domenica 12 agosto 2012

Diego Fusaro: “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”

.
Riporto qui di seguito due brani del Prof. Diego Fusaro, filosofo giovanissimo ma di vasta cultura e grande talento, curatore del sito http://www.filosofico.net , da me più volte visitato, ed autore di diversi saggi, molto apprezzati tanto nell’ambiente accademico per il loro rigore espositivo quanto nelle librerie per l’attualità dei problemi affrontati ed i loro risvolti storici e sociologici.
Il primo dei due brani è tratto direttamente dal suo ultimo libro “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”, edito da Bompiani nel 2012. Il secondo è la trascrizione – fedele il più possibile – di quanto egli ha detto, nella presentazione del libro a Torino il 16 aprile 2012, circa i principi filosofici sui quali si regge il sistema economico che, partito dall’occidente, va oggi estendendosi in tutto il mondo, assumendo forme che vorrebbero sembrare irreversibili, ma che tali non sono.
I brani selezionati si riferiscono al capitolo 5.1 del libro e costituiscono una originale lettura dell’incidenza avuta dai principi ispiratori del ’68 nell’evoluzione del capitalismo. Segue, su questo punto specifico, un mio breve commento, con l’intento di dimostrare come, pur nella condivisione dello schema generale proposto dall’Autore sull'evoluzione del capitalismo, sembri opportuna una rivisitazione ed un ridimensionamento del ruolo da lui attribuito agli impetuosi ma brevi ‘moti sessantottini’ nella costruzione di un’ideologia capitalistica 'assoluta e totalitaria'.
C. Marino

*.*.*.*.*

Le tre fasi in cui ho periodizzato il capitalismo, secondo la grammatica hegeliana, sono quella della fase astratta, della fase dialettica e poi, da ultimo, quella in cui stiamo vivendo, la fase speculativa. (…)
1) fase astratta (XV-XVIII secolo): il capitalismo pone se stesso, affrancandosi dal mondo feudale e unificandosi nella graduale elaborazione di una teoria filosofica che lo “naturalizzi”;
2) fase dialettica (XVIII e il XIX secolo): il capitalismo contrappone a sé una classe (il proletariato), che lotta per abbatterlo in quanto è cosciente sia delle contraddizioni che albergano nel cosmo capitalistico, sia della propria posizione di “classe schiava”;
3) fase speculativa, (dal ’68 a oggi): il capitalismo supera gradualmente le limitazioni sia esterne, sia interne e si impone come assoluto e totalitario, come totalità realizzata che deve promuovere ideologicamente la fine della storia, l’esaurimento delle utopie, la consumazione delle “grandi narrazioni”, la “morte della filosofia”: L’assolutizzazione del capitale trova la sua massima espressione nel concetto apparentemente anodino di globalizzazione.

(Diego Fusaro: “Minima mercatalia”, Cap. 1.4. Le tre figure dialettiche del capitalismo)

*

(Nella) lettura del capitalismo assoluto e speculativo, individuo due momenti fondamentali, che corrispondono, in maniera elastica comunque, a due date del Novecento che devono essere tenute ben a mente: il ’68 e l’ ’89. Il Sessantotto perché, apparentemente movimento rivoluzionario e anticapitalistico, segna invece in maniera diametralmente opposta il passaggio a un capitalismo post borghese, post proletario e ultracapitalistico; nel senso che il ’68 non è un momento di emancipazione ‘dal’ capitalismo, ma un momento di emancipazione ‘del’ capitalismo. In che senso? Nel senso che il principio fondamentale del ’68 - ‘non esiste autorità’- è il principio fondamentale del capitalismo, per cui non esiste autorità, e la forma-merce può pervadere qualsiasi ambito simbolico, lavorativo, professionale, esistenziale. Ogni sfera vitale, diciamo così, un tempo non mercificabile viene improvvisamente mercificata. Il ’68 appunto congeda i valori borghesi.
La borghesia aveva una sua sfera esistenziale non mercificabile, aveva una religione, aveva una morale, non era ancora totalmente mercificata e anzi poteva maturare una ‘coscienza infelice’: Hegel, Fichte e Marx. Il capitalismo deve far fuori, certo, il proletariato come classe capace di opporsi, ma deve far fuori la borghesia, anche. Deve farla fuori, e lo fa in questo modo appunto: riproducendosi illimitatamente e distruggendo la stessa ‘coscienza infelice’ borghese.
Il paradosso del ’68 si può compendiare strategicamente in una frase se volete scandalosa, per cui con il ’68 il mito del rivoluzionario sparisce e subentra quello del dissidente. Qual è la differenza? Il rivoluzionario lotta per superare il capitalismo, il dissidente invece lotta per godere dei servizi all’interno del capitalismo. Qual è la differenza fra un anarchico negriano e un neoliberale classico? Che il neoliberale classico è disposto a pagare quei servizi di cui invece il negriano anarchico vuole fruire senza pagamento, ma non mette mai in discussione, neanche l’anarchico, l’alienazione del cosmo capitalistico.

