martedì 21 novembre 2017

Analisi dell'astensionismo nelle elezioni amministrative



Italiani residenti all'estero (si consiglia di cliccare sull'immagine)

Da alcuni anni si registra una sempre più scarsa affluenza alle elezioni sia politiche che amministrative. La prima spiegazione è quella di un progressivo scollamento fra la politica e i cittadini, ma a questa bisogna aggiungere quelle particolari situazioni che, verificandosi con una certa costanza, possiamo far rientrare nella normalità: studenti universitari fuori sede; persone temporaneamente assenti dalla città di residenza per motivi di lavoro o per cure mediche o per turismo; persone anziane o malate o con handicap che, pur potendo votare a casa, hanno ragionevolmente altro a cui pensare. Tutti questi casi non rientrano nel fenomeno dell’astensionismo, ma in quello delle impossibilità o delle difficoltà.
A far risultare ancora più scarsa affluenza alle urne c’è poi anche la normativa relativa al numero dei cittadini aventi teoricamente diritto al voto, che è ben diverso da quello dei cittadini che sono effettivamente nelle condizioni di esercitare tale diritto.

Nel 2001 il ministro Tremaglia, per l'elezione di deputati e senatori, fece approvare una legge sul diritto di voto degli Italiani residenti all’estero. Questo diritto esisteva già, ma la nuova legge ne rese più facile l’esercizio, dando la possibilità del voto tramite i Consolati italiani all'estero.
Non so quanto ciò sia giusto, nutro forti dubbi perché non credo che un Italiano, che vive da 20-30 anni in Argentina o in Germania, sia sufficientemente informato sui problemi nazionali e sulle qualità dei candidati alla Camera dei Deputati e al Senato. Il meccanismo elettorale tuttavia, almeno in questo caso, non inquina i dati ufficiali relativi all’affluenza alle urne perché, per gli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), venne istituita una particolare Circoscrizione. Ciò fa sì che, se oggi in Italia va a votare il 60% degli aventi diritto e all’estero il 15%, il dato sull’affluenza risulta abbastanza chiaro.



La stessa cosa non può dirsi per quanto riguarda le elezioni amministrative e per i referendum consultivi. In questi casi infatti vengono 'ammucchiati' nelle stesse liste i cittadini residenti nel Comune e quelli residenti all’estero, i quali però non possono esprimere il voto tramite i Consolati come nelle elezioni politiche, ma devono tornare in Italia.
Non sono a disposizione i dati ufficiali relativi ai residenti all’estero, ma il fatto che, per votare, essi debbano assentarsi dal lavoro per alcuni giorni e affrontare un viaggio lungo e oneroso fa pensare che la loro partecipazione sia quasi nulla. E tuttavia essi risultano fra i potenziali elettori, determinando l’indice di affluenza ai seggi elettorali.

Il dubbio sulla irragionevolezza del calcolo dell'affluenza alle urne mi è venuto da una recente esperienza. In ottobre due città, Corigliano e Rossano, vengono chiamate dalla Regione Calabria a partecipare a un Referendum consultivo sulla loro fusione amministrativa.
I cittadini di entrambi i Comuni approvano con delle percentuali significative (rispettivamente il 61% e il 94%), ma alcuni esponenti del ‘no’ sostengono che, pur non essendo previsto un quorum, l'affluenza in uno dei due comuni (32,89%) era troppo bassa per indicare una reale e precisa volontà popolare.
Nei giorni successivi al referendum qualcuno fa però notare che non è possibile che in una città di 40.000 abitanti ci sia un corpo elettorale di 38.000 aventi diritto al voto, ben il 95% contro l’80% delle statistiche relative alle elezioni politiche. Perché questa discrepanza?
Il responsabile dell’ufficio elettorale nel predisporre le liste elettorali ha applicato correttamente la normativa vigente ma, nel dibattito pubblico che ne è seguito, non si è precisato che fra i 38.000 cittadini aventi diritto al voto c'erano ben 8.000 residenti all’estero. Al netto di questo considerevole numero di improbabili elettori, nella città di Corigliano l’affluenza non sarebbe stata del 32,89% ma del 41,69%. (1)

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Che le implicazioni politiche del peso attribuito al voto dei residenti all’estero abbia un certo rilievo è dimostrato dal fatto che la Regione Friuli-Venezia-Giulia, con L. 11 dicembre 2003 n. 21 (attualmente modificata), ha stabilito che per determinare il quorum dei votanti "non sono computati fra gli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune quelli iscritti all'anagrafe degli elettori residenti all'estero". Di tale norma, con sentenza n. 173/2005, la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità. (2)
La motivazione della sentenza trova fondamento sia nel fatto che la successiva esclusione dal computo non intacca il principio costituzionale del diritto/dovere del voto, sia nell'ampia autonomia legislativa riconosciuta alle regioni a statuto speciale. Ma se un principio elettorale adottato da una regione a statuto speciale ottiene il riconoscimento di legittimità costituzionale, non si vede perché questo stesso principio non possa essere riconosciuto anche alle Regioni a statuto ordinario.

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Quanto stabilito dalla Corte costituzionale per la Regione Friuli riguarda tutti i residenti all’estero, ma per quelli che risiedono in un altro Stato facente parte dell’U.E. c’è da aggiungere qualcosa.
La Direttiva 94/80/CE del Consiglio dell’Unione europea del 19 dicembre 1994 all’art. 1 “stabilisce le modalità secondo cui i cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza possono esercitarvi il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali.”
Dunque il napoletano che trasferisce la residenza a Milano vota solo a Milano, mentre il napoletano che trasferisce la residenza Marsiglia vota per il sindaco di Napoli e per quello di Marsiglia.
Una stranezza alla quale, mi sembra, si dovrebbe porre rimedio.


NOTE

(1) E' bene precisare che la corretta valutazione politica dell'affluenza nelle elezioni amministrative riguarda tutte le città e regioni d'Italia, e in particolare quelle con più alto tasso di emigrazione.
Anche l’affluenza alle recenti Regionali della Sicilia va dunque vista sotto questa luce. Considerando il corpo elettorale al netto dei 744.035 residenti all’estero, i 2.085.075 voti espressi non costituiscono il 46,76%, ma il 53,23%.
I dati dei residenti all'estero  per ogni regione, risultanti dalla foto in alto, sono tratti dal sito internazionale.it
In un calcolo sommario gli iscritti all'AIRE in tutta l'Italia dovrebbero essere circa 5 milioni, ovviamente con diversa incidenza fra le varie regioni e i vari comuni. 


(2) Per la sentenza della Corte Costituzionale vedere:
http://www.giurcost.org/decisioni/2005/0173s-05.html

e il commento di Enrico Grosso dal significativo titolo “Italiani all'estero ed elezioni comunali. La retorica dell'uguaglianza e la ragionevole differenziazione" 
http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/old_pdf/556.pdf


martedì 31 ottobre 2017

Breve storia semiseria della questione meridionale

Sistema aeroportuale italiano nel 2017
Rete autostradale nel 2017 (in blu le superstrade)
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Rete ferroviaria nel 2017 (in rosso l'alta velocità)


Nel 1861 i Piemontesi con le truppe regolari (per allargare il loro Regno) e alcuni volontari Lombardi (per sottrarsi alla tassazione degli Austriaci) conquistano il Sud.

Nel 1866 Lombardi e Veneti si liberano dal giogo austriaco e si uniscono col Plebiscito di Venezia (85% di partecipazione e 99,99% di Si) a quelli che parlavano e scrivevano nella loro stessa lingua, anche se nel parlare usavano più di frequente dialetti diversi.

In quel periodo gli ingenti depositi bancari del Sud vengono impiegati per sanare gli ingenti debiti, contratti dal Regno di Piemonte e passati al Regno d’Italia, e per finanziare le nascenti attività industriali del Nord.

Al Sud resta l’artigianato, mentre a partire dal primo Novecento a Torino si fabbricano le prime auto Fiat e a Recoaro i primi abiti della Marzotto.

Le strade e le ferrovie sono difficili da percorrere, per cui i prodotti artigianali del Sud restano prevalentemente nel Sud, mentre le auto e gli abiti confezionati nel Nord restano prevalentemente nel Nord.

Dal 1861 al 1961 si spostano solo le persone e a senso unico, da Sud verso Nord: i soldati, per liberare Trento e Trieste nel 1915 e per dare una mano ai Tedeschi nel 1940.

A partire dal 1961 si inizia a lavorare all’autostrada Milano-Salerno e poi a quella che congiunge Salerno con Reggio Calabria e Palermo. Grossi TIR cominciano a trasportare le merci.

Al Sud arrivano dal Nord le automobili e spariscono cavalli e carretti, arrivano gli abiti confezionati e spariscono i sarti, arrivano le scarpe di Vigevano e spariscono i ciabattini, arrivano i mobili in serie da Como e Pesaro e spariscono i falegnami, arrivano le ringhiere tutte uguali dei balconi e spariscono i fabbri, arrivano i gioielli di Valenza Po e spariscono gli orafi.

Le uniche cose che al Sud non spariscono sono i prodotti agricoli, ma ben presto a quelli coltivati in loco si aggiungeranno le mele trentine e le zucche padane. Non spariscono neppure gli animali da allevamento, ma a quelli allevati in loco si aggiungeranno i polli allevati a decine di migliaia in strette gabbie e… le loro uova.

Ma se i prodotti di un luogo vengono soppiantati dai prodotti di un altro luogo, non c’è più lavoro e denaro per comprare. Bisogna pur esportare qualcosa. Il Sud di nuovo esporta uomini.

E’, questa, una cosa molto utile per l’economia nazionale. Infatti la bilancia commerciale dell’Italia con il resto d’Europa è in passivo, ma, con le rimesse degli emigrati dall’estero, la bilancia dei pagamenti diventa attiva.

A partire dal 1990 tutto ciò non viene più apprezzato dalle genti del Nord. Sono ormai diventati ricchi, pieni di autostrade, strade, ferrovie e ospedali. E le loro imprese devono contribuire a ‘sostenere’ il Sud ormai impoverito.

