venerdì 31 agosto 2012

Il seme dell’utopia: Riflessioni in libertà di Giampiero Calabrò

In primavera ho raccolto gli articoli pubblicati sul blog in un volumetto di cui fare omaggio a un ristrettissimo numero di amici, primo fra i quali il Prof. Giampiero Calabrò, la cui amicizia risale esattamente a, ehm… , mezzo secolo fa. Oggi, la sua impegnativa attività di accademico per un verso e la mia vita ritirata per altro verso hanno purtroppo diradato le nostre occasioni di incontro, ma non hanno intaccato né affievolito i sentimenti d’affetto ed i rapporti di stima dell’età giovanile.
Un mese fa Giampiero mi ha fatto pervenire alcune sue ‘Riflessioni’ sui miei articoli. Le pubblico con lieve ritardo a causa del torrido caldo di agosto, ma anche, lo confesso, per colpa della mia personale ritrosia ad esibire apprezzamenti che, in virtù dei legami di amicizia, potrebbero andare oltre i miei meriti. Tuttavia, poiché tali riflessioni danno una particolare e felice chiave di lettura di quanto vado scrivendo in questi ultimi tempi, mi sembra giusto lasciarne traccia sul blog.
Qui di seguito riporto la graditissima Recensione di Giampiero e, a seguire, la mia Postfazione al libro, alla quale in alcuni punti la prima si richiama .

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Nella sua Postfazione Cataldo Marino ci ricorda che ne “Il seme dell’utopia” raccoglie scritti pubblicati sul suo blog dal 2009 al 2012. Scritti vari, diversi, uno zibaldone di varia umanità, che sembra non avere un preciso filo conduttore, quasi a voler testimoniare la forza impetuosa di un pensare libero, anche rapsodico, quasi una sfida alla fattualità dell’oggi, tutta tesa a ricordarci di stare con i piedi di piombo, attaccati alle cose concretissime e immediate.

Il libro si apre con una definizione di utopia che in un certo senso modifica quella data dal celebre sociologo Karl Mannheim su cui l’autore si è spesso cimentato nelle aule della Facoltà di sociologia negli anni della grande contestazione del 68. L’utopia non è solo ciò che contraddice la realtà presente, ma è il progetto di una realtà diversa. In altri termini, è un progetto e come tale reale, che però non ha ancora realizzato il suo “fine”. Posta così la questione, ecco intravedere quel filo rosso, alla cui ricerca mi ero mosso quando ho iniziato a leggere quelle pagine. La diversità dei temi, i tanti argomenti, le considerazioni fugaci, i giudizi trancianti ed autoironici, trovano un loro “continuum” nel presentarci una realtà diversa, un anelito verso il nuovo; il tentativo di mostrare una dimensione della società che non si esaurisce nel fatto immediato hic et nunc, ma allude al diverso, all’oltre. Cataldo Marino con un sorriso, che a volte sembra uno sberleffo, ci indica con il dito, come nel vecchio adagio cinese, la luna, e sornione sorride perché è conscio dei molti che si soffermeranno sul dito.

Il volume affronta tanti e così molteplici temi che a volerli discutere e commentare tutti si rischierebbe di scrivere un altro saggio e soprattutto si commetterebbe il grave errore di tradire la freschezza di quelle allusioni, l’immediatezza di un giudizio, il giuoco sottile dell’ironia. Allora scelgo, facendo violenza alla varietà e pluralità degli argomenti, un solo tema, quello più lontano dai fatti di cronaca o da alcune considerazioni sulla realtà sociale e politica di cogente attualità. E’ il tema della scrittura, della parola che si trasforma nella parola stampata, che perde la “virtualità” propria della creazione informatica, per fisicizzarsi sulla carta scritta. Non si tratta di criminalizzare il grande ed ormai insostituibile strumento informatico e le grandi potenzialità della rete. Tutt’altro!

“Il seme dell’utopia” nasce sulla rete, naviga nel suo mare magnum, si perde nelle sue eteree atmosfere, anche se, ad un certo punto, direi ad una certa età della vita sente il bisogno di essere tradotto in carta stampata, in un volumetto artigianale, che sa di colla e di spago e che un giorno passi dal comodino allo scaffale. Compagno quotidiano che vigila su sonni inquieti e ormai sempre più brevi, per essere deposto con rito, oserei dire liturgico, nello scaffale in compagnia di altri autori eterni, quasi a collocarsi in una sorta di tabernacolo con il desiderio, neanche tanto nascosto, che possa diventare imperituro per essere affidato così alle generazioni future.

Mi soffermo su questo tema della lettura e del rapporto carnale con il "libro", perché ciò ha costituito per molti anni della nostra adolescenza e poi della nostra giovinezza l’argomento che tanto ci accomunava nelle lunghe e defatiganti discussioni, che echeggiavano lungo la discesa dell’Arcivescovado che dalla Cattedrale muove verso la piazzetta del Commercio, laddove le nostre strade si dividevano: io andavo a sinistra verso via xx settembre e lui verso la parte destra che porta a san Nico. Nelle pagine di questo volume, che vanno lette in modo casuale, ove l’occhio e l’intelletto è più attratto, si respira a volte ed apparentemente un’atmosfera nostalgica verso un passato che ormai non è più. In verità, nelle sue pagine, “Il seme dell’utopia” trasuda di tecnologia e di informatica, quasi a contraddire l’aria dimessa e umile con cui si presenta. Il passato è sì presente, ma non in forma nostalgica, se mai come parametro critico. L’autore possiede la consapevolezza di un suo impossibile ritorno. In verità, l’utopia è il “non ancora” è speranza verso il futuro è la negazione del fare come fatto, come già fatto, che ha rappresentato la cifra politica e culturale dell’ultimo ventennio. Di fronte ad una generazione che si guarda non la punta del naso, ma la punta dei piedi, di fronte cioè all’esaltazione della concretezza intesa come presente quotidiano, che rifiuta di guardare oltre, perché l’andare oltre richiede il rischio e l’intelligenza, le pagine di Cataldo rappresentano da una parte una sfida e dall’altra la speranza che un ciclo si possa chiudere e che all’orizzonte appaia una ‘nuova alba’. Per questo la virtualità del blog, le riflessioni immediate e contingenti affidate alla rete sentono il bisogno di cristallizzarsi nella parola scritta di un libro-canovaccio, un libro aperto che si arricchisce sempre di nuovi stimoli, capaci di resistere alla luce abbagliante di un nuovo ‘sole’.

