi l'altro. Anche l'immaginazione sembra avere una incidenza particolare sugli organi del gusto e dell'olfatto e può, a causa dell'abitudine, far loro percepire un piacere da una cosa che prima era indifferente, forse persino sgradevole. Per l’influenza della vanità è dunque impossibile stabilire i limiti della superiorità che uno può acquisire sull'altro; e si può quasi stabilire come regola generale che nei pranzi sfarzosi tutto ciò che è bevibile può essere servito con orgoglio, qualora provenga da posti lontani. Cosi, durante la guerra peninsulare (Spagna, Portogallo e Inghilterra contro l’impero francese, 1807-1814; n.d.t.), il porter dì Londra fu largamente consumato in Spagna, da quelle medesime classi per le quali in Inghilterra ciò era un indizio di volgarità.

È indubitabile che la rarità e l'alto costo dei liquori e di altre merci simili, consumati da un individuo, possano accrescere di molto il piacere che da essi deriva. Ciò nasce da un tratto del carattere dell'uomo, che abbiamo l'opportunità d'osservare costantemente. L’attenzione è sempre attirata molto da un oggetto, quando esso eccita più facoltà sensoriali. Due fiori insieme, uno avente la bellezza senza il profumo della rosa, l'altro che ne abbia il profumo ma non la bellezza, non potrebbero procurarci tanto piacere quanto quel fiore. […] In modo simile, la semplice costosità dei vini o dei cibi, risvegliando la vanità, suscita il senso di una percezione più acuta di piacere; e quando la persona è consapevole di essere competente in tale materia, questo potente motore dei nostri pensieri e sentimenti viene eccitato dall’acume dimostrato nella distinzione dei beni e dalla familiarità implicita con vini e cibi rari e, conseguentemente, con quella che viene chiamata ‘alta società’. […] Al contrario il consumo diffuso di una merce da parte del volgo affievolisce, in molte menti, il piacere che altrimenti essa darebbe. Il consumo di tali merci abbassa l’individuo al livello delle classi più basse. Questo sentimento diede origine all'esclamazione di una duchessa del nord: “Peccato che queste uova si vendano solo a sei soldi l'uno!”

Gli autori moralisti e satirici romani basano molte delle loro invettive contro la stravaganza dei loro tempi, sul mancato rapporto fra la qualità delle cose e la considerazione in cui esse erano allora tenute(1). Eliogabalo confessò che il gusto, dato alle pietanze dal lungo tempo di preparazione, era all’origine della stravaganza dei suoi pasti, e gli piaceva che il prezzo dei suoi cibi fosse molto alto, perché ciò eccitava il suo appetito.

Se mancassero le prove di quali incerte basi il gusto disponga per giudicare se una cosa è deliziosa e un’altra neppure degna di considerazione, noi possiamo trovarle nei cambiamenti nelle diverse epoche e nei diversi luoghi. (Fra i tanti elementi) sembra che, nel gusto, di costante vi sia solo la preferenza per ciò che è dispendioso.
Anche se diverse l’una dall’altra, ogni società crede sinceramente che il suo criterio sia il migliore. Chi potrebbe oggi apprezzare un banchetto come quelli dei Romani? Eppure essi certamente credevano che in cucina, come nelle altre arti, avessero raggiunto il massimo della perfezione. Della loro buona fede in questa convinzione diedero un esempio particolare. Essi ricavavano, dalle interiora quasi putride di un certo pesce, una salsa molto costosa e apprezzata.(2) Erano però così convinti della sua estrema delicatezza, da aver cura di introdurre una speciale legge formale che proibiva di venderla ai barbari (3). Temevano seriamente che, se questi rudi guerrieri l’avessero solo assaggiata, l’avrebbero gradita a tal punto da desiderare di abbatterli di colpo e occupare l’impero. I barbari arrivarono comunque, ma né loro né i loro più civili discendenti sembrano aver trovato una particolare attrazione per il garum.

Noi attribuiamo a un oggetto (vestito, mobile, attrezzo) un valore elevato, se esso dev’essere notato da molte persone ed è inoltre valutato in larga misura in base alla soddisfazione che esso dà alla vanità.
Dice A. Smith: “Per la maggior parte delle persone ricche, la soddisfazione principale consiste nell’esibizione delle ricchezze; questa soddisfazione per loro non è mai così completa, come quando dimostrano di possedere quei segni sicuri di opulenza, che nessun altro possiede. Secondo loro il valore d'un oggetto, che sia in qualche misura utile e bello, è accresciuto grandemente dalla sua scarsità o dal molto lavoro che occorre per ottenerne una quantità considerevole, un lavoro che nessun altro può permettersi di pagare. Per questi oggetti essi sono disposti a pagare un prezzo più alto che non per le cose più belle e utili, ma più comuni". (4).