Si comincia a parlare di Secessione, ma con la moneta unica europea il progetto diventa complicato. Per questo i secessionisti abbandonano il loro capo storico, truculento e volgare, e lo sostituiscono con un altro… dal volto umano. Se non ce la facciamo con le cattive – dicono, invertendo i termini della strategia più consolidata - ce la faremo con le buone: restiamo tutti uniti, con un unico esercito (ché la carne da macello può sempre venire comoda), ma ognuno si tiene i propri soldi, perché al Sud li spendono male.

Anno 2000. Arrivano i Cinesi, che vendono a 5 euro ciò che gli Italiani del Nord producono al costo di 20 euro.

E anche le imprese del Nord cominciano a chiudere.




Nota: Per approfondimenti più seri rinvio alle opere di Antonio Gramsci e Pasquale Saraceno.







venerdì 29 settembre 2017

Corigliano-Rossano. Fusione, conurbazione e rilancio della Sibaritide.


Riprendo il discorso del mio articolo del 26 maggio 2016 sulla proposta di fusione dei due Comuni limitrofi di Rossano e Corigliano Calabro,(1) per analizzare il problema da una diversa angolazione, cioè quella dei rapporti demografici fra questi due comuni e il capoluogo di provincia (Cosenza), e poi per qualche considerazione a margine sulle sedi delle circoscrizioni giudiziarie. Per facilitare i raffronti utilizzerò dei grafici da me pazientemente rielaborati, ai quali spero non troppi lettori saranno allergici. Ecco il primo di essi, relativo all’andamento di Corigliano e Rossano dal 1861 al 2016 in base ai dati dei Censimenti effettuati.(2)

Fig. 1
Dal 1861 al 1891 Rossano (linea blu) ha una leggera prevalenza sulla vicina Corigliano (linea rossa); in media 16.000 abitanti contro 11.000, la qual cosa spiega perché nel 1861 l’amministrazione dello Stato abbia assegnato il Tribunale a Rossano. Dal 1901 al 1961 le due città crescono con lo stesso ritmo, arrivando ciascuna a circa 24.000 abitanti, ma dal ‘61 è Corigliano ad avere un leggero vantaggio; nel 2016 gli abitanti sono 40.426 contro 36.724.
Dal 1961 a oggi, nonostante la forte emigrazione, entrambe le città hanno comunque una crescita lenta ma continua passando, insieme, da 33.600 ab. a 77.150 (+130%). (linea grigia)

Un percorso molto diverso avranno le città di Cosenza e Rende. Vediamolo nella fig. 2.

Fig. 2
La crescita demografica di Cosenza (linea blu) ha un andamento sostenuto fra il 1891 e il 1941 (da 19.000 a 40.000 ab.) ed ha una impennata fra il 1941 e il 1981, passando da 40.000 a 107.000 abitanti.
Dal 1981 a oggi scende però da 107.000 a 67.000, con un calo vertiginoso di 40.000 abitanti, compensato dalla crescita dei comuni limitrofi di Rende (+ 22.000) (linea rossa), Castrolibero (+ 7.500 ab.) e Mendicino (+ 5.300). Crescite più contenute si sono verificate in altri comuni: Casali del Manco (+ 2.000)(3) , Marano Principato (+ 2.000), Marano Marchesato (+ 1.500), Dipignano (+ 1.300), Castiglione Cosentino (+ 1.100), Rovito (+ 1.000) e Zumpano (+ 1.000). Altri centri viciniori non hanno avuto variazioni significative o hanno subito un decremento.
Raffrontando l’andamento dei due grafici, possiamo dedurre che, fra il 1971 e il 2011, mentre nella Sibaritide si è verificato un flusso dai centri piccoli verso i nuclei urbani più consistenti, nell’Alta Valle del Crati si è verificato un flusso opposto (quasi una fuga) da Cosenza verso Rende e i centri minori.

Veniamo ora a un terzo grafico in cui riassumiamo insieme le linee di tendenza di Cosenza+Rende e di Corigliano+Rossano. Aggiungiamo anche quella di Castrovillari, ma solo per valutare il problema specifico del Tribunale.


Qui è ben evidenziato come fino al 1901 la popolazione complessiva di Rossano e Corigliano (linea rossa)fosse superiore a quella di Cosenza più Rende (linea blu). Nel 1981 queste ultime (132.082) diventeranno invece quasi il doppio di Corigliano e Rossano (68.259), ma poi fra l'81 e il 2016 la distanza si ridurrà a un poco significativo 20%.
In alcune indagini si sostiene che il travaso demografico da Cosenza verso i nuclei urbani minori sia da intendere come il sorgere di una vasta area urbana più funzionale rispetto all’assetto preesistente. Ciò è vero se si considerano i nuclei urbani ben collegati all’asse CS-Rende, ma è meno accettabile, ad esempio per quelli come Dipignano o Spezzano Piccolo o altri, per i quali occorrono 30 minuti di viaggio in auto. Lo stesso tempo si impiega da Cariati a Rossano e da Cassano a Corigliano, ma nessuno per ora si sognerebbe di parlare in questo caso di un’area urbana tanto vasta; io, nel mio articolo prima richiamato, ho parlato di 'area urbana' solo a proposito di Rossano e Corigliano, i cui uffici e servizi comuni – collocati al centro del territorio - sarebbero raggiungibili in soli 5 minuti.

L’andamento demografico di Castrovillari è stato inserito nel grafico (linea grigia) solo per dare un’idea dell'insipienza e la malafede con cui è stato deciso l’accorpamento del Tribunale di Rossano a quello di Castrovillari, e il grafico si commenta da sé: in 150 anni Castrovillari passa da 8.000 a 22.000 abitanti, cioè tanti quanti Rossano o Corigliano, singolarmente, ne contavano nel lontano 1951.
La marginalità geografica e demografica di Castrovillari (Area D) rispetto alla relativa circoscrizione giudiziaria è ben evidenziata dalla fig. 4, nella quale il colore verde (Area E) indica chiaramente le due aree più urbanizzate della Provincia di Cosenza.
Per una migliore lettura dei grafici e dell'ultima immagine, si consiglia di cliccarvi sopra.

Fig. 4 (Circoscrizioni giudiziarie della Provincia di CS e ripartizione dei Comuni per fasce demografiche)

Note

1. http://ilsemedellutopia.blogspot.it/2016/05/rossano-corigliano-dal-campanilismo.html

2. Qui, come nei due grafici che seguono, i dati relativi al 1891 (anno in cui non venne effettuato il censimento) sono stati ricavati per interpolazione fra il decennio precedente e quello successivo. 
I dati del 1941 sono in realtà quelli rilevati nel 1936. Chissà, forse il Duce sapeva già che nel ’41 sarebbe stato difficile!

3. Il 26 marzo 2017 i cittadini di Pedace, Casole Bruzio, Serra Pedace, Trenta e Spezzano Piccolo hanno deciso con un referendum la fusione dei precedenti comuni nel nuovo comune di Casali del Manco.

sabato 5 agosto 2017

Lo spazio (Racconti brevi)




Per giudicare se un appartamento è piccolo o grande, occorre valutare diversi elementi. In primo luogo il rapporto fra il volume dell’appartamento e la somma del volume corporeo delle persone che vi abitano, e questo è intuitivo.
Più sfuggente è invece la frequenza degli spostamenti delle persone e la loro velocità: se tutti vanno in continuazione avanti e indietro a passi veloci, l’ambiente certamente darà l’impressione di rimpicciolirsi; il contrario succede, invece, se è abitudine comune quella di stare fermi o muoversi di rado e a passi lenti.
Ancora più difficile da percepire è il terzo elemento: la concentrazione dei sentimenti. In presenza di forte amore o di forte odio, l’aria diventa pesante, come se scarseggiasse l’ossigeno, e allora la natura tende a proteggere gli abitanti spingendoli a cercare ossigeno altrove; se invece i sentimenti tendono verso lo zero, il respiro degli abitanti è meno intenso, l’aria diventa più rarefatta e anche un appartamentino di pochi metri quadri può sembrare un grande deserto.

C.M. 2001

venerdì 30 giugno 2017

Diego Fusaro: Bentornato Marx! Arrivederci Marx!

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Ho letto per la prima volta il nome di Diego Fusaro nel 2010, quando nelle mie ricerche sul web mi sono imbattuto nel suo sito ‘Filosofico.net’. Un sito certamente ricco e ben fatto, ma non fu questo il motivo della mia ammirazione. Mi stupii del fatto che tale ricchezza e buona fattura fossero il frutto di un ventisettenne.
Due anni dopo cominciai a trovare i suoi primi articoli e le prime ‘conversazioni’ su youtube, in cui dalla filosofia pura si lanciava in promettenti incursioni nella politica. Fu per questo che, non appena vidi sul suo sito la pubblicità del libro “Bentornato Marx”, corsi in libreria e lo comprai. Cosa c’era di meglio per un vecchio comunista, in un periodo in cui il marxismo era dato per morto?
Iniziai a leggere voracemente, ma ben presto capii che quello non era un libro destinato a resuscitare Marx fra gli intellettuali di provincia, ma prevalentemente fra i cattedratici, forse per il consolidamento o il miglioramento della propria carriera. Su 327 pagine ne lessi a fatica poco più di metà e poi… lo accomodai nello scaffale dei filosofi, dove riposa da ormai cinque anni.
Non faccio lo schizzinoso, no. E’ lo stesso trattamento che riservai alla mia tesi di laurea. Mentre la elaboravo nel 1970, a ventidue anni, mi sembrava ben fatta, ma a rileggerla dopo una decina di anni sentivo puzza di… linguaggio accademico. Vi erano quelle tipiche contorsioni verbali che nessuno - tranne gli accademici di professione, spesso mercenari della cultura - avrebbe mai digerito. Dunque nessuna discriminazione: fatte le dovute differenze di peso e qualità, negli scaffali il mio modesto lavoro e negli scaffali il ponderoso “Bentornato Marx”. Anche perché, a quel saluto, mi sa che Marx non si è neppure sognato di rispondere. Mi auguro certamente che sia tornato o che torni, ma non credo che lo farà per via dell’invito di Fusaro.