30 Luglio, 2012, Sant’Angelo di Rossano.
Giampiero Calabrò

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Postfazione al libro “Il seme dell’utopia”

Gli articoli qui raccolti, scritti fra dicembre 2009 e febbraio 2012, sono stati di volta in volta pubblicati sul blog personale ilsemedellutopia.it. Di essi, alcuni sono stati poi ripubblicati dai siti: fisicamente.net, megachip.info, unicobas.it, meylho43.word-press e dalla rivista Indipendenza.
Il titolo del volumetto, Il seme dell’utopia, vuole rendere testimonianza della continuità con gli ideali da me accolti con entusiasmo giovanile negli anni Sessanta e coltivati in autonomia di giudizio negli anni successivi. Il sottotitolo Riflessioni socio/logiche vuole invece indicare contemporaneamente l'oggetto di trattazione – la società nei suoi vari aspetti – ed una metodologia, che poggia sugli studi universitari di sociologia ma altresì sul convincimento del superiore valore della logica filosofica.
Non ci sono teorie che possano sottrarsi con un qualsivoglia artificio al principio di non contraddizione. E’ vero che fra il bianco e il nero esistono infinite tonalità di grigio, ma questo non vuol dire che l’estrema luminosità e il profondo buio non mantengano la loro particolare identità e la loro reciproca inconciliabilità.

Questa pubblicazione nasce dall’esigenza di superare la ‘volatilità’ dei prodotti della moderna informatica. Un amico esperto nel campo mi ha confermato che statisticamente l’ottanta per cento delle informazioni fissate nelle memorie del web e dei personal computer, nonostante i vari accorgimenti, finisce per andare perduto. Mentre un dipinto o la stampa di una vecchia foto si mantengono per secoli, delle mille fotografie di cui oggi si riempiono le memorie informatiche, spesso, dopo poco tempo non rimane nulla: con la stessa facilità con cui si produce, si finisce per consumare e distruggere.
Da alcuni anni dedico parte del mio tempo libero a riflettere e scrivere. E’ un’attività che in primo luogo mi consente di riordinare le idee e poi, ovviamente, anche di comunicarle ad altri. Il tempo della vita è però limitato e, in un futuro più o meno lontano, è assolutamente prevedibile che il web cancelli i miei poveri sforzi. Se gli amici che stimo maggiormente ne avranno una copia cartacea, c’è invece la speranza che qualcosa resti. Timori da vecchi, penosi ma veri.

E veniamo alla confezionatura del testo. Mi è già capitato con il pamphlet Il disagio degli insegnanti, pubblicato nel 2000, che qualche esperto bibliofilo sorridesse bonariamente sfogliandolo e notando la "economicità" dell'edizione. Anche se viviamo in tempi poco floridi, la mia scelta del "fai-da-te" non è però solo frutto di un calcolo dei costi: mi piace provare e scegliere in completa autonomia l'impaginazione e i caratteri di stampa; mi piace rileggere il testo fino a che ogni virgola non dia il senso e il ritmo giusto a ciò che voglio dire; mi piace assistere al lavoro di stampa e rilegatura, almeno fino a quando l'operatore non si dimostra chiaramente seccato della mia presenza.

E’ una passione antica. Quando avevo circa dieci anni, chiesi a mio padre se potevo andare di pomeriggio nella tipografia Mangone, di fronte alla Cattedrale. Temevo che mi dicesse di no, perché all’epoca l’apprendistato era in genere riservato alle famiglie socialmente più modeste, e invece lui acconsentì. Potei così per qualche settimana imparare a comporre le parole con i caratteri di piombo, messi in fila con la tacca all’insù, e stupirmi di quella enorme macchina che ogni volta andava a poggiarsi sul foglio bianco, lasciando miracolosamente impresso l’inchiostro di mille piccole letterine. Oggi non è la stessa cosa, tutti stampiamo a casa con un semplice clic. Eppure qualcuno rimane ancora stupito di fronte alla fulminea trasformazione della parola pensata in parola scritta.

Cataldo Marino
Rossano Calabro, marzo 2012

lunedì 27 agosto 2012

Commento ad alcuni racconti di Fulvio Musso

Da novembre 2011 a luglio 2012, col permesso dell’autore, ho pubblicato mensilmente un racconto di Fulvio Musso, accompagnandolo con un breve commento in cui cercavo sempre di cogliere un risvolto ‘sociale’ oltre che psicologico. A partire da settembre però l’amico Fulvio ha ceduto i diritti d’autore e mi ha perciò pregato di eliminare queste pubblicazioni dal blog.
Lo faccio con sentimenti contrastanti: felice per il fatto che la sua vena artistica, ampia e profonda, abbia ottenuto quei riconoscimenti nei quali io ho creduto dall’inizio; rattristato perché questo blog ne risulterà certamente impoverito.
A testimonianza però della mia ammirazione per l’autore e per i suoi piccoli gioielli narrativi, lascio in questo post i Titoli dei racconti finora pubblicati ed il commento da me fatto per ognuno di essi.
Ad maiora, caro Fulvio

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“La prolunga” (sabato 28 luglio 2012)

Non so se la sana abitudine di ritrovarsi periodicamente al bar con gli amici resista ancora ai mutamenti degli ultimi decenni; ho l’impressione che oggi si sia diventati tutti dei ‘pantofolari’, chiusi nella solitudine delle proprie case. Così, non avendo interlocutori fisici con cui confrontarsi direttamente, ognuno resta fermo nelle proprie idee, mentre una volta Maccione, Ossario, Tavazzi e Marianino, pur cazzeggiando, se ne tornavano nel proprio guscio con una battuta in più – che non fa mai male allo spirito – e spesso con un po’ di filosofia spicciola, che non fa mai male all’affinamento della logica e delle capacità di dialogo.
E, nei discorsi di questi quattro amici, se le battute abbondano, un po’ di filosofia non manca.

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“I culoni” (giovedì 21 giugno 2012)

Dagli anni Sessanta è cresciuto a dismisura il numero delle automobili, mentre negli ultimi anni tende a crescere la loro cilindrata e il loro uso. Non sono molto sicuro che, come Fulvio dice scherzosamente, ciò possa determinare una mutazione morfologica dell’uomo, perché conta molto anche l'alimentazione. Ma concordo perfettamente col messaggio centrale del racconto, e cioè nel condannare senza attenuanti l’uso eccessivo dell’auto e il progressivo aumento della cilindrata, cogliendo in queste tendenze anche un risvolto sociale.
Quasi sistematicamente i modelli di vita competitivi ‘made in Usa’ arrivano dopo qualche anno in Europa e, dopo qualche anno ancora, si espandono a macchia d’olio nel resto del mondo. Nell’ambito di ogni stato o regione, poi, essi infettano prima gli strati sociali più ricchi, da questi si trasmettono a quelli medi e infine passano negli strati bassi, per i quali magari la cilindrata resta la stessa, ma l’aspirazione al suv aumenta comunque.
L’automobile da molti decenni è ormai, usando un termine nato in ambito scientifico ma oggi entrato nel linguaggio comune, uno ‘status symbol’, cioè uno di quei beni che indica la nostra collocazione nella società. Chi compra un’automobile deve far apporre su di essa una targa che la distingue da tutte le altre; ma lo stemma, che ne indica la casa produttrice e le caratteristiche tecniche, denota a sua volta a quale gruppo sociale appartiene il proprietario. Diventa in certo senso la ‘sua’ targa.