Il ‘68 è appunto un movimento antiborghese e ultracapitalistico, che pone in essere un capitalismo non più borghese. E questo è un punto decisivo, no?, in cui la dialettica Hegel-Marx viene abbandonata e subentra Nietzsche, come pensatore di riferimento, Deleuze, Foucault. Ne faccio un esempio solo, sicuramente Deleuze: l’Antiedipo. L’antiedipo cosa teorizza? Teorizza che la cultura borghese classica è una cultura che limita il desiderio: bisogna emanciparsi rendendolo libero, fruibile liberamente, siamo macchine desideranti. Ma questa, signori miei, è l’antropologia del capitalismo, che produce desideri di ogni tipo e appunto vuole che non ci siano più valori morali in grado di contrastarli. Deleuze è un pensatore antiborghese e ultracapitalistico, e così moltissimi altri autori di questa galassia di cui stiamo parlando.
(breve interruzione di Costanzo Preve)
Del resto il fatto che oggi pensatori come Deleuze, Foucault e Nietzsche occupino il centro della scena e, invece, i grandi pensatori della ‘coscienza infelice’ borghese - Fichte, Hegel e Marx - non solo vengano liquidati, ma vengano intesi come nelle visioni manicomiali (prima ricordate) è un fatto degno di nota. Le mode filosofiche non sono mai innocenti, seguono sempre i cicli del capitale; potremmo dire… sono sempre collegate in maniera diretta al capitale. Il fatto che oggi pensatori come Deleuze o Hannah Arendt occupino il centro della scena e non ci si ricordi più di grandi, come Lukacs o Bloch o lo stesso Fichte, è un dato di fatto su cui bisogna… (breve interruzione di C. Preve)

Ultima cosa che volevo dire: l’ ‘89 è l’altra data fondamentale, no? Il ’68 perché liquida l’elemento borghese, liquida l’elemento proletario e lascia semplicemente il modello dell’uomo consumens, il consumatore, per cui il capitalismo, come dice Costanzo (Preve), non si riproduce più oggi a destra. Si riproduce certo a destra nell’economia (abolizione del welfare state, privatizzazione selvaggia), ma si riproduce poi al centro nella politica, nel senso che domina un estremismo di centro: le ali estreme vengono eliminate e resta solo un centrodestra e un centrosinistra. Ma poi culturalmente si riproduce a sinistra, il capitalismo; un capitalismo di estrema sinistra, politicamente corretto, ma che in più è radicalmente antiborghese. Questo è il punto: il capitalismo oggi si riproduce a sinistra perché ha bisogno di quell’antiborghesia, di quella critica radicale della borghesia, che è la cifra della sinistra del ’68.
E poi, appunto in quest’ottica, si spiegano peraltro fenomeni interessantissimi come l’abolizione del pensiero dialettico, la rimozione completa, fino all’89 – dicevo - che è la data decisiva, insieme al ’68; perché con l’89, col crollo del muro di Berlino, è come se sotto le macerie fosse rimasta la pensabilità stessa dell’ ‘essere altrimenti’. Il capitalismo si assolutizza, diventa come l’aria che respiriamo, neutralizza il pensiero stesso di un’altra possibilità. Io nel libro uso una formula spinoziana, capitalismus sive natura, il capitalismo diventa la natura in cui viviamo, al tal punto che non si parla nemmeno più di capitalismo. Se si parla di capitalismo, già lo si identifica e se ne mette in discussione la pretesa con cui si autocontrabbanda il capitalismo, cioè quella di essere assoluto, intrascendibile, un destino. Il capitalismo non dice mai di essere ‘il miglior mondo possibile’, dice però di essere fatalmente ‘il solo mondo possibile’, squalificando le alternative, la possibilità di essere altrimenti.