Dopo quella lettura mi imbattei nel secondo libro di Fusaro: “Minima mercatalia”. Prima ascoltai un video di quarantacinque minuti, in cui l’autore, in compagnia del suo maestro Costanzo Preve, ne illustra le tesi di fondo, e poi cercai il libro.
Il discorso centrale era pienamente condivisibile. Il capitalismo attraversa tre fasi: nella prima elabora una teoria filosofica che lo ‘naturalizzi’ (fase astratta), poi viene lo scontro con la ‘coscienza’ del proletariato (fase dialettica) e infine abbatte qualunque utopia che possa contrastarlo anche sul piano teorico (fase speculativa). Io ho qui semplificato in modo indecente ciò che Fusaro approfondisce molto dal punto di vista filosofico, pur pagando lo scotto di ripetersi troppo.
Cosa vai a dire a chi, nel 2012, sostiene che ormai la filosofia capitalistica ha stravinto e non ha più avversari né interlocutori? Si potrebbe dire che, in fondo, la denuncia di Marcuse sulla uni-dimensionalità dell’uomo, e quindi del suo pensare, in qualche modo anticipava di mezzo secolo le tesi di Fusaro. Si potrebbe dire che forse era il caso di citare il più ben noto autore, evidenziando il diverso approccio. Si potrebbe anche dire che, filosofia a parte, col crollo dell’Urss e la globalizzazione dell’economia, non c’era più un politico, e pur anche uomo della strada, che non si fosse accorto che ormai il capitalismo aveva, non vinto, ma trionfato sul sistema sovietico, oltrecortina, e sulla lotta di classe, in Occidente. Ma a che pro? Se il rinnovato vigore ed entusiasmo di Fusaro potevano essere di una qualche utilità nel riaprire discorsi che sembravano definitivamente chiusi, Benvenuto Fusaro!

Il problema è che, nel fare la sua dotta analisi filosofica, il prof. Fusaro comincia a maneggiare incautamente le fasi storiche. Ad esempio – e questo gliel’ho rimproverato apertamente sul mio blog nel 2012 – fissa il trapasso dalla fase dialettica a quella speculativa in un punto preciso, che a mio vedere ha invece scarso rilievo: i movimenti studenteschi del ’68. A proposito dei sessantottini egli dice che volevano tutto senza dare nulla, e che hanno intaccato i valori borghesi, i quali ponevano invece un limite ideale alla concezione capitalistica dell’espansione illimitata della produzione e dei consumi.
Già un po’ strano che un evocatore di Marx diventi un difensore dei valori borghesi. Ci può stare, non ci può stare? Consegno il giudizio a qualcuno più dotto di me. Su questo rinvio la discussione, anche perché su questi temi oggi Fusaro calca ancor più la mano e, come un’auto in corsa, sta passando pericolosamente dalla corsia di sinistra a quella di destra, senza mettere la freccia.
Fermiamoci invece su quello che per lui è il momento preciso in cui l’impianto teorico del capitalismo, prima economico e poi finanziario, fa strame delle utopie e delle classi proletarie.
Per me – questo io lo scrissi e lui lo lesse nel 2012 (lo so per via di uno scambio di messaggi su fb, anche se poi, probabilmente piccato, dopo la lettura non si degnò di risposta alcuna) – il capitalismo non vinse il 1968 ma un decennio dopo.

Fra il ’68 e il ’78 il movimento operaio, non solo non si arrestò, ma ebbe una crescita notevole. Gli autunni caldi degli scioperi nelle grandi fabbriche misero molta paura agli imprenditori. La lotta politica si fece così serrata che nel ’71 le forze politiche che rappresentavano la borghesia dovettero concedere lo Statuto dei Lavoratori. Fra il 1970 e il 1978 le Brigate Rosse in Italia - costola del ’68! - e strutture simili in Germania, raccoglievano innegabili simpatie nel proletariato e nel ceto impiegatizio, teorizzavano la fine del capitalismo e colpivano con cellule ben organizzate i rappresentanti economici e culturali della borghesia; solo dopo il sequestro di Aldo Moro fu possibile neutralizzarle, ma non senza l’appoggio della Cgil, il sindacato legato al Pci! Nel ’75, per la prima volta, il Partito Comunista Italiano prende più voti della DC.
Dal ’68 al ’78 la classe operaia migliorò notevolmente le condizioni di lavoro e, insieme agli intellettuali di sinistra, furono a un passo dalla presa del potere. Eppure Fusaro dice che il ’68 segnò la fine delle utopie. Ah che brutta cosa, quando dalla Filosofia della storia si passa alla date, ai fatti, alla Storia!

La verità è tutt’altra cosa, il liberismo selvaggio cominciò a trionfare a livello nazionale e internazionale dieci anni dopo il ’68, e schematizzerei gli eventi cruciali in questo modo:
1) Vittoria di Margaret Thatcher in Gran Bretagna (maggio 1979);
2) Marcia dei 40.000 a Torino (ottobre 1980);
3) Vittoria di Ronald Reagan negli Stati Uniti (gennaio 1981);
4) Crollo dell'Unione Sovietica (1990-1991).

Ma veniamo a oggi. Parto per questo da un trafiletto che L’Espresso del 5 giugno 2017 dedica al prof. Fusaro. (Gli riservo questo titolo anziché quello di filosofo, perché non saprei proprio come collocarlo nel quadro dell’evoluzione delle teorie filosofiche. Dice – come il già richiamato Marcuse - di essere hegeliano e marxiano, ma cosa aggiunge, di suo, ai due grandi filosofi?).

Ed ecco il breve articolo de ‘L’espresso’:

“Oltre agli psichiatri, ai sociologi, agli storici che affollano abitualmente i dibattiti dei nostri politici, in tv sta comparendo spesso un personaggio colto e singolare: è un filosofo marxiano, Diego Fusaro.
Fusaro è un bel giovanotto sui trent’anni, torinese, dagli occhi azzurri e dal ciuffo bruno. Non sorride mai; di solito, quando parla, sogguarda i presenti in studio con aria sufficiente e, dal tono monocorde della voce, sembra voler dare lezioni a tutti.
Ripudia l’euro e considera euroservi o euroinomani coloro che lo difendono. Avverte che l’emigrazione è una deportazione di massa che giova ai signori della mondializzazione capitalistica. Aborre l’aristocrazia bancaria e la talassocrazia del dollaro. Rampogna la tv per il suo effetto anestetizzante sulle coscienze. Deplora l’insinuarsi crescente di vocaboli inglesi nel lessico italiano. Diversi politici, durante i suoi dotti sermoni, approvano. Altri si urtano, qualcuno ridacchia.
Lui, lì per lì, piccato, reagisce con battute sferzanti. Poi, imperturbabile, riprende a esecrare tutto, o quasi tutto.”

Non entriamo nel merito dei tratti caratteriali cui si accenna all’inizio e alla fine del trafiletto: non sorride mai; sogguarda; voce monocorde, forse un po’ adolescenziale; viso imperturbabile. Noblesse oblige per quanto attiene alle buone maniere; il filosofo è invece votato all’imperturbabilità, se no che filosofo è?
Ma andiamo alla polpa, e cominciamo con l’euro.
Che questa moneta abbia ridotto del 30-40% il potere di acquisto degli Italiani, è cosa ben nota: ciò che un lavoratore dipendente acquistava con due milioni di lire superava di molto ciò che oggi acquista con 1.000 euro. Ciò che agli avversari dell’euro sfugge è però il fatto che, in questi quindici anni, tutti coloro che sono andati in pensione hanno messo in banca il tfr, a cui alla bisogna attingono per mantenere se stessi e, spesso, figli e nipoti. Se si esce dall’euro, quanto varrà il tfr depositato in banca al momento del pensionamento? E quante sono attualmente le persone interessate a ciò? L’Istat dice: oltre 16 milioni. Il prof. Fusaro avrà di sicuro un adeguamento del suo stipendio e venderà i libri a un prezzo più alto, ma cosa dirà a questi 16 milioni di pensionati?

Sull’aristocrazia bancaria, non ci piove: non fanno profitti ma rendite parassitarie. Però non mi si venga a dire che gli imprenditori sono danneggiati dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia nella stessa misura dei lavoratori dipendenti. E’ questa una strada pericolosa, che annulla la lotta di classe. Questa comunanza di interessi fra impresa e lavoro – ricordo e sottolineo - trovò una forte simbolizzazione nel ‘fascio’. E dei chiari segni di avvicinamento ideale col fascio e la svastica li ritrovo anche nell’uso improvvido dei termini ‘apolidi’ e ‘aristocrazia bancaria’. Quest’ultima chiaramente esiste, ma il termine a me richiama alla memoria anche gli attacchi del Duce alla ‘plutocrazia’. L’avversione all’uso di termini provenienti da altre lingue poi, ricucita con quanto finora detto, conduce direttamente a una ideologia nazionalistica.

Nella sostanza, possiamo anche essere abbastanza d’accordo con alcune tesi contenute nei libri, gli articoli, i post e i video del prof. Fusaro; per esempio, quando inserisce la delocalizzazione e l’emigrazione nel quadro concettuale marxiano dell’ “esercito industriale di riserva”, sul quale forse prima di lui mi ero già espresso. Le strade divergono quando tante verità si trasformano in sistema, e in questo sistema si avverte il richiamo a quella politica che portò ai conflitti del Novecento. Questo pericolo si fa ancora più concreto quando, pur partendo da un impianto filosofico marxiano, si finisce per raccogliere il plauso della Lega Nord, dei ‘Fratelli d’Italia’ e di CasaPound.