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Due racconti di Fulvio (mercoledì 16 maggio 2012)

Questo mese i Racconti di Fulvio sono due. Scritti in tempi diversi, ma sempre con lo stesso, ineguagliabile stile elegante, e sempre portatori di un messaggio insieme triste e pungente, ironico ed autoironico, secco e preciso, realistico eppure fantasioso.
Far convivere gli opposti è impossibile quando si cerca a tutti i costi di razionalizzare i fatti, ma non tutti i fatti sono razionali.

“Un desiderio che si chiama tram”

“Nina, te ti ricordi /quanto che g’avemo messo /a andar su’ sto toco de leto /insieme a fare l’amor..
Sei ani a far i morosi /a strenserla franco su franco /e mi che ero stanco /ma no te volevo tocar.
To mare che brontolava /“quando che se sposeremo”, /el prete che racomandava /che no se doveva pecar..
E dopo, se semo sposati /che quasi no ghe credeva /te giuro che a mi me pareva /parfin che fusse un pecà.
Adesso ti speti un fio /e ancuo la vita xe dura /a volte me ciapa la paura /de aver dopo tanto sbaglià.
Amarse no xe no un pecato, /ma ancuo el xe un lusso de pochi /e intanto ti Nina te speti /e mi son disocupà./E intanto ti Nina te speti /e mi son disocupà.” (“Nina, ti te ricordi” di Gualtiero Bertelli, 1966)*

Il testo della canzone di Bertelli, che segue il racconto di Fulvio Musso, racconta una storia d’amore. Fatta eccezione per De Andrè, De Gregori e pochi altri poeti-musicisti, le canzoni raccontano quasi sempre storie d’amore, ma questa è un po’ diversa, perché denuncia come l’amore possa essere “disturbato” dalle condizioni materiali di vita. Forse è per questo che Gad Lerner lunedì scorso 7 maggio, con la sua sensibilità per il sociale, ha voluto riproporla in diretta, con la voce commossa del suo autore, a distanza di quasi cinquanta anni dalla sua composizione.
Non molto diverso dalla emozionante canzone di Gualtiero Bertelli è, sotto questo aspetto, il racconto di Fulvio Musso che oggi propongo in questo blog: una gioventù difficile, fatta di privazioni e di emozioni delicate, tenute sotto controllo per il timore che si trasformino in impegni difficili da mantenere, la cui proiezione nel futuro sottrae all’età giovanile la sua naturale baldanza. Una condizione particolare che si innalza a rappresentazione della comune umanità: un altro piccolo capolavoro letterario di Fulvio, con sottili implicazioni… ‘socio/logiche’.

.* Per tutti coloro che volessero riascoltare “Nina ti te ricordi” segnalo il video http://www.youtube.com/watch?v=05uy3IEGKmU. Per chi invece ha scarsa confidenza col dolce dialetto veneziano e volesse capirne meglio il testo, segnalo una pagina web con la traduzione:
http://amischanteurs.org/wp-content/uploads/82.pdf

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“L’amico”

“Quando il mio amico li incontra, tutti costoro lo fissano ostinatamente. Ma, per quanto cerchi di scrutarli a sua volta, non riesce ad intuire cosa s’aspettino da lui che, invece, vorrebbe soltanto capire finalmente qualcosa di loro e, di riflesso, di se stesso.”
Tutti apprezziamo i racconti ‘taglio web’ di Fulvio Musso per il suo stile elegante ed i sottili pensieri. A me essi dicono però anche qualcosa di diverso, risvegliando spesso nella mia mente alcune letture giovanili, rese ormai sbiadite e incerte da un prolungato letargo rispetto ad esse, letargo dovuto alle tante altre necessità della vita.
Ad esempio, il passo sopra riportato mi ha subito ricondotto al libro “Mente, sé e società” di George Herbert Mead, uno psicologo sociale che credo abbia avuto il merito di anticipare un concetto cardine della sociologia, quello di ‘ruolo’, più tardi approfondito e sistematizzato da Talcott Parsons e Ralph Dahrendorf.
In breve. Osservando gli altri, ci accorgiamo di essere a nostra volta osservati e, dal significato che attribuiamo a gesti e parole, cerchiamo di capire cosa essi si aspettano da noi (meccanismo indispensabile per non deluderli oltre misura e per evitare sanzioni sociali come il disprezzo e l’emarginazione, che, potendo far crollare l’autostima, in genere condizionano il nostro comportamento più di quanto non lo faccia il timore di possibili pene pecuniarie o detentive).
Ad un certo punto però, oltre che gli altri, cominciamo ad osservare anche noi stessi. Non possiamo farlo esattamente nel momento in cui agiamo, ma ci diventa possibile un attimo dopo, o dopo un giorno o dopo uno o più anni. Nell’individuo - sostiene Mead - coesistono un ‘me’ e un ‘io’. Il ‘me’ è il ruolo, cioè una serie di comportamenti correlati all’età, il sesso, il lavoro ecc., che gli altri si aspettano da noi e che noi, entro limitati ambiti di discrezionalità, accettiamo interiorizzandolo. L’ ‘io’ è invece quella parte dell’individuo che prende le decisioni, ma che, prima e dopo aver agito, ripensa se stesso.


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"Il corpo" (venerdì 20 aprile 2012)

Per sette o otto ore al giorno tutti abbiamo una vaga esperienza dell’evento umano più comune eppure più ignoto e temuto. Ogni volta che spegniamo la luce e ci addormentiamo, diventiamo temporaneamente assenti agli altri e a noi stessi, e per tutta la vita siamo ben contenti di questo alternarsi di esserci e non esserci. Ciò che ci spaventa è infatti il sempre, il definitivo.
Con questo racconto surreale e oltremodo inquietante – un temporaneo allontanamento dalla sua caratteristica vena ironica e rassicurante - Fulvio Musso prova ad esorcizzare l’irreversibile, ricorrendo ad una forma di sdoppiamento e mescolando nello stesso istante l’esserci e il non esserci.
E’ un racconto che, in quanto a tema trattato e umori suscitati, potrebbe essere stato scritto da E. A. Poe, ma in quanto a stringatezza ed essenzialità, insomma in quanto allo stile, non può che essere ‘fulliano’.
Il mio amico Musso – sottolineo il rapporto di amicizia in quanto ne sono molto onorato - definisce ‘fulminei’ i racconti fino a circa trenta righe, ‘brevi’ quelli fra trenta e ottanta, inadatti al web quelli che vanno oltre. Se volesse, potrebbe allargare gli uni e gli altri come con una fisarmonica, senza con ciò abbassare la qualità della melodia. Ma lui ha fatto questa scommessa letteraria e… i risultati gli danno ragione.

