giovedì 28 gennaio 2010

Il genio dell'urbanistica

Genova, Boccadasse (foto PALEOROBY)
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L’otto agosto 1985 viene approvata la legge n. 431 - proposta dal sottosegretario al Ministero dei beni culturali e ambientali Giuseppe Galasso – con l’intento di tutelare i beni paesaggistici italiani, ponendo vincoli all’edificabilità nelle seguenti zone: 1) i territori costieri del mare e dei laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia; 2) le sponde dei fiumi per una fascia di 150 metri ciascuna; 3) le montagne al di sopra dei 1.600 metri per le Alpi e 1.200 metri per gli Appennini.

Il provvedimento aveva il nobile intento di arginare lo sviluppo incontrollato dell’edilizia, verificatosi negli anni Sessanta e Settanta, ma lo fece con criteri piuttosto grossolani.
In un territorio come quello italiano, con 7.375 km di costa e circa il 35% di zone montuose, sottoporre i cittadini a permessi burocratici plurimi di comune, provincia e regione, per costruire - in un sistema in cui la burocrazia funziona prevalentemente in base al clientelismo politico e alle tangenti - significa bloccare metà del territorio.

Questa la considerazione più semplice dal punto di vista geografico. Ben più importante la grossolanità del provvedimento legislativo se si esamina il problema dal punto di vista storico.
Tranne che nel Medioevo – periodo di decremento demografico durante il quale i pochi edifici di rilievo, costruiti in collina per motivi di difesa, furono i castelli ed i borghi dell’Appennino umbro e toscano - le città sono sorte per la maggior parte in riva a un corso d’acqua (come del resto in tutto il mondo) o in riva al mare. Se la legge Galasso avesse pazzamente avuto effetto retroattivo, oggi la cartina dell’Italia si presenterebbe quasi senza nuclei urbani: via la metà di Genova, di Livorno, di Napoli e di tutti i paesini della costiera amalfitana, di Reggio Calabria, di Palermo, di Catania, di Taranto, di Bari, di Pescara, di Ancona, di Rimini, di Trieste e… tutta Venezia. Questo per non citare anche la miriade di centri minori.
E via ancora quel pezzo di Torino troppo vicina al Po, quel pezzo di Verona troppo vicina all’Adige, quel pezzo di Firenze troppo vicina all’Arno, quel pezzo di Roma troppo vicina al Tevere, eccetera. Insomma un’Italia da ricostruire! E dove? Tutta… un po’ più in là!

L’on. Galasso, illustre professore di storia, questo doveva saperlo, ma non ne ha tenuto conto. Alla storia ha voluto passare come emerito ambientalista in odore di modernità.
La legge che tutelava il paesaggio c’era. Era del 1939 e non faceva l’Italia a fettine e pezzettoni, ma prevedeva che un organo statale stabilisse quali erano i posti “panoramici” che non dovevano essere deturpati e quali gli edifici di “rilevanza storica e architettonica”, la cui ristrutturazione doveva essere preventivamente autorizzata. Mi sembrava una logica più rispettosa della storia e del buonsenso.

Ma adesso, con i piani paesaggistici regionali, altri illuminatissimi signori della politica mettono lo zampino sull’urbanistica.
Perché “salvaguardare” le coste fino a trecento metri? Facciamo due chilometri. Come in Sardegna! E perché? Per il turismo.
Ma i turisti stranieri affollano le spiagge della Riviera ligure e della costa romagnola, con alberghi e palazzi sul mare. I turisti affollano i venti o più centri abitati del Lago di Garda, costruiti a pochi metri dalla riva. Siamo sicuri che i turisti lasceranno tutte le comodità offerte da questi splendidi posti, abituati da decenni ad accoglierli, per andare sulle spiagge deserte della Sardegna?

Altro discorso riguarda il vincolo sulle zone montane, e a questo proposito mi avvalgo di mie esperienze personali: ho viaggiato e visto poco, ma quel poco l’ho osservato bene.
Sulle Dolomiti, le montagne più visitate in Italia e famose nel mondo (ora patrimonio dell’umanità!), facendo una qualunque tratto di strada di dieci chilometri incontri almeno dieci ristoranti, e altrettanti alberghi, e altrettante case con “Zimmer frei”. Son edifici costruiti bene, con gusto, e ben tenute, ma ci sono.
Nella zona appenninica in cui io vivo, invece, facendo una strada di montagna di cinquanta chilometri, se hai problemi all’automobile non incontri anima viva: non un villaggio, non un distributore, non un edificio di alloggio o ristorazione.
Beh, sapete che in quei boschi deserti, dove nel Duemila si ha ancora paura di viaggiare e dove non incontri un turista nemmeno a pagarlo, sapete che c’è il vincolo paesaggistico? E che, per i dinieghi e gli intralci burocratici, quasi non si può costruire?