* Nota del 30 giugno 2017

Questo articolo, anche se pubblicato oggi, è stato scritto circa quindici giorni fa e poi lasciato nel cassetto a… marinare. E’ una cosa che faccio spesso, quando l’intervento mi sembra più impegnativo.
Nel frattempo ho avuto modo di leggere i primi due capitoli del suo più recente lavoro “Pensare altrimenti. Filosofia del dissenso”. Immagino che anche nei capitoli successivi siano trattate tutte le tesi di cui negli ultimi mesi Fusaro parla ampiamente sui media. Ma devo dire che qui il linguaggio mi sembra più scorrevole e meno ripetitivo; sotto l’aspetto della comunicazione vedo dei bei progressi.
Auspico che d’ora in avanti eviti però di usare termini come ‘deterritorializzazione’ che, se non faccio fatica a comprendere, faccio fatica a pronunciare, anche se non sono fortemente dislessico. Beninteso, la parola esiste, l’hanno usata persone di un certo calibro, come Gilles Deleuze, e si trova normalmente nei dizionari aggiornati. Ma Deleuze - che Fusaro fra l'altro nel 2012 bolla severamente quale 'pensatore antiborghese e ultracapitalistico' - la usa nei testi destinati agli accademici, mentre credo che, per un filosofo che ‘entra nel campo della politica’ attraverso i giornali, in tv e sui socialnetwork, vada meglio l’espressione ‘privazione di radicamento territoriale’ o ‘sradicamento territoriale’ o altro ancora. Molto meglio! A tradurre si fa un po’ di fatica, ma è più facile essere compresi e seguiti con piacere.
Auspico anche un’altra cosa. Che Fusaro su facebook posti di meno e risponda almeno a quei commenti che, a suo insindacabile giudizio, ritiene degni di risposta. Possibile che non ce ne siano? Temo che il ‘filosofo del dissenso’ mal tolleri chi, sia pur di poco, dissente da lui.
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venerdì 21 aprile 2017

L’intrigo (Racconto-denuncia della logica clientelare)

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"Aveva circa cinquant’anni e, come molte delle colleghe dell’ufficio in cui lavorava, aveva una cura quasi maniacale della sua persona. Il suo abbigliamento era quasi sempre impeccabile per via di una scelta accurata della qualità delle stoffe e di una costante attenzione per l’abbinamento dei colori, che preferiva in genere vivaci, per meglio spendere il suo buon gusto. Capitava anche a lei ogni tanto di esagerare e di cadere nel kitsch, ma ciò, bisogna dirlo, accadeva raramente.
Oltre che dell’abbigliamento essa aveva molta cura di tutte le altre componenti del suo look: acconciature sempre gradevoli nei colori e nella forma ed un’accentuata sottolineatura delle labbra e degli occhi, operata però con grande maestria; solo il massiccio uso di fard e creme denunciava una preoccupazione un po’ eccessiva per gli effetti degli anni sul viso e sul collo, effetti che con tali ritocchi venivano però mascherati alla perfezione. Con un’operazione mentale tesa a privare la signora Letizia di tutti gli accorgimenti presi per crearsi il suo fascinoso look, si sarebbe potuto anche immaginare che sotto tutto questo potesse albergare la sagoma di un cammello, ma, ad una osservazione breve, superficiale, acritica e possibilmente non troppo ravvicinata, non si sarebbe potuto provare che un sentimento di ammirazione, se non addirittura una certa attrazione, sentimento che attecchiva stranamente soprattutto fra le sue colleghe.
Ad impreziosire il tutto intervenivano infine un portamento deciso e naturale, che diventava goffo solo in particolari circostanze di nervosismo, ed una affabilità, che avrebbe potuto indispettire le migliori attrici del cinema hollywoodiano.
Tutte queste qualità, che ben si accordavano con la sua personalità decisa ed ambiziosa, aiutavano non poco la signora, non solo a risolvere i problemi che le si ponevano di volta in volta, ma anche ad osare in progetti sociali e professionali arditi e di lungo respiro.

Uno di tali progetti nacque nella sua mente allorché nel suo ufficio si rese libero un posto di alta responsabilità. Poiché l’incarico per il prestigioso ruolo rientrava nella sfera delle competenze del dirigente, programmò una serie di contatti con tutti coloro che avevano su di lui una certa influenza, al fine di far emergere le sue particolari attitudini a gestire le pubbliche relazioni e saper in tal modo assicurargli un elevato grado di collaborazione da parte dei dipendenti. In tutti questi contatti dimostrò notevoli capacità di adeguare il suo comportamento alle persone che avrebbero dovuto aiutarla, puntando per alcuni su particolari aspirazioni e per altri invece sulle loro debolezze e sui loro timori.
Alla signora Beatrice, ad esempio, fece capire che, qualora fosse stata aiutata ad ottenere l’incarico, avrebbe fatto il possibile per trasferirla in una stanza che si trovava al piano terra, dalla quale, durante le ore di lavoro, non avrebbe avuto eccessive difficoltà a sgattaiolare e assentarsi per andare a casa di tanto in tanto e dare un’occhiata ai bambini. Alla collega Carla, molto sensibile al fascino del denaro, promise l’assegnazione di lavoro straordinario ben pagato. Alla collega Lucia, sempre timorosa, data la sua speciale tendenza alla distrazione, di commettere errori nella tenuta dei registri contabili, assicurò una piena collaborazione nella revisione degli stessi ed ogni forma di copertura di responsabilità in caso di irregolarità. Al signor Giovanni, un uomo molto attratto dalle lusinghe del gentil sesso, riservò sorrisi venati di strana complicità, mentre al signor Battista, particolarmente pigro, prospettò la possibilità di mansioni di tutto “riposo”.
Quando giunse il momento di fare la scelta, il dirigente si consultò con tutte le signore ed i signori prima menzionati e, dopo un’attenta valutazione delle informazioni e dei giudizi forniti, non ebbe alcun dubbio: per il posto vacante la persona ideale era lei."
c.m.

* * *

Quando dieci anni fa pubblicai questo breve racconto-denuncia sul sito www.descrivendo.com , una lettrice lo bollò con la citazione di Ecclesiaste 1,9: "Niente di nuovo sotto il sole!"
E certo non aveva tutti i torti, perché in fondo i rapporti personali, in tutti i luoghi e in tutti i tempi, sono stati alla base della cooptazione nelle cerchie del potere, e con questa considerazione la mia denuncia cadeva pesantemente nel vuoto. Se questa era la realtà, non ‘qui ed ora’ ma ‘sempre e ovunque’, che senso aveva denunciarla? Cercherò allora di spiegare la mia acrimoniosa e al contempo catartica reazione letteraria, aggiungendo i ‘fatti’ che, così come io li ho interpretati, ne sono stati all’origine.

Quando scrissi il racconto, nell'ambiente di lavoro c’era un conflitto insanabile fra un folto gruppo di colleghe che parteggiavano sempre e comunque per il dirigente, e poi un gruppo più sparuto di colleghi – circa il 25% - che era contrariato dalle discriminazioni fatte in base a una logica puramente clientelare. Questa situazione, pur se carica di discordie e veleni, non avrebbe fatto scattare in me una reazione così forte verso il primo gruppo se non si fosse verificato un fatto estremamente grave.

Poiché qualche anno prima una delle colleghe aveva osato presentarsi a un importante concorso interno, contrapponendosi alla… signora Letizia, quest’ultima, una volta ottenuto il posto di comando, diede una direttiva a tutti i suoi sostenitori: emarginare quella che era stata la sua concorrente. Ebbi la certezza di ciò quando molte amiche di Letizia mi avvicinarono in modo circospetto per invitarmi a stare lontano dalla… malcapitata.
“Ma questo è mobbing!”, pensai, e il mio pensiero divenne certezza quando un giorno, dopo un aspro litigio, sentii la signora Letizia urlare ripetutamente all’altra “Tu non sei nessuno!”, l’espressione estrema usata in genere dal mobbizzatore nel tentativo di spersonalizzare il mobbizzato, ridurne l’autostima e condannarlo all’impotenza sociale.

Per alcuni anni seguii la vicenda, chiedendomi in quale modo questa signora Letizia – pur non avendo i presupposti culturali normalmente esatti - fosse riuscita a conquistare il ruolo di leader indiscussa. Feci un elenco di tutti i colleghi che regolarmente le garantivano il loro appoggio incondizionato e di tutti quelli che avevano un atteggiamento critico. Poi, nel primo gruppo, identificai 1) le persone che ne ottenevano dei vantaggi economici; 2) quelle che ne traevano una qualche autorità, 3) quelle che godevano di copertura per le loro manchevolezze (assenze, scarso rendimento lavorativo, ecc.).

Sapevo che denunciare formalmente questo sistema di potere era inutile quanto il denunciare un capomafia in un territorio mafioso. Tace chi nell’appoggiarlo ne ricava un beneficio, e tace anche chi del testimoniare ha paura: messi insieme, fanno o no la schiacciante maggioranza della popolazione? Mi limitai pertanto a denunciare le singole irregolarità formali: il sistema, in quanto tale, era ormai inattaccabile!
Ma l’animo soffre nell’assistere alle ingiustizie senza la possibilità di contrastarle. Ed ecco allora che qualcuno scrive una storiella, una storiella che non farà succedere “niente di nuovo sotto il sole”, ma che può essere… unguento per le ferite.

* * *
In questo blog, per motivi lunghi da spiegare, non sono previsti commenti, ma solo la possibilità di interloquire attraverso la mia e-mail. Questa volta però, dato il carattere eccezionale di una postfazione a un racconto, ho chiesto un parere alla mia carissima amica Marisa Bonsanti (https://merylho43.wordpress.com/2016/12/20/ribelli-si-nasce-ma-rivoluzionari-si-diventa/), la quale mi ha confortato con queste parole:
“E' racconto-denuncia. I racconti e le favole sono da secoli l'unico modo per dire scabrose verità. […] Proprio perché nulla è cambiato nei rapporti tra gli arrampicatori, l'argomento è sempre attuale.”.
E allora, via alla messa online!

domenica 9 aprile 2017

La massoneria in cifre - Rapporto Eurispes 1992



Ripropongo un articolo sulla massoneria, qui pubblicato nel 2010. 
Segue il testo del Rapporto dell'Eurispes del '92.

* * *

<< Il fatto che la massoneria in via ordinaria coopti nel suo seno le categorie sociali più privilegiate sotto il profilo della professione e del reddito, fa di essa una organizzazione settaria e antidemocratica. Ciò rende poco coerente l'affiliazione ad essa da parte di intellettuali che nel contempo svolgono attività politica nei partiti che rappresentano tutte le categorie sociali.
Mi viene piuttosto difficile pensare che la stessa persona che un certo giorno partecipa all’assemblea di un partito politico, dove si dibattono i problemi della città e dello Stato, possa il giorno seguente chiudersi segretamente in un locale insieme ad altre persone, indossando strani abiti e paramenti, per fare qualcosa che rassomiglia fortemente alla celebrazione di riti medioevali di dubbio gusto.