Nota. Questo brano detiene il record storico dei voti nel sito letterario “Gentechescrive”

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“La tedesca” (mercoledì 21 marzo 2012)

In un sito letterario in genere metto in primo piano, com’è giusto che sia, l’aspetto estetico e la vicenda interiore. Ma, quando rileggo i racconti di Fulvio, prima della pubblicazione su questo blog, l’autore finisce sistematicamente per offrirmi anche qualche prezioso spunto socio… logico. Un ottimo ‘assist’, direbbe un tifoso del calcio.
Nel tempo in cui Fulvio e io eravamo dei giovanotti, le compagne di classe mettevano ancora un grembiule che andava giù giù fino a tre, o anche più, dita sotto il ginocchio. La donna era, per noi maschietti, un mistero dal punto di vista fisico e forse ancora di più nei suoi pensieri. Immagino che nel Comasco le cose andassero un po’ diversamente che in Calabria, ma penso che, anche a latitudini diverse, il mondo femminile italiano essenzialmente fosse così.
In quello stesso periodo, dal mondo anglosassone arrivavano invece modelli di donna molto diversi. Quello fu per noi Italiani come un fascinoso risveglio dei sensi e della fantasia, tanto che nel ‘63 l’allora impareggiabile Alberto Sordi, percependo il segno dei tempi, improvvisò un discreto film in bianco e nero (Il diavolo) completamente girato in Svezia, allora un mito per via delle donne belle e di elevata apertura mentale.
Nel volgere di pochi anni però non ci fu più bisogno dei film per scoprire questa diversa realtà. Dall’Inghilterra arrivarono le minigonne e dalla Germania, tutte intere, le tedeschine desiderose di mare e di attenzioni. Fulvio forse le vedeva sulle spiagge dell’Adriatico, mentre io mi accontentavo delle suggestive narrazioni di qualche emigrato in vacanza. Comunque, qui o là, tutti in Italia avvertimmo queste nuove presenze.
Di questo, come di altri fatti importanti del nostro passato, a livelli più o meno profondi restano le tracce di immagini e sentimenti. E così, anche adesso, un’epoca in cui le nostre italianine hanno spesso finito per travisare e trasformare la delicata sincerità scandinava in rude sfrontatezza, i giovani d’una volta si ritrovano magari a fare gli stessi sogni di tanti anni fa. Ma Fulvio, a giudicare dalle molte fans, è un grande tombeur de femmes, e forse quello che narra non è proprio un sogno.

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“Il santo” (mercoledì 15 febbraio 2012)

Non credo che la religione sia l’oppio dei popoli. E, se lo è, non è l’unico, perché lo sono anche il calcio, le automobili e le creme di bellezza, oltre alle droghe vere e proprie, che nell’Ottocento forse obnubilavano pochi individui e oggi invece insidiano le menti di ben più larghe fasce di popolazione.
La religione nasce per spiegare l’altrimenti inspiegabile, per lenire le ansie altrimenti insopportabili, per consolare l’inconsolabile, per accettare l’inaccettabile. Tuttavia non è raro il caso in cui, proprio coloro che dovrebbero guidare gli altri sulla retta via (ogni religione ne indica una diversa o con diverse sfumature), approfittino della buonafede delle persone pie per raggiungere fini del tutto impropri e personalissimi. Smascherarli non è semplice perché, per ogni nuova trappola, nasce un nuovo tipo di inganno; ma ogni tanto qualcuno ce la fa, come narrato in questo fantasioso racconto allegorico.
Fulvio Musso ha abituato i suoi lettori alle sorprese delle ultime righe, e questa volta la sorpresa consiste in un significativo capovolgimento di ruoli fra “il santo” e “il pellegrino”. Saperlo fin dall’inizio toglierebbe in parte il gusto della lettura e, per questo, oggi mi è sembrato giusto trasformare la mia consueta introduzione in un commento. Un commento forse superfluo, perché i racconti di Fulvio parlano da sé, senza possibilità di equivoci.

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“Il medico condotto” (domenica 8 gennaio 2012)

Fulvio Musso da anni pubblica con estrema regolarità i suoi deliziosi racconti sul sito Neteditor.com, mescolandosi umilmente a tanti altri autori forse un po’ meno talentuosi. Non perdo occasione per leggerlo e fare un breve commento e, nel caso de “Il medico condotto”, scrissi che sono anche io del parere che la salute fisica dipenda spesso da quella psichica e che una volta mi sono addirittura trovato a rivoltare la massima ‘mens sana in corpore sano’ nel suo opposto ‘corpus sanus in mente sana’. Le malattie sono frutto degli eccessi, e gli eccessi sono il frutto di scarsa armonia interiore.
Pur non essendo un adepto delle religioni orientali, ho sempre creduto che la psiche influenzi il corpo più di quanto non ne venga influenzato. La medicina attuale invece, basandosi prevalentemente (quando non esclusivamente) su presupposti anatomo-fisiologici, si è col tempo suddivisa in mille rivoli specialistici: dalla tricologia alla podologia, passando attraverso lo studio specifico di ogni altro organo intermedio.
La cosa giustifica in buona misura il ‘modus operandi’ del moderno medico di famiglia, ma non esenta quelli della nostra generazione dal ricordare con una certa nostalgia la figura del vecchio medico condotto che, oltre a prescrivere la medicina più adatta, dava affettuosi consigli sullo stile di vita. Sono convinto che nove malattie su dieci siano il frutto di cattive abitudini e che i grimaldelli del vecchio dott. Onorato siano utili quanto e più dei farmaci.
Come al solito Fulvio Musso spiegherà tutto questo in modo più elegante e convincente di quanto non possa fare io con le mie, forse inutili, elucubrazioni. Passiamo dunque alla lettura.

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“Il notabile” (giovedì 15 dicembre 2011)

Qualcuno nell’Ottocento aveva visto giusto sulla massa dei disoccupati che tengono bassi i salari, sulle crisi di sovrapproduzione che sistematicamente mandano in tilt il sistema economico e sulla tendenza degli stati all’espansione economica e militare. Nel momento in cui scriveva aveva visto giusto anche sulla spaccatura della società fra capitalisti e proletari; ma intanto, nel corso di un secolo, fra i due blocchi sociali, ad alcune categorie intermedie tradizionali - il medico, il notaio, il farmacista e il parroco – si sono aggiunte molte nuove figure che fanno da trait d’union o da cuscinetto fra i due blocchi contrapposti. Fra di esse, anche quella del funzionario di banca.
Secondo un certo schema, la società è come una piramide a gradoni: in quelli più alti ci sono ricchezza e prestigio, in quelli più bassi povertà e ordinarietà. Il desiderio di cambiare posizione è a senso unico, dal basso verso l’alto. Ma saltare più gradoni insieme è raro, in genere si cerca di risalire un gradone per volta, e il riuscire a frequentare le persone appartenenti al gradone immediatamente più in alto favorisce l’ascesa.
Vi spiegherà tutto in modo più chiaro e gradevole l’amico scrittore Fulvio Musso, che per la seconda volta ho il piacere ospitare nel blog in qualità di… narratore eccellente.

(1) L’autore ha depositato e pubblicato i suoi scritti su riviste e siti pubblici e sul sito personale. 