L’89, appunto, – e mi avvio alla conclusione – segnala in questo senso il venir meno, potremmo dire, di quella pensabilità stessa della progettazione del perseguimento di futuri altri. Il capitalismo, ai tempi di Marx era caratterizzato dalla possibilità dell’essere altrimenti - e non a caso la categoria di possibilità è quella fondamentale su cui Hegel, Fichte e Marx costituiscono il loro pur diverso e irriducibile pensiero - oggi invece la categoria che si impone è quella della necessità, in una desertificazione completa dell’avvenire come luogo di perseguimento di future alternative.
E’ in questo senso che oggi dominano quelle che alcuni sociologi hanno chiamato le “passioni tristi”: il rancore, l’invidia, il cinismo, il disincantamento. E il pensiero postmoderno svolge un ruolo decisivo, il pensiero postmoderno si muove all’interno di questo orizzonte per il fatto che razionalizza il disincanto, razionalizza l’idea che dobbiamo abituarci a vivere in questo mondo. Io ho utilizzato un connubio di due espressioni di Weber: parlo di ‘gabbia di acciaio con incorporato con il politeismo dei valori’. Il capitalismo è una gabbia di acciaio in cui non bisogna pensare, neppure per sogno, di uscire. ‘Sopportate e consumate il mondo; non avrai altra società all’infuori di questa’: è questa la costellazione dei comandamenti del capitalismo. Però all’interno di questa gabbia di acciaio intrascendibile è possibile scegliere un’ampia gamma di ‘politeismo dei valori’, un’ampia gamma di ‘stili di vita’, di possibilità dell’individuo sradicato. Cosa caratterizza il consumo? Il fatto che si è sempre individualmente soli, e questo vede il fiorire odierno di quelle forme di ‘anomia sociale’ totale. La società è totalmente caratterizzata dall’oblio dell’essere sociale, si pensa semplicemente l’individuo e lo si pensa sempre nell’ottica, nell’orizzonte unico, dello scambio e della produzione delle merci. (…)

In questo senso il libro prova a ricostruire la storia del capitalismo, e però con un finale che è un po’ a sorpresa, se volete; nel senso che ha ragione Costanzo (Preve) che sono molte, in questa fase storica, le diagnosi epocali che leggono nel capitalismo il peggiore dei mondi possibili, però c’è una differenza; secondo me, a differenza di questi altri autori che criticano in maniera radicale il capitalismo, ma che sempre correlano alla loro critica l’idea dell’intrascendibilità del capitalismo stesso, questo libro tenta anche, in parte almeno, di riattivare, potremmo dire con una formula che subito capirete, tenta di ridialettizzare lo speculativo, cioè di riproporre una fase dialettica all’interno dello speculativo in cui ci troviamo; prova a ripensare la categoria di possibilità. Il fatto che il capitalismo oggi sia un destino intrascendibile è la madre di tutte le ideologie del capitalismo, che deve contrabbandarsi come un destino, in modo che il suo stesso fatalismo ci renda puri spettatori nel senso cartesiano: rispettare il mondo e le regole che ci sono, cambiare i propri pensieri piuttosto che l’ordine delle cose. E’ il pensiero che Lukacs chiamava “del grande hotel dell’abisso”. Puoi criticare fin che vuoi il capitalismo, a patto che tu dia sempre, accanto a questa critica, anche la diagnosi dell’insuperabilità del capitalismo. Il mio libro invece lo critica radicalmente e prova anche a riprogrammare la sintassi del reale, prova a superare almeno nel pensiero, inizialmente - ma è già un pensiero che incorpora la prassi come sua possibilità - prova a pensare una nuova forma di comunitarismo, universalistico però. Utilizzando un’espressione che ho trovato, anche se non proprio così, ma tematizzata bene in Fichte, prova a delineare un comunitarismo cosmopolitico, cioè un comunitarismo che si lascia alle spalle tanto le esperienze comunitaristiche delle destre tradizionali quanto ovviamente le forme di individualismo anomico che regnano nell’odierno regno animale dello spirito capitalistico, quanto poi anche le forme di collettivismo comunista. Diceva benissimo Heiddegger che il collettivismo non è altro che l’individualismo posto a livello della totalità. Proviamo cioè di nuovo a pensare il comunitarismo come lo pensavano Fichte, Hegel e Marx, cioè come società in cui la libertà di ciascuno diventa la condizione di possibilità della comunità, intesa come prioritaria rispetto alla singola atomistica delle solitudini, come la chiamava già Hegel, cioè ripartire dalla visione comunitaria e anticapitalistica.