Non ho avuto notizia di queste associazioni fino al clamoroso caso della Loggia P2 e - ritenendo poi, erroneamente, che la condanna della struttura e degli scopi di quest'ultima costituisse ormai un solido baluardo contro la sua ingerenza negli affari pubblici - non ho più dedicato attenzione al fenomeno. Ne sentii riparlare dopo circa dieci anni, quando qualche giornale svelò che persone che occupavano alte cariche istituzionali dello Stato erano iscritte a quella particolare associazione segreta e che alcuni personaggi noti a livello nazionale erano vicini alla massoneria regolare. All'inizio fui incredulo, ma le voci erano diffuse e concordi e, secondo qualcuno, la cosa trovava parziale conferma negli elenchi di cui era venuto in possesso il procuratore Agostino Cordova, che - come il Capitano Bellodi nel libro di Sciascia "Il giorno della civetta" - per l'eccessivo zelo fu presto trasferito dalla sua sede in modo che non potesse più nuocere.

Conscio della mia ignoranza sul fenomeno, durante le vacanze chiesi al mio amico Antonio R., uomo in cui la saggezza fa a gara con l'intelligenza, cosa ne pensasse. La risposta fu lapidaria, e mi fece capire perché, per tanti secoli, la religione cristiana si fosse opposta alla massoneria.
“Vede quella signora che ora sta attraversando la strada? Quella, è mia sorella. – disse - E vede quell'uomo che sta entrando in quel negozio? Quello, è mio fratello. Io, i miei fratelli, non li cerco fra le persone iscritte in un elenco”. E, trasformando il suo consueto sorriso aperto in una smorfia quasi di disgusto, sillabò la parola “e-len-co”.


Qualche anno fa, indagando sul web, fra i tanti articoli in cui si enunciano i bei principi illuministici e patriottici a cui le logge dichiarano di ispirarsi, trovai una breve indagine, fatta nel '92 dall’Eurispes nell'ambito dell'annuale Rapporto Italia, dal titolo "Capitolo II, Legalità/Illegalità, Scheda 19, La massoneria in cifre". Lo studio veniva pubblicato oltre che dall'Eurispes dallo stesso sito del Grande Oriente, ma di esso oggi rimane traccia solo in un post del 26/04/2005 nel libero forum di www.exibart.com alla pagina
e dovrebbe comunque essere reperibile, previa iscrizione, sul sito dell'Eurispes.


La scheda citata offre dei dati numerici interessanti, tratti dall'inchiesta del procuratore Cordova (numero delle logge, incidenza degli iscritti su 100.000 abitanti, distribuzione geografica e professione), ma a questi premette interessanti considerazioni sulla natura e gli scopi della massoneria in generale e di quella "deviata" in particolare (Cordova nel corso di un'indagine parlamentare dichiarò, fra l'altro, che non è sempre facile distinguere fra massoneria deviata e logge regolari).

Ecco quanto affermato dagli studiosi dell'Eurispes circa la massoneria in generale:

- "Solitamente coloro che si iscrivono alla massoneria sono professionisti affermati o persone che comunque godono di status socioeconomico alto e medio-alto".
-"Cordova lamenta la parzialità degli elenchi sequestrati in quanto (...) numerosi libero muratori sarebbero stati affiliati all'orecchio del maestro; in altri termini, la loro appartenenza alla massoneria non risulterebbe da alcun documento".
- "Le relazioni che si stabiliscono all'interno delle logge prevedono la presenza di un capo e di una gerarchia che non tiene conto delle attività professionali dei singoli libero muratori. Ciò può creare pericolose interferenze nel momento in cui, ad esempio, il magistrato massone si trova a dover giudicare l'imprenditore suo maestro".

Sulla massoneria "deviata" l'Eurispes è ovviamente ancora più severa:

-"La massoneria deviata si pone spesso al centro di intrecci tra politica, mafia, magistratura, imprenditoria”
-"La massoneria deviata storicamente si è contraddistinta per due caratteristiche: primo, per la grande capacità di sviluppare profitti grazie all'elaborazione di fitte interrelazioni clientelari e affaristiche. Secondo, per la capacità di canalizzare il complesso di tali relazioni (...) entro un progetto unico e finalizzato, non di rado, a influire sulle dinamiche politico-istituzionali".


Il 6 febbraio 2004 in un articolo pubblicato sul sito "Carmilla" e oggi non più reperibile, alla pagina http://www.carmillaonline.com/archives/2004/02/000606.html si legge una interessantissima considerazione:

"Una cosa va chiarita: l'adesione ad una loggia massonica non è reato (lo era nel caso della P2, strutturata come segreta, oggetto di innumerevoli inchieste, i cui affiliati sono stati coinvolti in vicende di eversione, stragi, tentati colpi di Stato, depistaggi). Al di là di questa fondamentale precisazione, é assodato che buona parte degli italiani che non contano niente (... ) si chiedano quale sia il motivo che spinge un individuo ad aderire ad una loggia massonica, se non la speranza di assicurarsi favori che non sarebbero ottenibili per vie legali o con l'ausilio del solo sudore della fronte."

Si dirà che queste sono considerazioni inattuali: il rapporto Eurispes è del 1992, l'articolo di Carmilla è del 2004 e le indagini di Cordova ovviamente non sono approdate a nulla. Ma nel 2007 il pm John Woodcock avvia un’indagine su una loggia massonica deviata e il giornalista Ferruccio Pinotti, nel libro "Fratelli d'Italia", in copertina si chiede: “Quanto conta la massoneria?”. In quarta di copertina risponde con la citazione degli atti dell'inchiesta del pm De Magistris: “Gli intrecci affaristici tra politica, imprenditori, massoneria e poteri occulti rappresentano, ormai, un sistema collaudato (... ) Emerge da esso la spartizione del denaro pubblico, il finanziamento ai partiti, il ruolo di lobby e poteri occulti deviati”.
Ma anche De Magistris, come Cordova, è stato subito rimosso dalla sua sede. >>
c.m.


* * *

EURISPES - RAPPORTO ITALIA '92 
Percorsi di ricerca nella società italiana - Schede capitolo II  
Scheda 19  - La massoneria in cifre

Vecchie inchieste e recenti indagini indicano con sempre maggiore sicurezza deviazioni e inquinamenti della massoneria tradizionale. Dal caso della loggia Propaganda 2 all'inchiesta avviata tra mille difficoltà dal giudice Agostino Cordova ricorrono troppe coincidenze per poter considerare questi due episodi giudiziari come separati e distinti tra loro. La massoneria deviata sembra essere sopravvissuta ai colpi inferti dalle istituzioni nel corso dell'inchiesta sulla P2, e appare essersi ripresa e rinvigorita proprio all'ombra delle istituzioni stesse. Come più volte è emerso nel contesto delle indagini e dei procedimenti giudiziari, quando si è trattato di confrontarsi con la massoneria deviata ci si è trovati di fronte a una parte dello Stato che combatteva sue ramificazioni occulte. Ciò è emerso con tutta la sua drammaticità in occasione della P2, ma continua a emergere in occasione di tutti quei procedimenti che affrontano casi in cui è coinvolta, seppur marginalmente, la massoneria.

La massoneria deviata si pone spesso al centro di intrecci tra politica, mafia, magistratura, imprenditoria e molto altro ancora per una serie di motivazioni che trovano una loro logica. I fenomeni di devianza all'interno delle cosiddette logge coperte si verificano, fondamentalmente, a causa di tre elementi che caratterizzano questa forma particolare di associazionismo. Il primo attiene alla tipologia degli aderenti: solitamente coloro che si iscrivono alla massoneria sono professionisti affermati o persone che comunque godono di status socioeconomico alto e medio alto. Il secondo è relativo alle relazioni che si stabiliscono all'interno delle logge che prevedono la presenza di un capo e di una gerarchia che non tiene conto delle attività professionali dei singoli liberomuratori. Ciò può creare pericolose interferenze nel momento in cui, ad esempio, il magistrato massone si trova a dover giudicare l'imprenditore suo maestro. Infine, last not least, bisogna considerare il fatto che la massoneria si articola su tutto il territorio nazionale e dispone di una struttura tale da poter mettere in contatto il centro con la periferia, il Nord con il Sud. Si riesce, in tal modo, a creare un network di controllo che parte dai poteri affaristico-politico-mafiosi locali per giungere a settori del potere centrale e, eventualmente, connettersi alle centrali massoniche sparse in tutto il mondo. Non va dimenticato, infatti, che la massoneria deviata storicamente si è contraddistinta per due caratteristiche: primo, per la grande capacità di sviluppare profitti grazie all'elaborazione di fitte interrelazioni clientelari e affaristiche. Secondo, per la capacità di canalizzare il complesso delle relazioni affaristico-clientelari entro un progetto unico e finalizzato, non di rado, a influire sulle dinamiche politico-istituzionali.

In seguito alle indagini svolte dal giudice Agostino Cordova e al sequestro dei registri degli iscritti alle maggiori obbedienze presenti sul territorio nazionale si è venuti in possesso di informazioni sufficienti a una disamina quantitativa, seppur parziale e provvisoria, della presenza massonica nel nostro Paese. Anche se ciò può apparire ancora poca cosa di fronte all'enormità dei fatti giudiziari in cui è apparsa essere coinvolta la massoneria deviata, bisogna considerare le difficoltà incontrate, non solo oggi, da chiunque ha voluto interessarsi a questo argomento. Fino a oggi i magistrati non disponevano neanche di un censimento attendibile degli iscritti alla massoneria e dell'elenco esatto delle logge presenti sul territorio. Non solo, lo stesso giudice Cordova lamenta la parzialità degli elenchi sequestrati in quanto, a suo giudizio, numerosi liberomuratori sarebbero stati affiliati all'orecchio del maestro, in altri termini, la loro appartenenza alla massoneria non risulterebbe da alcun documento. Alcuni passi in avanti sono stati fatti, ma la maggiore preoccupazione consiste nel fatto che alla lunga i procedimenti che coinvolgono la massoneria deviata subiscono spesso intralci e ostacoli. A tale proposito si potrebbero leggere le dichiarazioni rilasciate dal giudice Cordova alla Commissione parlamentare antimafia in cui numerosi sono i riferimenti alle difficoltà incontrate dall'ufficio della Procura da lui diretto nell'espletamento anche delle funzioni meno rilevanti. 