(Il lusso e la moda)

Anche se oggi l’influenza della vanità non è così forte come nell’antichità, essa è tuttavia più appariscente. Il progresso nelle arti produttive è stato tale che non vi è materiale o tessuto o colore, la cui produzione non sia stata tanto facilitata da raggiungere una gran massa di consumatori. Gli oggetti hanno dunque perso la loro funzione di distinzione sociale e hanno smesso di servire la vanità: da ciò è nata la necessità della varietà dei beni e l’apparente capriccio della moda. Ciò che Adam Smith applica a un solo tipo di oggetti vale in gran parte per tutte le spese delle persone ricche. “Quando, per i progressi nelle capacità produttive delle arti e dell’industria, il prezzo degli abiti diventa molto basso, di essi ve ne sarà una grande varietà; i ricchi, non potendo distinguersi in base al prezzo di un solo vestito, cercheranno di superare gli altri con una moltitudine e varietà di vestiti” (5).

Cercare di elencare le varie modalità, in cui la moda cambia le merci adattandole ai suoi cicli, sarebbe stato poco proficuo e, io credo, superfluo: la sua estesa influenza può difficilmente essere messa in dubbio. Heinrich Friedrich von Storch si chiede (6): “Qual è la ragione per la quale si dà un valore molto alto ai gioielli rari di cui le persone ricche amano ricoprirsi? E’ per il piacere che essi danno agli occhi, per la brillantezza con cui riflettono la luce? No, questo debole piacere non ha alcuna relazione con il loro valore; è perchè essi dimostrano la ricchezza di colui che li porta. Ciò vale per tutti gli oggetti di questo tipo di lusso: la misura del piacere che essi danno direttamente mediante i sensi è nulla rispetto a ciò che essi producono nell’esibirli agli altri – persino gli oggetti che per loro natura non sembrano avere altri scopi che quello di appagare i sensi, sono quasi completamente apprezzati per la gratificazione prodotta dalla loro ostentazione. Considerate un sontuoso pasto offerto da una persona molto ricca; separate da esso mentalmente tutte le cose che servono solo per dimostrare le ricchezze di colui che ha organizzato il banchetto e non lasciate in tavola nulla se non ciò che può soddisfare l’appetito di una persona: cosa rimane? In breve, se facciamo un esame generale –continua l’autore- di tutta la spesa che è stata fatta dopo che i desideri naturali sono stati soddisfatti, percepiremo che essa è quasi interamente motivata dal desiderio di apparire ricchi” (7). Questo desiderio di sembrare superiori agli altri, mantiene un gran numero di cose in uno stato di rivoluzione continua. Tutta questa sfera di comportamenti risponde ai canoni della moda.
"Diruit, aedificat, mutat quadrata rotundis."

Come J.B. Say lamenta, la moda distrugge prima del suo tempo qualunque cosa su cui mette mano. “Qualunque oggetto, di cui una persona si è fornito per raggiungere un qualche scopo utile, si cerca di conservarlo il più a lungo possibile, il suo consumo è graduale. Un oggetto di lusso invece non viene più usato dal momento in cui smette di gratificare i sensi o la vanità del possessore. Esso viene buttato via, almeno in gran parte, prima di aver smesso di esistere fisicamente (o esaurire la sua funzione), e ciò senza aver soddisfatto un qualche bisogno reale; il lusso detesta ogni spesa che abbia una qualche utilità”.

Gli acquisti motivati dalla vanità ricadono su tutte le classi della società. Per sopportarne il costo, essi assorbono una gran parte del reddito delle cosiddette classi medie, ma anche di coloro che faticano nel dare prova di appartenere a queste classi, e di coloro che vivono in modo accettabile pur appartenendo alle classi più basse, e perfino di coloro che hanno difficoltà a procurarsi i beni indispensabili. Storch dice: “In tutte le classi il desiderio di far vedere agli altri il proprio benessere (il lusso d'ostentazione) è stato capace di identificarsi con tutto ciò che serve per una vita decorosa e piena di comodità. É questo ciò che spinge la giovane contadina a cingere con un nastro il suo cappellino e ad indossare abiti con colori e forme che non hanno utilità” (8).

Per le spese generate dalla vanità penso di poter applicare il termine ‘lusso’. Sebbene questa parola abbia un senso più vasto, essa è quella che più si avvicina per designare le cose di cui stiamo parlando
E’ abbastanza difficile delimitare con precisione i confini del lusso così inteso. Si tratta di un punto diverso per i diversi popoli. Qualunque sia l’entità del piacere dato da un bene, indipendentemente dalla sua rarità, o da una qualche associazione con la rarità, certamente non si tratta di lusso. Vi è un piacere alla vista di alcune forme e colori, e composizione, che non dipende assolutamente dal loro costo; vi è anche una certa qualità nella tessitura di alcune stoffe, utile a proteggere dal caldo o dal freddo estremo, o aumentare la bellezza delle forme o correggerne i difetti, che di per sé dà piacere; esistono inoltre dei piaceri che la mente crea per sé, al di fuori delle associazioni con queste cose. Proviamo piacere nel vedere in una fredda giornata una persona ben coperta da una calda pelliccia oppure nel vedere in una giornata calda che uno non sia sprovvisto di biancheria dignitosa. Un uomo di animo nobile prova piacere nel vedere le lenzuola pulite e le calde coperte di un contadino come pure quando, entrato nella sua casa, osserva che essa è arredata con cura. E’ questo il sentimento che proviamo quando diciamo che quella casa o quel vestito sono per lui confortevoli; i sentimenti di cui parliamo sono quelli derivanti dai sensi e della benevolenza, e non quelli derivanti dall’egoismo. La vista di statue, dipinti o fiori in molte menti è capace di apportare un alto grado di soddisfazione.