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“Il cadeau” (22 novembre 2011)

La narrativa, anche attraverso il particolare e l’immaginario, tende a cogliere alcune costanti del vivere umano, e tuttavia non vi è narrazione che si sottragga al suo tempo e non ne rispecchi ansie ed attese. E’ per questo motivo che da oggi il blog si apre, dopo la cinematografia, ad alcune incursioni nel campo della letteratura, nella quale interverrò solo di rado, per dare più meritato spazio ai contributi di alcuni ‘ospiti eccellenti’.
In primo luogo Fulvio Musso, autore di racconti di grande pregio letterario, del quale seguo costantemente le pubblicazioni sul web.
L’autore ha depositato e pubblicato i suoi scritti su riviste e siti pubblici e sul sito personale, dove li ha ordinatamente suddivisi in Racconti brevi, Racconti ‘fulminei’ (brevissimi), Raccolta privata (con vaghi riferimenti autobiografici), Noir-mistery-horror, Poesie, Arte varia, Storie di animali. Gli scritti sono preceduti da un breve e simpatico Profilo personale.

Cataldo Marino
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venerdì 24 agosto 2012

Filmdarivedere: "Mac" di J. Turturro (1992)



- "Le vedi le rrifiniture?"
- "Si"
- "Quella è cura. E’ qualcuno che non tira via. Si vede che l’hanno fatta con calma. Quella, l’ho costruita io. L’abbiamo costruita noi, io e i miei fratelli. Dalle fondamenta. In passato quando esisteva l’artigianato era così che bisognava essere, no come oggi. Oggi è quello che sa parlare che è rrispettato, mentre prima era chi sapeva fare. Altro che chiacchiere, doveva davvero saper fare. E’ quello, che era rispettato. La bellezza è saper fare. E… farlo. Una volta che raggiungi il tuo scopo, è bello, è piacevole. Ma… quello che conta è fare."

(Mentre il papà e il figlio si allontanano dalla casetta che stavano osservando, scorrono i titoli di coda: “In memoria di Nicholas R. Turturro”)

Qualche anno fa, nostalgico di alcuni film che negli anni ’60 avevo visto nelle sale cinematografiche, cercai col computer alcuni di quei gioielli ormai quasi introvabili sul mercato: Le piace Brahms?, Il processo, La valle dell’Eden, I basilischi, Playtime, La strana coppia, Lo spaccone, Il maestro di Vigevano ecc.. Li incisi su dvd, numerandoli ordinatamente. Fra essi, quello che porta il numero ‘1’ non è però un film degli anni ’60, ma uno del 1992. L’avevo visto da poco in tv e mi era piaciuto così tanto che volli anteporlo a tutti. Non credo che abbia maggiore valore degli altri - infatti è un film ormai quasi dimenticato - però doveva aver colpito qualche parte della mia anima, ed è per questo che provo a ripensarlo e parlarne.

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Che cosa è il lavoro? Gli economisti lo definiscono un ‘sacrificio’ a cui ci si sottopone per ottenere ciò che è necessario e ciò che desideriamo, e… non si può negare che in questo caso una contropartita è indispensabile. Conosco tante persone che provano piacere nel far dono di qualcosa agli altri, ma non conosco nessuno che lavori cinque o dieci ore al giorno senza ricevere nulla in cambio.
Eppure il lavoro non è solo questo. Lavorando dimostriamo, anche a noi stessi, che ‘sappiamo fare’ una certa cosa e che ‘la sappiamo fare bene’. Non è necessario primeggiare, l’importante è essere coinvolti - in quell’attività che abbiamo scelto o che il mercato ci ha offerto - con tutte le nostre energie, la passione, l’intelligenza, la pazienza, la capacità di resistere agli insuccessi e di non dormire sui successi.
Al di là di questi aspetti morali, c’è da aggiungerne uno psicologico: se per tutte le ore della giornata non avessimo alcun impegno lavorativo, ci annoieremmo a morte e rinunceremmo ad una certa forma di piacere. Nel Fedone Socrate dice che il piacere è cessazione del dolore: nella calma attesa dell’esecuzione della pena, la sua caviglia era stata legata a un ceppo e, quando la guardia gliela liberò, disse che quello era un momento di piacere. Riporto le poche righe con cui si racconta l’episodio:

Socrate si mise seduto sulla branda, fletté la gamba e cominciò a massaggiarla col palmo della mano. Sfregava e intanto parlava: «Che cosa stravagante, ragazzi, quello che la gente chiama benessere: e che sorprendente intreccio ha, radicato in sé, col suo supposto naturale contrario, il dolore! Il fatto è che quei due, insieme, non ci stanno a convivere nell'uomo. Ma se per caso uno dà la caccia al primo e l'acciuffa, è costretto a prendersi anche il secondo, come se fossero sì due, ma incollati ad una testa sola. Sono sicuro» proseguì «che se Esopo avesse avuto l'intuizione, componeva una storia: c'era il solito dio che volendo far fare la pace a due eterni nemici, visto che non ci riusciva, saldò le loro due in una testa unica, e per questo motivo se il primo si presenta a uno, subito anche il secondo tiene dietro. È quanto succede anche a me. Siccome nella mia gamba c'era la sofferenza, per via del ceppo, sento che adesso arriva il benessere, suo seguace» (Platone:“Fedone”, cap. III).

Non voglio indugiare sull’argomento del lavoro anche con l’arcinoto motto che lega l’ozio ed i vizi: i familiari più prossimi spesso mi rimproverano puntigliosamente di ricadere nella banalità. Ma io rispondo che, ogni tanto, alle banalità bisogna dare una rispolverata perché, se da ciò che sappiamo eliminiamo tutte le banalità, rischiamo di diventare preda dell’irrazionalità. La ‘originalità’ a tutti i costi è altrettanto pericolosa della ‘ovvietà’ a tutti i costi.

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Mac, il film che John Turturro ha dedicato a suo padre Nicholas e che oggi propongo agli amici del blog, evidenzia bene il tema del lavoro: è bello fare, fare bene, fare con calma, fare scrupolosamente.
Mac e i suoi fratelli fanno lo stesso mestiere del padre, sono dei carpentieri. Quando il padre muore, i tre si accostano alla salma e, a un certo punto, sembra loro che egli riapra gli occhi e parli: “Chi è che ha fatto questa bara? Non è un ‘vero’ falegname, è un ciabattino. Ricordatevi: ci sono due modi di fare una cosa, il modo giusto e il modo mio… E tutt’e due sono la stessa cosa”.
Il padre è un siciliano emigrato in America e con sé non ha portato la morale mafiosa, ma quella del lavoratore preciso e instancabile, e questa morale l’ha trasmessa a Mac, mentre per gli altri due fratelli il lavoro resta un peso a cui dedicare il tempo indispensabile per vivere.
I tre lavorano alle dipendenze di un imprenditore di origine polacca il quale, per risparmiare nella costruzione dell’intelaiatura in legno, vuole che i pali siano messi a distanza di 60 centimetri. Mac però non è d’accordo: affinchè un’abitazione sia solida, i pali devono avere una distanza di 40 centimetri.
Quel polacco ammette di ‘imbrogliare’, la sua filosofia è ormai quella di tutti i costruttori: guadagnare senza badare ai pericoli che corrono gli operai o le persone che poi andranno ad abitare in quelle case. Ma Mac non scende a compromessi e sfascia con rabbia l’intelaiatura appena ultimata, pur sapendo che lui e gli altri lavoratori saranno per questo licenziati.
Si metterà a costruire in proprio. Comprerà un terreno e vi costruirà quattro villette col giardino intorno. Sono casette fatte secondo i suoi criteri, ma la vendita è difficile perché poco più in là c’è un allevamento di mucche dal quale arriva cattivo odore, e poi perché il polacco, che costruisce anche lui lì vicino, con l’inganno gli sottrae i compratori. A queste difficoltà si aggiungono i contrasti con i fratelli che, non sopportando più il suo esagerato attaccamento al lavoro, pretendono la loro parte e lo lasciano solo.
Mac riuscirà alla fine a vendere le quattro villette, ma i tempi cambieranno – siamo agli inizi degli anni ’50 – e l’edilizia non sarà più opera di bravi artigiani, ma di grandi imprese. Lui non costruirà più, ma passando col figlio davanti alle sue costruzioni si ferma, e gli dice le parole che ho riportato all’inizio. Un piccolo testamento morale, che sta allo spettatore del film saper cogliere, o rigettare.
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Film vincitore della ‘Caméra d'or’ per la migliore opera prima al 45º Festival di Cannes. Interpreti: John Turturro (Mac), Carl Capotorto e Michael Badalucco (i due fratelli), Katherine Borowitz (la moglie), Olek Krupa (l’imprenditore), Ellen Barkin (una modella). Regia di John Turturro.