Tab. 1 - Logge massoniche e iscritti in Italia per regione 
La Toscana risulta essere la regione che conta il numero maggiore di logge e di iscritti alla liberomuratoria. Anche l'indice di concentrazione evidenzia la sostanziosa presenza di "frammassoni" in questa regione. La Calabria, con i suoi 2.901 iscritti e le 86 logge, si dimostra essere la seconda regione per la presenza di liberomuratori.
Il dato globale rileva che in tutta la Penisola sono stati censiti 31.594 iscritti alla massoneria distribuiti in 1.126 logge. Ciò significa che ogni 100 mila abitanti si hanno circa 55 liberomuratori. Va, inoltre, evidenziato che le logge, per quanto è stato possibile accertare attraverso le indagini, contano una media di circa 28 iscritti ciascuna.
Il dato, disaggregato per obbedienza massonica, dimostra la preponderanza del Grande Oriente d'Italia nei confronti delle altre associazioni massoniche. (Anno 1994)

Tab. 2 - Logge e iscritti per obbedienza massonica. Il Grande Oriente d'Italia 
Gli investigatori, dopo aver posto sotto sequestro gli elenchi del Grande Oriente d'Italia, hanno individuato, in tutta Italia, 20.939 nominativi distribuiti in 630 logge, il che significa una media pari a 36,9 iscritti ogni 100 mila abitanti. Gli iscritti al G.O.I. sono più numerosi, anche in questo caso, in Toscana (3.677) e in Sicilia (2.399). (Anno 1994)

Tab. 3 - Logge e iscritti per obbedienza massonica. Il Centro Sociologico Italiano 
Per quanto riguarda il Centro sociologico italiano sono stati censiti 6.291 iscritti e 335 logge. La media degli iscritti per loggia è pari a 18,8 mentre l'indice di concentrazione per 100 mila abitanti supera di poco le 11 unità. La Toscana si conferma quale regione tradizionalmente più abitata dai liberomuratori (1.536 iscritti e 81 logge), seguita dal Piemonte con 708 iscritti e 33 logge. (Anno 1994)

Tab. 4 - Logge e iscritti per obbedienza massonica. Il Gran Priorato d'Italia, le Logge di Jolanda Adami Tomaseo, la Gran Loggia Generale d'Italia, la Serenissima Gran Loggia d'Italia, la Gran Loggia d'Andorra, la Loggia di Diritto Umano, Muscolo 
I magistrati hanno preso in considerazione anche le obbedienze cosiddette minori e hanno individuato nel complesso 3.123 iscritti e 166 logge. (Anno 1994)

Tab. 5 - Logge e iscritti per aree geografiche 
Disaggregando il dato e verificando la presenza di iscritti alla massoneria nel Nord, Centro e Sud Italia si evince che le regioni settentrionali contano il numero maggiore di liberomuratori (11.693) e di logge (466). Ma osservando il dato relativo alla concentrazione di iscritti ogni 100 mila abitanti emerge che il Centro registra la maggiore concentrazione di liberomuratori (91,9 ogni 100 mila abitanti). (Anno 1994)

Tab. 6 - Logge e iscritti nelle province del Nord 
Tra le province del Nord, Torino conta il numero più elevato di iscritti (2.499) e di logge (80), seguita da Milano con 1.402 liberomuratori e 61 logge. L'indice di concentrazione per 100 mila abitanti, invece, pone al primo posto Imperia e al secondo posto Trieste. (Anno 1994)

Tab. 7 - Logge e iscritti nelle province del Centro 
Firenze, tra le province del Centro, è quella che conta il numero maggiore di iscritti e di logge, rispettivamente 2.475 e 90, seguita da Roma con 2.305 "frammassoni" e 71 logge. Considerando l'incidenza della popolazione massonica con quella della province emerge che a Livorno vi è una media di 238,8 iscritti alla massoneria ogni 100 mila abitanti, media che scende a 231 unità per quanto concerne Grosseto.

Tab. 8 - Logge e iscritti nelle province del Sud 
Tra le province del Sud, Cosenza è quella in cui è stato censito il maggior numero di iscritti alla massoneria (1.277) seguita da Palermo (1.262). La Calabria, inoltre, registra anche la media superiore di iscritti alla massoneria ogni 100 mila abitanti, sia a Cosenza (170,1) che a Reggio Calabria (132,5). (Anno 1994) 

Tab. 9 - La professione dei "liberomuratori" 
Di particolare importanza risulta essere l'elaborazione presentata dalla Commissione parlamentare antimafia in merito alla professione dei liberomuratori. Su una popolazione di 15.581 iscritti dei quali è stato possibile desumere la professione ben il 18,7% sono medici e il 12% impiegati. Vanno sottolineati anche i 420 militari che, seppur rappresentati in misura minore rispetto alle altre professioni, indicano una notevole rappresentanza di questa categoria. Stessa cosa può essere detta a proposito dei professori universitari e dei commercialisti-tributaristi. (Anno 1994) 

FONTE, Commissione parlamentare antimafia, Elaborato statistico iscritti alla massoneria, allegato alla Relazione conclusiva, approvata il 18 febbraio 1994.
LIBRO CONSIGLIATO, G. Cipriani, I mandanti. Il patto strategico tra massoneria e mafia, Editori Riuniti, Roma 1993.
INCROCI, 11. La criminalità organizzata: i dati aggiornati - 12. Scu, la quarta mafia: la struttura - 16. La strategia delle bombe. Gli attentati attraverso la stampa.

Nota
Rapporto pubblicato dal sito www.exibart.com nel 2005

lunedì 27 marzo 2017

1962: Nasce a Trento la prima Facoltà italiana di Sociologia.

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Ingresso della Facoltà di Sociologia di Trento

La sociologia, a livello accademico, in Italia nasce nel 1962 con l’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento. Il mainstream idealistico e antipositivistico, che aveva pervaso la cultura italiana durante il Fascismo, aveva reciso la sua prima fioritura in Italia, anche se proprio le teorie elitistiche, qui sorte in epoca anteriore, erano state ampiamente utilizzate da quello stesso regime.
Io considero un privilegio aver potuto frequentare quell’Istituto fra il 1966 e il 1970, perché il piano di studi ad ampio spettro, che caratterizzava la nuova Facoltà, forse non mi ha aperto le porte di un lavoro consono a quegli studi, ma mi ha aperto a nuovi orizzonti culturali e mi ha temprato caratterialmente.
La mia testimonianza su quanto accadde in quegli anni sarebbe poco significativa, perché ho vissuto ai margini dei fermenti politici, scaturiti dalla vivace dialettica fra studenti e università, fra studenti e docenti, fra studenti e città, fra studenti marxisti, anarchici e ‘weberiani’. Che i risvolti ideologici di quella dialettica fossero importanti, persino a livello nazionale, emerge chiaramente con le figure di alcuni suoi rappresentanti: Mauro Rostagno, leader indiscusso del Movimento Studentesco trentino; Renato Curcio, teorico e fondatore delle BR; Marco Boato, colto antesignano dell’avvicinamento fra il marxismo e quel cattolicesimo che fino ad allora aveva cooperato con liberali e fascisti, ma, forse per colpa dell’ostentato ateismo dello Stato Sovietico, aveva visto nel marxismo solo e sempre un pericoloso antagonista.
Ho vissuto ai margini di tutto ciò perché… appartenevo già da quattro anni alla ‘parrocchia’ del PCI, che era una forza politica ben strutturata e dunque incompatibile con lo spontaneismo di cui erano intrisi quei movimenti; poi perché, proveniente da famiglia monoreddito, dovevo fare il mio dovere bene e in fretta: studiare; infine perché, come cercai di far emergere dalla mia tesi dottorale, non riconoscevo alcuna preminenza né alle ‘teorie’ accademiche né alla ‘prassi’ politica. Teoria e prassi non marciano sempre in perfetta sincronia ma, a intervalli piuttosto brevi, devono passarsi il testimone; nessuna delle due può avere vita indipendente.
La mia marginalità fu determinata anche da un fattore quantitativo. Fino al ’66 gli iscritti alla Facoltà erano ancora poche centinaia e, in una città pulita e ordinata ma piccola come Trento, si conoscevano tutti fra di loro. Quando mi iscrissi io invece si era già in tanti; ne è testimonianza il numero di matricola assegnatomi a dicembre di quell’anno: 1669. Le cose erano quindi cambiate: non più un unico e compatto gruppo di studenti, ma tanti piccoli gruppi, con interessi e tendenze ideali diverse. Credo che forse solo il 10% degli studenti sia stato coinvolto in modo continuo nella ‘prassi’ politica.
Dunque io conosco solo dall’esterno ciò che avveniva nei palazzi: i rapporti fra i politici della Provincia ed i docenti; l’enigmatica preferenza accordata nel ’68 dai leader degli studenti al Prof. Alberoni rispetto alla ‘Vecchia Guardia’ (Ferrarotti, Braga, De Marchi, Barbano, Galli, Meschieri, Tentori, Disertori, ma anche Volpato e Cucconi; i primi che mi vengono in mente); quanto vi fosse di ideale o di opportunistico nelle richieste dei lavori di gruppo in alternativa a quelli individuali, ecc.
Ma qualche mese fa ho ritrovato sul web una testimonianza ben qualificata, quella del Prof. Filippo Barbano, il quale, fra interessanti aneddoti (prima parte) e intricate analisi (seconda parte), ripercorre la nascita e l’adolescenza di quella Università.
Qui di seguito riporto solo la prima parte; la più sfiziosa (!) almeno per chi ha studiato a Trento negli anni Sessanta.
Essa è tratta dall’articolo apparso su Quaderni di Sociologia, 36 | 2004, pagg. 91-110.
Per l’intero articolo V. https://qds.revues.org/1098

C.M.