Sempre in quella zona appenninica, una volta arrivati a 1.200 metri si trova un lago bellissimo, capace, per vegetazione e dolcezza, di competere molto dignitosamente con il Lago di Garda. E’ venti volte più piccolo di quello, ma non attira un ventesimo del flusso turistico del lago cisalpino, e neppure un centesimo, e neppure un millesimo di quello.
Certo, c’è la maggiore distanza dal resto d’Europa che giustifica il fenomeno, ma c’è anche il fatto che ci sono solo cinque negozi e cinque alberghi. E altri non se ne possono costruire, se prima non si hanno le carte giuste, o almeno tali giudicate dai tecnici del comune, e della provincia, e della regione. O se non si hanno amici che li conoscano abbastanza bene, questi tecnici.
Bravo Galasso che ha salvato l’Italia, e bravo Soru che ha salvato la Sardegna.
Dallo sviluppo turistico!
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domenica 24 gennaio 2010

Peter Pan

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I vitelloni - Italia, 1953: “Sono cinque, in una cittadina romagnola dell'Adriatico, i giovanotti non ancora occupati, né ricchi né poveri, irresponsabili e velleitari figli di mamma. Che fanno? Piccoli divertimenti, piccole miserie, piccoli squallori, noia grande” (Morandini ).
I basilischi - Italia, 1963: “…sono dei “vitelloni” in chiave meridionale: figli in genere di gente abbastanza agiata, studiano tutti per avere una laurea, ma, confinati come sono nella loro modesta cittadina rurale, non si fanno grandi illusioni per l’avvenire; passano il loro tempo in strada, cercando di abbordare qualcuna delle difficili ragazze del luogo, oppure vanno ad oziare in una specie di circolo culturale che, come vero scopo, ha soprattutto quello di distinguere i suoi soci dal resto dei loro concittadini, favorendo fino all’esasperazione il senso delle differenze di abitudini e di classe” (Gian Luigi Rondi).
I laureati - Italia, 1995: “…i ragazzi, “vitelloni” ma anche "amici miei", fanno tutto quanto ci si aspetta da un'amicizia virile di gruppo, esclusi gli esami. Girato con scioltezza goliardica, “I laureati” è uno strano film che sembra anni '60: le bellone…si dedicano al fotoromanzo; i laureandi giocano a battaglia navale…” (Maurizio Porro).

Tre film italiani, di epoca diversa e ambientati in regioni diverse, ma con un comune denominatore: storie di giovani, quasi adulti, che si rifiutano di crescere, di assumersi le responsabilità di un lavoro e di una famiglia.
Non sono il primo a pensare che l’arte rispecchi la realtà. La ritocca, la trasfigura, ne ristruttura gli elementi sottolineandone alcuni e trascurandone altri, ma ne è sempre figlia.
Il problema dei giovani che non lavorano - una volta assimilati alla figura di Peter Pan per sottolinearne lo scollamento dalla realtà e più di recente ribattezzati col termine “bamboccioni” per sottolinearne lo spirito indolente e godereccio - in Italia è dunque abbastanza vecchio e, nei film citati, coincide con momenti di espansione economica, in cui “famiglie agiate” producono “figli pigri”.

Se la matrice del fenomeno è comune, diverso sarà però il destino di questi giovani nell’attuale periodo, caratterizzato come in passato da una certa agiatezza familiare, ma ora anche, ed è questa la novità, da scarse opportunità occupazionali. Pur se in ritardo, prima o poi ognuno di essi dovrà trovare una sua strada: bella e spianata per chi eredita grosse fortune o trova in famiglia un’impresa o un’attività professionale già avviata; una strada irta, stretta e tortuosa per chi dovrà invece contare solo sulle sue forze.

Cosa dire oggi a questa seconda categoria di giovani più sfortunati? Le difficoltà sono oggettive, ma è proprio nei momenti di difficoltà che emergono le maggiori energie e le migliori intelligenze. Stare con le mani in mano o inseguire sogni impossibili non risolve il problema. Bisogna tornare all’idea di “fare la gavetta”, iniziare dal basso con spirito di sacrificio. E nei rapporti coi coetanei bisogna lasciarsi guidare dallo spirito di solidarietà e di collaborazione, anziché assumere il ruolo di antagonisti: milioni di italiani in passato hanno trovato lavoro all’estero e milioni di meridionali al Nord, aiutandosi, trovando casa insieme, dividendo le spese, sostenendosi moralmente. Se ciò avverrà anche adesso, il futuro sarà meno buio.
La storia dell’economia è storia di cicli economici: ai periodi delle vacche magre sono sempre seguiti quelli delle vacche grasse.
Per quei tempi bisogna farsi trovare pronti.
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