Cataldo Marino
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domenica 12 agosto 2012

Diego Fusaro: “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”

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Riporto qui di seguito due brani del Prof. Diego Fusaro, filosofo giovanissimo ma di vasta cultura e grande talento, curatore del sito http://www.filosofico.net , da me più volte visitato, ed autore di diversi saggi, molto apprezzati tanto nell’ambiente accademico per il loro rigore espositivo quanto nelle librerie per l’attualità dei problemi affrontati ed i loro risvolti storici e sociologici.
Il primo dei due brani è tratto direttamente dal suo ultimo libro “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”, edito da Bompiani nel 2012. Il secondo è la trascrizione – fedele il più possibile – di quanto egli ha detto, nella presentazione del libro a Torino il 16 aprile 2012, circa i principi filosofici sui quali si regge il sistema economico che, partito dall’occidente, va oggi estendendosi in tutto il mondo, assumendo forme che vorrebbero sembrare irreversibili, ma che tali non sono.
I brani selezionati si riferiscono al capitolo 5.1 del libro e costituiscono una originale lettura dell’incidenza avuta dai principi ispiratori del ’68 nell’evoluzione del capitalismo. Segue, su questo punto specifico, un mio breve commento, con l’intento di dimostrare come, pur nella condivisione dello schema generale proposto dall’Autore sull'evoluzione del capitalismo, sembri opportuna una rivisitazione ed un ridimensionamento del ruolo da lui attribuito agli impetuosi ma brevi ‘moti sessantottini’ nella costruzione di un’ideologia capitalistica 'assoluta e totalitaria'.
C. Marino

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Le tre fasi in cui ho periodizzato il capitalismo, secondo la grammatica hegeliana, sono quella della fase astratta, della fase dialettica e poi, da ultimo, quella in cui stiamo vivendo, la fase speculativa. (…)
1) fase astratta (XV-XVIII secolo): il capitalismo pone se stesso, affrancandosi dal mondo feudale e unificandosi nella graduale elaborazione di una teoria filosofica che lo “naturalizzi”;
2) fase dialettica (XVIII e il XIX secolo): il capitalismo contrappone a sé una classe (il proletariato), che lotta per abbatterlo in quanto è cosciente sia delle contraddizioni che albergano nel cosmo capitalistico, sia della propria posizione di “classe schiava”;
3) fase speculativa, (dal ’68 a oggi): il capitalismo supera gradualmente le limitazioni sia esterne, sia interne e si impone come assoluto e totalitario, come totalità realizzata che deve promuovere ideologicamente la fine della storia, l’esaurimento delle utopie, la consumazione delle “grandi narrazioni”, la “morte della filosofia”: L’assolutizzazione del capitale trova la sua massima espressione nel concetto apparentemente anodino di globalizzazione.

(Diego Fusaro: “Minima mercatalia”, Cap. 1.4. Le tre figure dialettiche del capitalismo)

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(Nella) lettura del capitalismo assoluto e speculativo, individuo due momenti fondamentali, che corrispondono, in maniera elastica comunque, a due date del Novecento che devono essere tenute ben a mente: il ’68 e l’ ’89. Il Sessantotto perché, apparentemente movimento rivoluzionario e anticapitalistico, segna invece in maniera diametralmente opposta il passaggio a un capitalismo post borghese, post proletario e ultracapitalistico; nel senso che il ’68 non è un momento di emancipazione ‘dal’ capitalismo, ma un momento di emancipazione ‘del’ capitalismo. In che senso? Nel senso che il principio fondamentale del ’68 - ‘non esiste autorità’- è il principio fondamentale del capitalismo, per cui non esiste autorità, e la forma-merce può pervadere qualsiasi ambito simbolico, lavorativo, professionale, esistenziale. Ogni sfera vitale, diciamo così, un tempo non mercificabile viene improvvisamente mercificata. Il ’68 appunto congeda i valori borghesi.
La borghesia aveva una sua sfera esistenziale non mercificabile, aveva una religione, aveva una morale, non era ancora totalmente mercificata e anzi poteva maturare una ‘coscienza infelice’: Hegel, Fichte e Marx. Il capitalismo deve far fuori, certo, il proletariato come classe capace di opporsi, ma deve far fuori la borghesia, anche. Deve farla fuori, e lo fa in questo modo appunto: riproducendosi illimitatamente e distruggendo la stessa ‘coscienza infelice’ borghese.
Il paradosso del ’68 si può compendiare strategicamente in una frase se volete scandalosa, per cui con il ’68 il mito del rivoluzionario sparisce e subentra quello del dissidente. Qual è la differenza? Il rivoluzionario lotta per superare il capitalismo, il dissidente invece lotta per godere dei servizi all’interno del capitalismo. Qual è la differenza fra un anarchico negriano e un neoliberale classico? Che il neoliberale classico è disposto a pagare quei servizi di cui invece il negriano anarchico vuole fruire senza pagamento, ma non mette mai in discussione, neanche l’anarchico, l’alienazione del cosmo capitalistico.