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La Sociologia di Trento. Il mio coinvolgimento
di Filippo Barbano

1. L’incipit di questa testimonianza sul mio coinvolgimento a Sociologia di Trento, può essere rappresentato da una informazione, mai smentita, avuta a suo tempo da Giorgio Braga. Nei primissimi anni Sessanta, promosso dalla famiglia democratico cristiana progressista trentina, era maturato il progetto di istituire una sede universitaria locale, a far capo dall’istituto Trentino di Cultura. Tra le persone notabili dell’iniziativa c’era anche il padre Luigi Rosa dei Gesuiti di San Fedele, di Milano. Questi, un giorno, di ritorno da Trento, incontrò in treno Giorgio Braga. Nel corso della conversazione, Padre Rosa ebbe a parlare della iniziativa trentina, accennando anche al possibile orientamento per una Facoltà di scienze forestali o simili, legata cioè all’ambiente e al territorio montani. Giorgio Braga, di cultura politecnica, ma anche studioso di Vilfredo Pareto (ricordo in proposito la sua raccolta antologica: Vilfredo Pareto, Forma ed equilibrio sociale, Bologna, il Mulino, 1959, con introduzione di G. Braga) – prendendo, come si dice, la palla al balzo, non perse l’occasione di sottolineare, di fronte alla convenzionalità della scelta forestale, il carattere del tutto innovativo di una Università di scienze sociali, ed, in particolare, di una Facoltà di Sociologia. Detto fatto, nuova o in fieri che fosse, l’idea di sociologia attecchì, ed il relativo progetto si realizzò per il dinamico decisionismo di Bruno Kessler, allora Presidente dell’amministrazione Provinciale di Trento. Morale: «I giovani non sono piante».

2. Con Bruno Kessler, personalità di notevole spicco, sia umano sia politico, godetti di stretti e cordiali rapporti. Ci eravamo da poco conosciuti, ed egli venne ufficialmente ad incontrarmi a Torino, allo scopo di informarmi sul progetto di Sociologia di Trento, chiedendomi, in particolare, di dare assenso e collaborazione ad una specie di duumvirato sociologico, tra me e Braga; non essendosi ancora istituzionalizzata una appropriata forma di direzione, che Kessler allora riteneva di doversi dare ai sociologi, e che poi invece, per varie ragioni che sarebbe troppo lungo rievocare, ma che fanno parte del dilemma 'sociologia pensiero'-'sociologia tecnica', sarà affidata al prof. Mario Volpato, matematico di Ca’ Foscari.

3. Va da sé che il mio coinvolgimento a Sociologia di Trento non fu tanto motivato da un incarico di insegnamento, ma dalla Sociologia stessa, come estensione, in altri luoghi, di un impegno di studio e di ricerca sorto in me, anni prima, dall'attrazione per i fenomeni storico sociali e, in particolare, per i processi di democratizzazione e l’opinione pubblica. Interessi che mi avevano portato, nel 1948, a Roma, per frequentare i corsi di Giornalismo, allora dati presso la neonata Università internazionale Pro Deo, malgrado tutto soddisfacentemente laica, quanto al corpo docente, e a mettere alla prova certe chances, che pensavo di avere, per il giornalismo, non del tutto condivise dal mio Maestro Gioele Solari, con il quale mi ero laureato, in Filosofia del Diritto, con una tesi sul concetto di persona nella filosofia giuridica e il personalismo cristiano. Ancorché poco convinto, ma con la sincera comprensione di un vero Maestro, Solari mi fornirà più tardi un biglietto di presentazione per Mario Missiroli, Direttore allora del «Messaggero» di Roma, così concepito: «Torino 4 luglio ’49. On. Senatore mi permetto di presentare il dott. Filippo Barbano, già mio buon allievo, preso dalla passione giornalistica, che desidera da Lei consiglio ed eventualmente, dopo lunga e dura prova, incoraggiamento e aiuto. Mi è cara l’occasione per ricordarmi a Lei, per inviarLe i miei più vivi saluti e auguri. Suo Giole Solari». Non sarà certamente la «passione giornalistica» che mi porterà a Trento.

4. La mia presenza e partecipazione didattica a Trento si svolsero continuativamente dall’anno accademico 1963 all’anno accademico 1969. Avendo, dall’anno 1956, un incarico di insegnamento di Sociologia al Corso di laurea in Scienze politiche della facoltà di Giurisprudenza di Torino, la mia attività a Trento fu organizzata in maniera da occupare tre interi giorni settimanali, ogni quindicina. Il non breve viaggio Torino-Milano-Verona si conciliava assai bene con la lettura di libri e giornali, mentre la tratta Verona-Trento, mi offriva, a seconda delle stagioni, la veduta di pittoreschi luoghi e scorci della valle dell’Adige: indimenticabili, i colori bostoniani dei boschi autunnali. All’arrivo a Trento, di solito, venivano ad incontrarmi il mio collaboratore ed assistente Alberto Izzo e Giovanni Bellone, economista, che io avevo già conosciuto nelle circostanze della ricerca olivettiana per il piano regolatore di Ivrea, nei primi anni Cinquanta. I miei primi anni di insegnamento a Trento furono dedicati a Corsi generali, ovvero alle Istituzioni di Sociologia. Mentre poi, nell’ultimo anno accademico trentino, passai al corso di Storia del Pensiero sociologico.

5. La classe di studenti, fin dal principio assai numerosa, distribuita nell’ampio e ripido anfiteatro, mi si mostrò subito assai diversa da quella torinese, con una quantità di curiosità in più per la Sociologia, e con una speciale partecipazione ad ogni variante del clima universitario. Già in quegli anni non mancavano di certo gli interessi politici, legati o suscitati dalla Sociologia, specialmente di sinistra: ma mi fece impressione la marginalità di uno studente, certo Cigaina, mi pare, dovuta alla sua dichiarata militanza nel PCI. Molti dei miei studenti di allora occupano cattedre di insegnamento in più università, e mi è caro, nella presente circostanza, ricordare con affetto Darko Bratina, allievo ed amico, che assai prematuramente ci ha lasciati.

6. Alberto Izzo, figlio d’arte (Carlo Izzo era professore e Storico di Letteratura inglese) era giunto a me da Scienze politiche di Bologna, transfuga, per evidenti incompatibilità non solo personali, con l’ambiente, e subito ne apprezzai il carattere dolce, l’intelligenza riflessiva e il sapere critico, dei quali si avvantaggiarono pure la mia vita ed attività didattiche a Trento. Da Alberto Izzo ho ricevuto insieme ai miei perenni interessi per la Storia e la storicità, l’intenzionalità critica nella teoria e nella ricerca sociale; anche se, spesso, il criticismo di Izzo mi lasciava interdetto, specialmente nelle nostre sempiterne discussioni ed accapigliamenti circa la valutazione della sociologia, soprattutto secondo Robert King Merton, del quale io, in quegli anni, mi ero fatto ricettore ed interprete in Italia; del quale Merton, dunque, io ero un sostenitore, mentre Izzo mi mostrava di non apprezzarlo così incondizionatamente, soprattutto per la versione che Merton aveva dato della Storia e dei contenuti della Sociologia della conoscenza (Izzo è pure un allievo e seguace di Kurt Wolff) e, soprattutto, dei contributi della sociologia della conoscenza in Europa ed, in particolare, di quelli di Karl Mannheim.

7. A Trento la contestazione della Sociologia, come disciplina accademica fondamentale nel piano degli studi, passò, attraverso la critica della oggettività e della neutralità della Scienza, in maniera abbastanza diversa che nelle altre Università dove si insegnasse sociologia come esame complementare. Carlo Marx, in fondo, non era solo un «marxista», ma uno studioso che aveva analizzato la società con metodo storico-sistematico, e quindi era uno tra i Padri Fondatori della Sociologia. Per i neosociologi di Trento, licenziati o diplomati che fossero, quello dei «Padri Fondatori» era una specie di culto, dovuto ad una disciplina nuova e che veniva da lontano. Del resto, tra i sociologi, prevalentemente gli statunitensi, la cui informazione approfondita da noi risaliva appena agli anni del secondo dopoguerra, colui che era preso di mira dagli studenti contestatori era Talcott Parsons. Mentre il più venerato era C. Wright Mills, precoce critico della società americana, profeta della «Immaginazione sociologica», dalla quale espressione ebbe forse origine l’altra sulla: «Immaginazione al potere», nonché critico del cosiddetto Metodologismo astratto; malgrado il suo radicalismo, Wright Mills fu cooptato alla Columbia per intercessione di Robert K. Merton. Questi era il mio autore preferito, di riferimento, non solo per la sociologia statunitense. La sociologia strutturale, pluralistica ed insieme dualistica (struttura-cultura) di Merton sfuggiva a presupposti monistici come quelli di Talcott Parsons, la cui attrazione per il sistema facilitava la credenza che il sistema teorico parsonsiano altro non fosse che lo specchio sovra-strutturale del sistema sociale statunitense, così come del sistema capitalistico mondiale. La forza di Merton e la sua resistenza alla contestazione, avevano, tra l’altro, la loro fonte negli argomenti contro i tre celebri postulati del funzionamento integrale, cioè unità, universalità ed indispensabilità. Argomenti che si sarebbero potuti utilizzare contro l’evento stesso della contestazione, a partire dalla protesta giovanile. (F.Barbano, Contestazione, funzionalismo e rivoluzione: il punto di partenza giovanile studentesco, «Studi di Sociologia», 1969, n. 4, pp. 311-366).

8.Tra gli studenti divenni ben presto il «Barbano strutturale», a ragione, perché ho sempre considerato il concetto di struttura come un fondamentale storico-sistematico della conoscenza sociologica, attorno al quale far ruotare, da un lato, il sistema, l’organizzazione e i processi di differenziazione sociali, e, dall’altro lato, l’azione, il soggetto umano ed i processi di individuazione relazionali. Il che, cioè questa rotazione attorno al concetto di struttura sociale, è storicamente avvenuto, e tuttora avviene, determinando il quadro fondamentale del sapere sociologico e quello storico sistematico della sociologia. Agli studenti di Trento proposi due dispense, concepite contemporaneamente, anche per l’insegnamento torinese: Sociologia strutturale. Teoria ed analisi delle strutture sociali (Torino, Giappichelli, 1965); e poi Sociologia strutturale. La nozione di struttura sociale nella antropologia culturale e nella sociologia (Torino, Giappichelli, 1996). Alla scrittura dei capitoli appartenenti a questa seconda dispensa collaborarono generosamente sia Alberto Izzo, a Trento, che Carlo Marletti a Torino, che ringrazio ancora una volta. Della prima dispensa, ora ricordata, ci sono state successive edizioni, ed il loro impianto analitico sistematico, a detta di molti studenti, fu determinante per la loro preparazione, ed alcuni di essi non perdono occasione, ancora oggi, di propormi una nuova edizione, naturalmente aggiornata, sia dal lato dei processi di differenziazione, che da quello dei processi di individuazione relazionali.