Il grado di piacere così provato è diverso nei diversi individui ed è difficile accertare quale ne è la misura esatta in ognuno di essi; da ciò deriva, in molti casi, la difficoltà di capire se nelle scelte vi sia o meno la motivazione del lusso. Storch, in un capitolo dell’opera della quale ho già riportato una citazione, osserva: “Tutti gli orpelli con cui i ricchi decorano le loro abitazioni, le lavorazioni in oro e le sculture che l’arte e il gusto sembrano aver prodotto solo per deliziare lo spirito, non sono altro che una specie di oggetti magici, che riportano sempre la stessa iscrizione: Ammirate quanto grandi siano le mie ricchezze”. Non v’è alcun dubbio che è la vanità il sentimento dominante, che ha indotto alla costruzione di tali appartamenti, anche se essa non è l’unico. Le sculture ben eseguite, come pure le dorature eleganti, certamente contengono in sé qualcosa di gradevole per la vista e la mente dello spettatore, sia esso il proprietario o un ospite. E tuttavia la maggiore soddisfazione che ne deriva è probabilmente tratta, nella maggior parte dei casi, dalla vanità; a volte ci imbattiamo in persone i cui piaceri consistono completamente nell'ostentazione. E' il caso dell’uomo prodigo, di cui parla Alexander Pope (9):

E’ strano che l’avaro debba preoccuparsi
di guadagnare quelle ricchezze di cui non potrà mai godere.
Ma è forse meno strano che il prodigo debba sperperare
il suo patrimonio per comprare cose che non potrà mai gustare?
Non da sé egli vede, o sente, o mangia;
gli artisti scelgono i suoi quadri, la sua musica, i suoi cibi;
egli compra incisioni e disegni per donarli a Topham,
statue, idoli, e monete, per donarli a Pembroke,
rari manoscritti monastici solo per Hearne,
e libri per Mead, e farfalle per Sloane.
Possiamo credere che tutte queste cose siano per lui? Non più
che per la sua bella moglie, ahimè!, o per una prostituta ancor più bella.
                                           (Alexander Pope “IV Epistola”)



NOTE

1.
"Laudas, insane trilibrem
Mullum in singula quem minuas pulmenta necesse est.
Ducit te species, video. Quo pertinet ergo
Proceros odisse lupos? quia silicet illis
Majorem natura modum dedit, his breve pondus.”
Orazio Satire, L, Libro II, II.

“Interea gustus elementa per omnia quaeruant,
Nunquam animo pretiis obstantibus. interius si
Attendas magis illa juvant quae pluris emuntur.”
Giovenale, XI. Satire

2.
“Aliud etiamnum liquoris exquisiti genus, quod garum vocavere, intestinis piscium caeterisque quae abjicienda essent sale maceratis ut sit illa putrescentium sanies.-- Nec liquor ullus paene praeter unguenta majore in pretio esse caepit.”
Plinio. Libro 31, c.8 Storia naturale

3. L’Editto fu emanato al tempo degli imperatori Valerio e Graziano. L’oro e il vino furono soggetti ad una stessa proibizione.

4. La Ricchezza delle Nazioni, Libro. I, c. XI.

5. Ibidem, Libro. IV, c. IX.

6. Course d'Economie Politique, Libro VII, c. V.

7.Ibidem, Libro. VII, c. IV.

8. Ibidem, Libro VII. c. V.

9.
"Tis strange, the miser should his cares employ
To gain those riches he can ne'er enjoy:
Is it less strange, the prodigal should waste
His wealth to purchase what he ne'er can taste?
Not for himself he sees, or hears, or eats;
Artists must choose his pictures, music, meats:
He buys for Topham, drawings and designs,
For Pembroke, statues, dirty gods, and coins;
Rare monkish manuscripts for Hearne alone,
And books for Mead, and butterflies for Sloane.
Think we all these are for himself? no more
Than his fine wife, alas! or finer whore."

Alexander Pope: poeta inglese (1688-1744)
Topham: gentleman famoso per una collezione di incisioni.
Pembroke: regione del Galles in cui abitava un collezionista di sculture
Hearne: autore di piccole opere storiche
Mead: proprietario di una vasta biblioteca
Sloane: proprietario di una bella collezione di curiosità naturali
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