Il ‘68 è appunto un movimento antiborghese e ultracapitalistico, che pone in essere un capitalismo non più borghese. E questo è un punto decisivo, no?, in cui la dialettica Hegel-Marx viene abbandonata e subentra Nietzsche, come pensatore di riferimento, Deleuze, Foucault. Ne faccio un esempio solo, sicuramente Deleuze: l’Antiedipo. L’antiedipo cosa teorizza? Teorizza che la cultura borghese classica è una cultura che limita il desiderio: bisogna emanciparsi rendendolo libero, fruibile liberamente, siamo macchine desideranti. Ma questa, signori miei, è l’antropologia del capitalismo, che produce desideri di ogni tipo e appunto vuole che non ci siano più valori morali in grado di contrastarli. Deleuze è un pensatore antiborghese e ultracapitalistico, e così moltissimi altri autori di questa galassia di cui stiamo parlando.
(breve interruzione di Costanzo Preve)
Del resto il fatto che oggi pensatori come Deleuze, Foucault e Nietzsche occupino il centro della scena e, invece, i grandi pensatori della ‘coscienza infelice’ borghese - Fichte, Hegel e Marx - non solo vengano liquidati, ma vengano intesi come nelle visioni manicomiali (prima ricordate) è un fatto degno di nota. Le mode filosofiche non sono mai innocenti, seguono sempre i cicli del capitale; potremmo dire… sono sempre collegate in maniera diretta al capitale. Il fatto che oggi pensatori come Deleuze o Hannah Arendt occupino il centro della scena e non ci si ricordi più di grandi, come Lukacs o Bloch o lo stesso Fichte, è un dato di fatto su cui bisogna… (breve interruzione di C. Preve)

Ultima cosa che volevo dire: l’ ‘89 è l’altra data fondamentale, no? Il ’68 perché liquida l’elemento borghese, liquida l’elemento proletario e lascia semplicemente il modello dell’uomo consumens, il consumatore, per cui il capitalismo, come dice Costanzo (Preve), non si riproduce più oggi a destra. Si riproduce certo a destra nell’economia (abolizione del welfare state, privatizzazione selvaggia), ma si riproduce poi al centro nella politica, nel senso che domina un estremismo di centro: le ali estreme vengono eliminate e resta solo un centrodestra e un centrosinistra. Ma poi culturalmente si riproduce a sinistra, il capitalismo; un capitalismo di estrema sinistra, politicamente corretto, ma che in più è radicalmente antiborghese. Questo è il punto: il capitalismo oggi si riproduce a sinistra perché ha bisogno di quell’antiborghesia, di quella critica radicale della borghesia, che è la cifra della sinistra del ’68.
E poi, appunto in quest’ottica, si spiegano peraltro fenomeni interessantissimi come l’abolizione del pensiero dialettico, la rimozione completa, fino all’89 – dicevo - che è la data decisiva, insieme al ’68; perché con l’89, col crollo del muro di Berlino, è come se sotto le macerie fosse rimasta la pensabilità stessa dell’ ‘essere altrimenti’. Il capitalismo si assolutizza, diventa come l’aria che respiriamo, neutralizza il pensiero stesso di un’altra possibilità. Io nel libro uso una formula spinoziana, capitalismus sive natura, il capitalismo diventa la natura in cui viviamo, al tal punto che non si parla nemmeno più di capitalismo. Se si parla di capitalismo, già lo si identifica e se ne mette in discussione la pretesa con cui si autocontrabbanda il capitalismo, cioè quella di essere assoluto, intrascendibile, un destino. Il capitalismo non dice mai di essere ‘il miglior mondo possibile’, dice però di essere fatalmente ‘il solo mondo possibile’, squalificando le alternative, la possibilità di essere altrimenti.

L’89, appunto, – e mi avvio alla conclusione – segnala in questo senso il venir meno, potremmo dire, di quella pensabilità stessa della progettazione del perseguimento di futuri altri. Il capitalismo, ai tempi di Marx era caratterizzato dalla possibilità dell’essere altrimenti - e non a caso la categoria di possibilità è quella fondamentale su cui Hegel, Fichte e Marx costituiscono il loro pur diverso e irriducibile pensiero - oggi invece la categoria che si impone è quella della necessità, in una desertificazione completa dell’avvenire come luogo di perseguimento di future alternative.
E’ in questo senso che oggi dominano quelle che alcuni sociologi hanno chiamato le “passioni tristi”: il rancore, l’invidia, il cinismo, il disincantamento. E il pensiero postmoderno svolge un ruolo decisivo, il pensiero postmoderno si muove all’interno di questo orizzonte per il fatto che razionalizza il disincanto, razionalizza l’idea che dobbiamo abituarci a vivere in questo mondo. Io ho utilizzato un connubio di due espressioni di Weber: parlo di ‘gabbia di acciaio con incorporato con il politeismo dei valori’. Il capitalismo è una gabbia di acciaio in cui non bisogna pensare, neppure per sogno, di uscire. ‘Sopportate e consumate il mondo; non avrai altra società all’infuori di questa’: è questa la costellazione dei comandamenti del capitalismo. Però all’interno di questa gabbia di acciaio intrascendibile è possibile scegliere un’ampia gamma di ‘politeismo dei valori’, un’ampia gamma di ‘stili di vita’, di possibilità dell’individuo sradicato. Cosa caratterizza il consumo? Il fatto che si è sempre individualmente soli, e questo vede il fiorire odierno di quelle forme di ‘anomia sociale’ totale. La società è totalmente caratterizzata dall’oblio dell’essere sociale, si pensa semplicemente l’individuo e lo si pensa sempre nell’ottica, nell’orizzonte unico, dello scambio e della produzione delle merci. (…)

In questo senso il libro prova a ricostruire la storia del capitalismo, e però con un finale che è un po’ a sorpresa, se volete; nel senso che ha ragione Costanzo (Preve) che sono molte, in questa fase storica, le diagnosi epocali che leggono nel capitalismo il peggiore dei mondi possibili, però c’è una differenza; secondo me, a differenza di questi altri autori che criticano in maniera radicale il capitalismo, ma che sempre correlano alla loro critica l’idea dell’intrascendibilità del capitalismo stesso, questo libro tenta anche, in parte almeno, di riattivare, potremmo dire con una formula che subito capirete, tenta di ridialettizzare lo speculativo, cioè di riproporre una fase dialettica all’interno dello speculativo in cui ci troviamo; prova a ripensare la categoria di possibilità. Il fatto che il capitalismo oggi sia un destino intrascendibile è la madre di tutte le ideologie del capitalismo, che deve contrabbandarsi come un destino, in modo che il suo stesso fatalismo ci renda puri spettatori nel senso cartesiano: rispettare il mondo e le regole che ci sono, cambiare i propri pensieri piuttosto che l’ordine delle cose. E’ il pensiero che Lukacs chiamava “del grande hotel dell’abisso”. Puoi criticare fin che vuoi il capitalismo, a patto che tu dia sempre, accanto a questa critica, anche la diagnosi dell’insuperabilità del capitalismo. Il mio libro invece lo critica radicalmente e prova anche a riprogrammare la sintassi del reale, prova a superare almeno nel pensiero, inizialmente - ma è già un pensiero che incorpora la prassi come sua possibilità - prova a pensare una nuova forma di comunitarismo, universalistico però. Utilizzando un’espressione che ho trovato, anche se non proprio così, ma tematizzata bene in Fichte, prova a delineare un comunitarismo cosmopolitico, cioè un comunitarismo che si lascia alle spalle tanto le esperienze comunitaristiche delle destre tradizionali quanto ovviamente le forme di individualismo anomico che regnano nell’odierno regno animale dello spirito capitalistico, quanto poi anche le forme di collettivismo comunista. Diceva benissimo Heiddegger che il collettivismo non è altro che l’individualismo posto a livello della totalità. Proviamo cioè di nuovo a pensare il comunitarismo come lo pensavano Fichte, Hegel e Marx, cioè come società in cui la libertà di ciascuno diventa la condizione di possibilità della comunità, intesa come prioritaria rispetto alla singola atomistica delle solitudini, come la chiamava già Hegel, cioè ripartire dalla visione comunitaria e anticapitalistica.

