venerdì 31 agosto 2012

Il seme dell’utopia: Riflessioni in libertà di Giampiero Calabrò

In primavera ho raccolto gli articoli pubblicati sul blog in un volumetto di cui fare omaggio a un ristrettissimo numero di amici, primo fra i quali il Prof. Giampiero Calabrò, la cui amicizia risale esattamente a, ehm… , mezzo secolo fa. Oggi, la sua impegnativa attività di accademico per un verso e la mia vita ritirata per altro verso hanno purtroppo diradato le nostre occasioni di incontro, ma non hanno intaccato né affievolito i sentimenti d’affetto ed i rapporti di stima dell’età giovanile.
Un mese fa Giampiero mi ha fatto pervenire alcune sue ‘Riflessioni’ sui miei articoli. Le pubblico con lieve ritardo a causa del torrido caldo di agosto, ma anche, lo confesso, per colpa della mia personale ritrosia ad esibire apprezzamenti che, in virtù dei legami di amicizia, potrebbero andare oltre i miei meriti. Tuttavia, poiché tali riflessioni danno una particolare e felice chiave di lettura di quanto vado scrivendo in questi ultimi tempi, mi sembra giusto lasciarne traccia sul blog.
Qui di seguito riporto la graditissima Recensione di Giampiero e, a seguire, la mia Postfazione al libro, alla quale in alcuni punti la prima si richiama .

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Nella sua Postfazione Cataldo Marino ci ricorda che ne “Il seme dell’utopia” raccoglie scritti pubblicati sul suo blog dal 2009 al 2012. Scritti vari, diversi, uno zibaldone di varia umanità, che sembra non avere un preciso filo conduttore, quasi a voler testimoniare la forza impetuosa di un pensare libero, anche rapsodico, quasi una sfida alla fattualità dell’oggi, tutta tesa a ricordarci di stare con i piedi di piombo, attaccati alle cose concretissime e immediate.

Il libro si apre con una definizione di utopia che in un certo senso modifica quella data dal celebre sociologo Karl Mannheim su cui l’autore si è spesso cimentato nelle aule della Facoltà di sociologia negli anni della grande contestazione del 68. L’utopia non è solo ciò che contraddice la realtà presente, ma è il progetto di una realtà diversa. In altri termini, è un progetto e come tale reale, che però non ha ancora realizzato il suo “fine”. Posta così la questione, ecco intravedere quel filo rosso, alla cui ricerca mi ero mosso quando ho iniziato a leggere quelle pagine. La diversità dei temi, i tanti argomenti, le considerazioni fugaci, i giudizi trancianti ed autoironici, trovano un loro “continuum” nel presentarci una realtà diversa, un anelito verso il nuovo; il tentativo di mostrare una dimensione della società che non si esaurisce nel fatto immediato hic et nunc, ma allude al diverso, all’oltre. Cataldo Marino con un sorriso, che a volte sembra uno sberleffo, ci indica con il dito, come nel vecchio adagio cinese, la luna, e sornione sorride perché è conscio dei molti che si soffermeranno sul dito.

Il volume affronta tanti e così molteplici temi che a volerli discutere e commentare tutti si rischierebbe di scrivere un altro saggio e soprattutto si commetterebbe il grave errore di tradire la freschezza di quelle allusioni, l’immediatezza di un giudizio, il giuoco sottile dell’ironia. Allora scelgo, facendo violenza alla varietà e pluralità degli argomenti, un solo tema, quello più lontano dai fatti di cronaca o da alcune considerazioni sulla realtà sociale e politica di cogente attualità. E’ il tema della scrittura, della parola che si trasforma nella parola stampata, che perde la “virtualità” propria della creazione informatica, per fisicizzarsi sulla carta scritta. Non si tratta di criminalizzare il grande ed ormai insostituibile strumento informatico e le grandi potenzialità della rete. Tutt’altro!

“Il seme dell’utopia” nasce sulla rete, naviga nel suo mare magnum, si perde nelle sue eteree atmosfere, anche se, ad un certo punto, direi ad una certa età della vita sente il bisogno di essere tradotto in carta stampata, in un volumetto artigianale, che sa di colla e di spago e che un giorno passi dal comodino allo scaffale. Compagno quotidiano che vigila su sonni inquieti e ormai sempre più brevi, per essere deposto con rito, oserei dire liturgico, nello scaffale in compagnia di altri autori eterni, quasi a collocarsi in una sorta di tabernacolo con il desiderio, neanche tanto nascosto, che possa diventare imperituro per essere affidato così alle generazioni future.