In questo senso il libro vuole essere anche un tentativo di riattivazione di quella che, seguendo Lukacs, chiamo, ‘passione durevole’ dell’anticapitalismo. Passione durevole nel senso che aspira, o almeno aspirerebbe, a evitare il riflusso nella accettazione capitalistica, che ha caratterizzato una generazione di pentiti, di avvelenatori dei pozzi in cui hanno bevuto, la generazione del ’68 appunto, quella che nel ’68 faceva balli scomposti in nome del comunismo e della lotta contro la borghesia e che oggi fa balli altrettanto scomposti in nome dei bombardamenti umanitari. Quella è la generazione del disincanto, la generazione che predica il capitalismo come destino, perché… non c’è più niente da fare!

Diego Fusaro: Presentazione del libro. Torino, 16 aprile 2012. 
Trascrizione dal video dal minuto 27.20 al minuto 40.43

https://www.youtube.com/watch?v=j6lf_1DFyyg

*.*.*.*

Di fronte all’attuale piattezza della cultura, le analisi del Prof. Diego Fusaro risvegliano gli interessi sopiti dei tanti che, di fronte alla globalizzazione economica e ideologica, con rassegnazione hanno sotterrato l’arma della critica. Condivido le sue analisi e lo spirito che le anima, e da esse traggo spunto per alcune considerazioni e alcune domande.