9. L’attività didattica a Trento mi offrì pure l’occasione di raccogliere in un volume un certo numero di contributi: Problemi di analisi delle strutture sociali (Trento, Arti grafiche «Saturnia», 1964). Un raccolta di saggi che, ancora oggi, si rivela essere importante (anche se questo volume è pressoché introvabile) per la presenza di alcuni lavori e contributi dispersi in fonti remote, a tutt’oggi interessanti: Concetto e natura dell’opinione pubblica (1954); Attività e programmi di gruppi di ricerca sociologica (1957); Cultura e personalità nel pensiero sociologico americano (1958), quest’ultimo particolarmente ricordabile nella attuale fase di personalizzazione dei processi di individuazione relazionali, e cioè di personalizzazione dell’attore sociale; A proposito di una ricerca incompiuta di Sociologia della religione (1958); Le condizioni strutturali del comportamento deviante (le conseguenze della Legge Merlin, e il problema della registrazione) (1959). Per riferimenti più puntuali rimando a Teoria, società e storia. Scritti in onore di Filippo Barbano, Milano, Angeli, 2000 (a cura di Carlo Marletti e Emanuele Bruzzone) ed ivi la parte bibliografica.

10. Com’era la giornata del professore universitario a Trento? Prima di tutto non travagliata dal traffico e dagli spostamenti urbani. L’edificio universitario di via Verdi (già presente ai tempi dell’Austro Governo, piuttosto generoso, devo dire, se gli Austriaci edificavano in quella grandiosa maniera, in una città che essi occupavano) nobile e spazioso, si raggiungeva comodamente, camminando per le vie della Città del Concilio, anch’esse nobili e assai pulite. Venivamo, la mattina, dai vari alberghi che i professori frequentavano: l’Astoria, l’Accademia, Il grand Hotel Trento, l’America, e così via. L’edificio di via Verdi era talmente spazioso che, agli inizi, visitandolo con Kessler, dovetti rassicurarlo più volte che gli studenti di sociologia sarebbero via via diventati tanto numerosi da colmare le grandi aule. Gran parte della giornata trascorreva nella sede universitaria: ora per le rituali lezioni, ora per ricevimento studenti, ora per seminari o lavori di gruppo, ora per ricerche personali in Biblioteca; questa, ai primi tempi, ancora modesta, ma già molto diligentemente e intelligentemente curata dal sig. Disertori (a Trento abbondano i Disertori, uno psicologo assai versatile, una Libreria ben fornita), prese subito a crescere, anche per la generosità con la quale le nostre richieste di acquisto venivano accolte, tanto che oggi, per quanto riguarda Sociologia, non vi è, in Italia, biblioteca universitaria altrettanto ben fornita.

11. Al di fuori delle ore di lavoro, ci si ritrovava nelle vie del centro cittadino, chi per tornare in albergo, chi ne veniva, chi per fare shopping, chi per altro motivo ancora, come, per esempio, passeggiare per la città, secondo il clima: delizioso in primavera, cocente d’estate, pittoresco in autunno, seccamente freddo in inverno. Camminando con Izzo, dopo aver curiosato qua e là per i negozi, alcuni assai sciccosi e moderni, altri suggestivi per le insegne e gli articoli altrove introvabili, nelle giornate dei grandi freddi, Alberto mi invitava ad entrare in qualche bar, più che per un caffè o un aperitivo: «per prendere una boccata di caldo». Izzo, ancorché sano e forte, vantava un perpetuo spleen, e Trento ne era divenuta la cura, occhieggiava alle ninfette e adorava i prodotti farmaceutici, dei quali aveva con sé, in ogni viaggio, un sacchetto ricolmo. Pranzo e cena erano belle e non dimenticate occasioni per stare insieme a conversare, mentre fuori nevicava, con i colleghi: ricordo gli psicologi, L. Meschieri e F. Metelli, gli antropologi, T. Tentori e G. Harrison, e gli economisti come Romano Prodi, anche lui, come tutti noi, un patito del «carrello» dei bolliti, presentato e distribuito dal Marietto, nel ristorante dell’albergo Astoria. La cena finiva di solito con un generoso grappino, inevitabile, se era presente il direttore Mario Volpato, il quale ritualmente rimproverava ad Izzo di essere astemio, chiedendosi se il sociologo poteva essere un tale che non amava il grappino, ed una volta che Izzo, a scopo dimostrativo, ne ingollò cinque di seguito, Volpato detto fatto, celebrò l’avvenimento reintegrando Izzo nella fama di bravo ragazzo e/o di buon sociologo. La qualità della vita a Trento sarebbe stata anche più buona ed apprezzabile, se i trentini ci avessero guardati più come normali cittadini che come bestie rare. Per scavalcare la diffidenza dei primi tempi, mi feci ricevere dall’Autorità vescovile di allora, ma senza apprezzabili risultati.

12. Bruno Kessler teneva molto, anche dal punto di vista editoriale, al logos trentino della produzione scientifica. All’atto dell’incarico dell’insegnamento della Sociologia a Trento, Kessler mi chiese, come gesto di simpatia e di mio coinvolgimento trentino, di svolgere una approfondita e documentata ricerca sui Piani di Studio di Università, Facoltà, Dipartimenti di Scienze sociali o di Sociologia in Europa, e soprattutto, negli Stati Uniti, paese nel quale, come è noto, nel secondo dopoguerra, la ricerca e la teoria sociale erano pervenute ad un notevole sviluppo, del quale ci si sarebbe dovuto rendere conto, anche senza eccedere nell’americanismo. Accettai ben volentieri l’incarico (che io stesso volli essere gratuito, visto anche il generoso compenso mensile per l’incarico d’insegnamento, malgrado le proteste di Kessler, che non concepiva come un lavoro o un servizio potessero essere privi di un corrispettivo monetario). I risultati della complessa ricerca sono stati pubblicati: Istituto Universitario di Scienze Sociali di Trento, Filippo Barbano, Progetto di sviluppo del piano di studi per le Facoltà di Sociologia (Trento, per i tipi delle Arti grafiche «Saturnia», 1964, pp. 264). Il libro ebbe una assai scarsa attenzione, come molti degli studi e ricerche che vengono prodotti a scopo meramente dimostrativo, il che non era certamente nelle intenzioni di Kessler, ancorché la ricerca mi fosse stata commissionata dal Collegio commissariale dell’Istituto Universitario di Scienze sociali di Trento, che io, nella mia Prefazione ringraziai: «per la stima e la fiducia dimostratami nell’affidarmi l’incarico di redigere il presente studio; la cui occasione segna un momento importante nello sviluppo della Sociologia e delle Scienze sociali in Italia» (cfr. Progetto di sviluppo, cit. p. 13). Ho ripreso in mano quel libro, con una certa trepidazione, tanto più che io nutro, nei confronti delle molte (troppe) cose che ho scritto, un impulso irresistibile ad abbandonarle nel tempo. Ma mi sono dovuto ricredere: sfido chiunque a non riconoscere nelle idee e nelle linee propositive di quel Progetto, dei primi anni Sessanta, i temi critici ed i problemi, relativi ad una avanzata offerta di formazione, tuttora attuale per sociologi ed attività sociologiche, giocata tra una seria preparazione scientifica ed una flessibile qualificazione professionale. Riprendevo una fondamentale osservazione: «L’università contemporanea attende una “teoria”. Non c’è dubbio che ognuna delle grandi istituzioni universitarie del passato si mosse da una “teoria”; in qualche caso da una vera e propria “filosofia”»… «Per quanto riguarda le scienze sociali, mette anche conto ricordare come non fu senza una sua «teoria» che nacque intorno al 1894 la London School of Economics and Political Sciences» (cfr. Progetto, cit. pp. 99-100). Voglio, insomma, dire, senza alcuna presunzione, che in quel Progetto si trova in nuce il problema, attualissimo nel nuovo Secolo, della Modernità in relazione con le Istituzioni universitarie, non esclusi i crescenti inconvenienti derivanti dall’applicazione della recente riforma universitaria cosiddetta 3+2.

13. Nel Progetto di sviluppo del 1964, i temi che ponevo alla discussione erano di tre ordini, con un’esposizione della quale, il direttore Volpato, non seppe dire altro che era «una pregevole ricerca», ma che era invece una seminale anticipazione degli argomenti più inclusivi della contestazione studentesca di qualche anno dopo. Contestazione con la quale, prima Volpato, e poi anche Alberoni, avrebbero dovuto fare i conti. Questi suonava il piffero al Movimento e, al tempo stesso, ne cercava la istituzionalizzazione. Il tema della preparazione scientifica apparteneva al primo ordine di problemi. L’aggettivo «scientifico» evocava l’interrogativo su com’era o poteva essere «scienza», la sociologia, appartenente al novero delle «scienze imperfette» (J. Stuart Mill) e non certo scienza «esatta». «Storici e Sociologi – riprendevo la seguente riflessione – sono scienziati, ma con la s minuscola. In confronto a quelli che si occupano del mondo fisico, essi sono i parenti poveri fra gli scienziati. Ma anche i parenti poveri possono essere utili. Le Scienze non esatte possono servire. Una scure non è uno strumento di precisione, ma rende servizi utili, specialmente quand’è maneggiata da una mano esperta». La citazione, da G. Salvemini (La Storia e la Scienza, 1948), mi permise di porre in tutta ragionevolezza il valore della Sociologia come scienza e di determinare una accettabile distinzione professionale del sociologo, al di fuori da ogni pretesa scientistica e tecnocratica.