Mi soffermo su questo tema della lettura e del rapporto carnale con il "libro", perché ciò ha costituito per molti anni della nostra adolescenza e poi della nostra giovinezza l’argomento che tanto ci accomunava nelle lunghe e defatiganti discussioni, che echeggiavano lungo la discesa dell’Arcivescovado che dalla Cattedrale muove verso la piazzetta del Commercio, laddove le nostre strade si dividevano: io andavo a sinistra verso via xx settembre e lui verso la parte destra che porta a san Nico. Nelle pagine di questo volume, che vanno lette in modo casuale, ove l’occhio e l’intelletto è più attratto, si respira a volte ed apparentemente un’atmosfera nostalgica verso un passato che ormai non è più. In verità, nelle sue pagine, “Il seme dell’utopia” trasuda di tecnologia e di informatica, quasi a contraddire l’aria dimessa e umile con cui si presenta. Il passato è sì presente, ma non in forma nostalgica, se mai come parametro critico. L’autore possiede la consapevolezza di un suo impossibile ritorno. In verità, l’utopia è il “non ancora” è speranza verso il futuro è la negazione del fare come fatto, come già fatto, che ha rappresentato la cifra politica e culturale dell’ultimo ventennio. Di fronte ad una generazione che si guarda non la punta del naso, ma la punta dei piedi, di fronte cioè all’esaltazione della concretezza intesa come presente quotidiano, che rifiuta di guardare oltre, perché l’andare oltre richiede il rischio e l’intelligenza, le pagine di Cataldo rappresentano da una parte una sfida e dall’altra la speranza che un ciclo si possa chiudere e che all’orizzonte appaia una ‘nuova alba’. Per questo la virtualità del blog, le riflessioni immediate e contingenti affidate alla rete sentono il bisogno di cristallizzarsi nella parola scritta di un libro-canovaccio, un libro aperto che si arricchisce sempre di nuovi stimoli, capaci di resistere alla luce abbagliante di un nuovo ‘sole’.

30 Luglio, 2012, Sant’Angelo di Rossano.
Giampiero Calabrò

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Postfazione al libro “Il seme dell’utopia”

Gli articoli qui raccolti, scritti fra dicembre 2009 e febbraio 2012, sono stati di volta in volta pubblicati sul blog personale ilsemedellutopia.it. Di essi, alcuni sono stati poi ripubblicati dai siti: fisicamente.net, megachip.info, unicobas.it, meylho43.word-press e dalla rivista Indipendenza.
Il titolo del volumetto, Il seme dell’utopia, vuole rendere testimonianza della continuità con gli ideali da me accolti con entusiasmo giovanile negli anni Sessanta e coltivati in autonomia di giudizio negli anni successivi. Il sottotitolo Riflessioni socio/logiche vuole invece indicare contemporaneamente l'oggetto di trattazione – la società nei suoi vari aspetti – ed una metodologia, che poggia sugli studi universitari di sociologia ma altresì sul convincimento del superiore valore della logica filosofica.
Non ci sono teorie che possano sottrarsi con un qualsivoglia artificio al principio di non contraddizione. E’ vero che fra il bianco e il nero esistono infinite tonalità di grigio, ma questo non vuol dire che l’estrema luminosità e il profondo buio non mantengano la loro particolare identità e la loro reciproca inconciliabilità.

Questa pubblicazione nasce dall’esigenza di superare la ‘volatilità’ dei prodotti della moderna informatica. Un amico esperto nel campo mi ha confermato che statisticamente l’ottanta per cento delle informazioni fissate nelle memorie del web e dei personal computer, nonostante i vari accorgimenti, finisce per andare perduto. Mentre un dipinto o la stampa di una vecchia foto si mantengono per secoli, delle mille fotografie di cui oggi si riempiono le memorie informatiche, spesso, dopo poco tempo non rimane nulla: con la stessa facilità con cui si produce, si finisce per consumare e distruggere.
Da alcuni anni dedico parte del mio tempo libero a riflettere e scrivere. E’ un’attività che in primo luogo mi consente di riordinare le idee e poi, ovviamente, anche di comunicarle ad altri. Il tempo della vita è però limitato e, in un futuro più o meno lontano, è assolutamente prevedibile che il web cancelli i miei poveri sforzi. Se gli amici che stimo maggiormente ne avranno una copia cartacea, c’è invece la speranza che qualcosa resti. Timori da vecchi, penosi ma veri.

E veniamo alla confezionatura del testo. Mi è già capitato con il pamphlet Il disagio degli insegnanti, pubblicato nel 2000, che qualche esperto bibliofilo sorridesse bonariamente sfogliandolo e notando la "economicità" dell'edizione. Anche se viviamo in tempi poco floridi, la mia scelta del "fai-da-te" non è però solo frutto di un calcolo dei costi: mi piace provare e scegliere in completa autonomia l'impaginazione e i caratteri di stampa; mi piace rileggere il testo fino a che ogni virgola non dia il senso e il ritmo giusto a ciò che voglio dire; mi piace assistere al lavoro di stampa e rilegatura, almeno fino a quando l'operatore non si dimostra chiaramente seccato della mia presenza.

E’ una passione antica. Quando avevo circa dieci anni, chiesi a mio padre se potevo andare di pomeriggio nella tipografia Mangone, di fronte alla Cattedrale. Temevo che mi dicesse di no, perché all’epoca l’apprendistato era in genere riservato alle famiglie socialmente più modeste, e invece lui acconsentì. Potei così per qualche settimana imparare a comporre le parole con i caratteri di piombo, messi in fila con la tacca all’insù, e stupirmi di quella enorme macchina che ogni volta andava a poggiarsi sul foglio bianco, lasciando miracolosamente impresso l’inchiostro di mille piccole letterine. Oggi non è la stessa cosa, tutti stampiamo a casa con un semplice clic. Eppure qualcuno rimane ancora stupito di fronte alla fulminea trasformazione della parola pensata in parola scritta.

Cataldo Marino
Rossano Calabro, marzo 2012