1) Seguendo le tracce del Prof. Costanzo Preve, Diego Fusaro suddivide la storia del capitalismo e delle idee ad esso correlate in tre fasi e, per il passaggio dalla seconda alla terza, da quella dialettica a quella speculativa, egli identifica il punto di cesura nel ’68, la data-simbolo di un movimento che, forse inconsapevolmente, ha finito per essere funzionale al sistema produttivo e consumistico tipico del capitalismo.
Che io ricordi - studiavo in quegli anni Sociologia a Trento ma, provenendo dalla Giovanile comunista, decisi di non aderire allo spontaneismo e all’ideologia antiborghese del ’68 - una delle principali critiche del Movimento studentesco fu rivolta proprio al consumismo, e lo stile di vita di persone come Rostagno e tanti altri studenti di quell’ateneo era all’epoca del tutto coerente con i loro discorsi: estrema frugalità nell’abbigliamento, nei pasti, nei divertimenti ecc.
La deriva sociale consumistica fu, a mio avviso, anteriore al ’68. Storicamente essa risale agli anni ‘55-’65, quando con pile di cambiali si cominciavano ad acquistare beni necessari, ma anche beni superflui.
La teoria sociologica, però, aveva analizzato criticamente il fenomeno consumistico addirittura mezzo secolo prima con la “Teoria della classe agiata”, il che significa che tale fenomeno a quell’epoca era già in essere. Nel suo libro Thorstein Veblen aveva già individuato le origini della ‘moda’ e del ‘consumismo’ nella mobilità sociale e nella conseguente aspirazione degli strati sociali inferiori ad acquisire, mediante il “consumo vistoso”, lo status dello strato sociale superiore immediatamente contiguo, dando in tal modo luogo ad una illimitata e defatigante scalata collettiva verso l’alto. Se tale analisi, elaborata nel 1899, era corretta, allora il momento del passaggio alla fase 'speculativa' del capitalismo deve essere anticipata, e di molto, rispetto al ’68.
Il pensiero antiborghese del ’68 – antiautoritario ma non nichilista, in quanto alcuni valori venivano sostituiti da altri: solidarietà sociale, antimperialismo ecc. – può forse avere, parzialmente ed involontariamente, contribuito a fornire ulteriori strumenti ideologici al sistema capitalistico, ma non si può, se non con una forzatura logica, attribuire soltanto ad esso delle responsabilità così significative. A parte la testimonianza teorica di Veblen e la connessione fra il boom economico del dopoguerra e il fenomeno del consumismo, cosa dovremmo dire della svolta ideologica della signora Thatcher e del signor Reagan negli anni ’80 e del successivo contagio portato attraverso i media dai modelli di vita occidentali nei paesi comunisti?
Come si vede, il passaggio dalla fase dialettica alla fase speculativa è difficile da collocare in un preciso momento storico. Più che di una puntuale svolta storica, si tratta di un lungo processo, che attraversa tutto il Novecento e che coinvolge, sì, anche il ’68, ma che sarebbe troppo riduttivo esaurire in esso.
La critica agli ‘avvelenatori dei pozzi in cui hanno bevuto’, pur se un po’ impietosa, è giusta e doverosa. Ma essa stessa sta a dimostrare che non furono i primi sessantottini a fare carte false per spacciare per anticapitalismo la loro lotta antiborghese. Il movimento nasce con una certa purezza ed ingenuità; è solo successivamente che, in accordo con la ben nota teoria della ‘circolazione delle élites’, molti di essi si riveleranno scaltri e subdoli emulatori dei più incalliti speculatori della finanza e dell’industria.

2) Interloquendo con Costanzo Preve nel corso della presentazione del suo libro, Fusaro parla - prendendo a prestito il linguaggio clinico - di diagnosi, prognosi e terapia del male rappresentato del capitalismo speculativo. Bene, se le linee da lui tracciate per la diagnosi sono senza dubbio corrette, e in molti punti anche suggestive, resta però da stabilire la terapia da adottare.
Nella presentazione del libro il termine ‘capitalismo’ viene citato centinaia di volte, ma la terapia indicata, il ‘comunitarismo universalistico’, viene timidamente pronunciato una sola volta. Non suggerirò, per questo, l’ingenua tecnica del 'content analysis', tuttavia credo che sul termine usato sarebbe opportuna una più coraggiosa chiarezza.
La terapia non potrà essere ovviamente quella dello stesso capitalismo antiborghese, altrimenti la diagnosi non avrebbe senso. Ma sembra che non si tratti neppure di un comunismo egualitario, perchè questo rinnegherebbe il ‘merito’, che è un valore borghese da tenere vivo in quanto capace, come tanti altri valori borghesi, di porre seri vincoli all’idea di illimitatezza della produzione e dei desideri indotti dal capitalismo. E non può trattarsi neppure di un ‘comunismo borghese’, cioè un comunitarismo guidato da valori nati al servizio del capitalismo.
Insomma il ‘comunitarismo universalistico’, pur nelle sue varie componenti ed elaborazioni teoriche, rimane per ora un termine troppo vago per poterci costruire sopra una società nuova. Ma nessuno meglio del prof. Fusaro, in futuro, potrà lavorare con maggiore competenza e passione su un progetto di tale portata. Continuerò a seguire i suoi scritti, nella speranza che essi possano indicare una più precisa via d’uscita.
Cataldo Marino
.
Copiright 2012 - all rights reserved