In questo senso il libro vuole essere anche un tentativo di riattivazione di quella che, seguendo Lukacs, chiamo, ‘passione durevole’ dell’anticapitalismo. Passione durevole nel senso che aspira, o almeno aspirerebbe, a evitare il riflusso nella accettazione capitalistica, che ha caratterizzato una generazione di pentiti, di avvelenatori dei pozzi in cui hanno bevuto, la generazione del ’68 appunto, quella che nel ’68 faceva balli scomposti in nome del comunismo e della lotta contro la borghesia e che oggi fa balli altrettanto scomposti in nome dei bombardamenti umanitari. Quella è la generazione del disincanto, la generazione che predica il capitalismo come destino, perché… non c’è più niente da fare!

Diego Fusaro: Presentazione del libro. Torino, 16 aprile 2012. 
Trascrizione dal video dal minuto 27.20 al minuto 40.43

https://www.youtube.com/watch?v=j6lf_1DFyyg

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Di fronte all’attuale piattezza della cultura, le analisi del Prof. Diego Fusaro risvegliano gli interessi sopiti dei tanti che, di fronte alla globalizzazione economica e ideologica, con rassegnazione hanno sotterrato l’arma della critica. Condivido le sue analisi e lo spirito che le anima, e da esse traggo spunto per alcune considerazioni e alcune domande.

1) Seguendo le tracce del Prof. Costanzo Preve, Diego Fusaro suddivide la storia del capitalismo e delle idee ad esso correlate in tre fasi e, per il passaggio dalla seconda alla terza, da quella dialettica a quella speculativa, egli identifica il punto di cesura nel ’68, la data-simbolo di un movimento che, forse inconsapevolmente, ha finito per essere funzionale al sistema produttivo e consumistico tipico del capitalismo.
Che io ricordi - studiavo in quegli anni Sociologia a Trento ma, provenendo dalla Giovanile comunista, decisi di non aderire allo spontaneismo e all’ideologia antiborghese del ’68 - una delle principali critiche del Movimento studentesco fu rivolta proprio al consumismo, e lo stile di vita di persone come Rostagno e tanti altri studenti di quell’ateneo era all’epoca del tutto coerente con i loro discorsi: estrema frugalità nell’abbigliamento, nei pasti, nei divertimenti ecc.
La deriva sociale consumistica fu, a mio avviso, anteriore al ’68. Storicamente essa risale agli anni ‘55-’65, quando con pile di cambiali si cominciavano ad acquistare beni necessari, ma anche beni superflui.
La teoria sociologica, però, aveva analizzato criticamente il fenomeno consumistico addirittura mezzo secolo prima con la “Teoria della classe agiata”, il che significa che tale fenomeno a quell’epoca era già in essere. Nel suo libro Thorstein Veblen aveva già individuato le origini della ‘moda’ e del ‘consumismo’ nella mobilità sociale e nella conseguente aspirazione degli strati sociali inferiori ad acquisire, mediante il “consumo vistoso”, lo status dello strato sociale superiore immediatamente contiguo, dando in tal modo luogo ad una illimitata e defatigante scalata collettiva verso l’alto. Se tale analisi, elaborata nel 1899, era corretta, allora il momento del passaggio alla fase 'speculativa' del capitalismo deve essere anticipata, e di molto, rispetto al ’68.
Il pensiero antiborghese del ’68 – antiautoritario ma non nichilista, in quanto alcuni valori venivano sostituiti da altri: solidarietà sociale, antimperialismo ecc. – può forse avere, parzialmente ed involontariamente, contribuito a fornire ulteriori strumenti ideologici al sistema capitalistico, ma non si può, se non con una forzatura logica, attribuire soltanto ad esso delle responsabilità così significative. A parte la testimonianza teorica di Veblen e la connessione fra il boom economico del dopoguerra e il fenomeno del consumismo, cosa dovremmo dire della svolta ideologica della signora Thatcher e del signor Reagan negli anni ’80 e del successivo contagio portato attraverso i media dai modelli di vita occidentali nei paesi comunisti?
Come si vede, il passaggio dalla fase dialettica alla fase speculativa è difficile da collocare in un preciso momento storico. Più che di una puntuale svolta storica, si tratta di un lungo processo, che attraversa tutto il Novecento e che coinvolge, sì, anche il ’68, ma che sarebbe troppo riduttivo esaurire in esso.
La critica agli ‘avvelenatori dei pozzi in cui hanno bevuto’, pur se un po’ impietosa, è giusta e doverosa. Ma essa stessa sta a dimostrare che non furono i primi sessantottini a fare carte false per spacciare per anticapitalismo la loro lotta antiborghese. Il movimento nasce con una certa purezza ed ingenuità; è solo successivamente che, in accordo con la ben nota teoria della ‘circolazione delle élites’, molti di essi si riveleranno scaltri e subdoli emulatori dei più incalliti speculatori della finanza e dell’industria.

2) Interloquendo con Costanzo Preve nel corso della presentazione del suo libro, Fusaro parla - prendendo a prestito il linguaggio clinico - di diagnosi, prognosi e terapia del male rappresentato del capitalismo speculativo. Bene, se le linee da lui tracciate per la diagnosi sono senza dubbio corrette, e in molti punti anche suggestive, resta però da stabilire la terapia da adottare.
Nella presentazione del libro il termine ‘capitalismo’ viene citato centinaia di volte, ma la terapia indicata, il ‘comunitarismo universalistico’, viene timidamente pronunciato una sola volta. Non suggerirò, per questo, l’ingenua tecnica del 'content analysis', tuttavia credo che sul termine usato sarebbe opportuna una più coraggiosa chiarezza.
La terapia non potrà essere ovviamente quella dello stesso capitalismo antiborghese, altrimenti la diagnosi non avrebbe senso. Ma sembra che non si tratti neppure di un comunismo egualitario, perchè questo rinnegherebbe il ‘merito’, che è un valore borghese da tenere vivo in quanto capace, come tanti altri valori borghesi, di porre seri vincoli all’idea di illimitatezza della produzione e dei desideri indotti dal capitalismo. E non può trattarsi neppure di un ‘comunismo borghese’, cioè un comunitarismo guidato da valori nati al servizio del capitalismo.
Insomma il ‘comunitarismo universalistico’, pur nelle sue varie componenti ed elaborazioni teoriche, rimane per ora un termine troppo vago per poterci costruire sopra una società nuova. Ma nessuno meglio del prof. Fusaro, in futuro, potrà lavorare con maggiore competenza e passione su un progetto di tale portata. Continuerò a seguire i suoi scritti, nella speranza che essi possano indicare una più precisa via d’uscita.
Cataldo Marino
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