lunedì 21 gennaio 2013

Pasquale Saraceno, “Riflessioni Senilamare”, Rossano, 1995

Le pagine che seguono sono tratte dal libro del Prof. Pasquale Saraceno, al quale sono legato da profonda stima. L’ho conosciuto in tre momenti diversi e per tre diversi motivi. Nei primi anni Sessanta, quando di lui sentivo parlare alcuni suoi alunni del Liceo classico di Rossano - nostro comune luogo di origine – per sottolinearne la vasta cultura e l’attaccamento profondo alla missione di insegnante. Negli anni Ottanta, quando ho avuto l’onore di diventarne collega ed ho potuto apprezzare di persona quelle sue qualità e pormi la sua figura come modello umano e professionale. Dagli anni Novanta, e ancora adesso, come lettore dei suoi numerosi volumi, dove, con taglio quasi giornalistico, riesce a dipanare i più profondi problemi politici e culturali della nostra società.
Il Prof. Pasquale Saraceno è nato a Rossano Calabro nel gennaio del 1923 e in questi giorni festeggia il novantesimo compleanno, per cui, in questa breve presentazione, oltre ai ringraziamenti per avermi concesso di pubblicare queste sue pagine, desidero fargli i miei auguri. Le persone che hanno sempre mantenuto sveglia la loro passione per la cultura e per l’umanità, restano, e noi dobbiamo augurarci che restino, sempre attivi e in salute.
Riconoscente allievo del Prof. Antonio Aliotta, Pasquale Saraceno si è laureato in Filosofia all’Università di Napoli e per trentacinque anni si è dedicato all’insegnamento con passione, continuando sempre a coltivare i suoi giovanili interessi filosofici ed anzi, come dimostrano i suoi scritti, allargando l’indagine ai problemi economici, politici e… teologici. Anche a quelli teologici, perché, nonostante il suo scetticismo, non ha mai cessato di indagare sulle origini e la natura del sentimento religioso.
Come emergerà da queste poche pagine, l’Autore prende le distanze dalle forme dittatoriali assunte dai regimi comunisti nei Paesi dell’Est europeo, ma non manca di sottolinearne anche alcuni aspetti positivi, che facevano da contraltare agli altrettanto dannosi regimi ultraliberistici dell’Europa occidentale, e soprattutto mette in risalto il valore ancora intatto del pensiero marxiano.
Il giovane e valente filosofo Diego Fusaro nel 2009 ha pubblicato un bel saggio dal titolo “Bentornato, Marx!”. Encomiabile il suo sforzo di recupero del pensiero del grande filosofo di Treviri, ma per il Prof. Saraceno non si tratta proprio di un ritorno. Nel suo cuore, nella sua mente e, lui pensa, anche nella società, le tracce più profonde del pensiero di Marx non sono mai state cancellate. Il suo grande sistema di idee si fa infatti progetto, utopia e, in quanto tale, resta sempre sull’orizzonte dei fini ultimi dell’uomo. In questa ottica, non può sfuggire la sua affinità con il primitivo messaggio cristiano di spiritualità, uguaglianza e difesa dei deboli.

Cataldo Marino

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Riflessioni senilamare (brani tratti dalle pagg. 217-231)

Quello che era il ritornello dei discorsi di Reagan e di Wojtyla è sotto i nostri occhi, oggi. Prima il popolo russo, vittima di una dittatura, era sano moralmente e non moriva di fame. Non conosceva la disoccupazione, non pagava alcuni servizi, come quello della sanità, spendeva poco per altri (trasporti, luce, riscaldamento). Ad ogni nucleo familiare era assicurata una casa, il cui affitto corrispondeva al 5% del salario; gli alimenti essenziali avevano prezzi minimi. Eppure si è sempre detto che la mercede di quegli operai era bassissima, ma volutamente non si mettevano in conto tutte le agevolazioni che di fatto rendevano doppio o triplo il salario. Si obietterà: gli alloggi erano piccoli e fatiscenti, il cibo di qualità scadente, la razione di pane veniva data dopo lunga attesa. Oggi gli alimenti sono migliori e più abbondanti, gli appartamenti più decorosi. C'è però un piccolo particolare da tener presente: gli uni e gli altri sono per pochi privilegiati, i padrini, i capimafia, che sono le figure emergenti della società. Secondo i dati dell'Unicef, dopo la caduta del comunismo le famiglie che vivono sotto la soglia della povertà sono tantissime. Si prova sconcerto di fronte al nuovo, portatore solo di miseria, immoralità, disordine e morte. Quanta amarezza, quanta delusione e quanta nostalgia del passato! [...] La logica liberista ha spazzato via 70 anni di assestamento e sicurezza sociale ed è spaventosamente complicato riconvertirsi alla proprietà privata e alla libera iniziativa.

La Russia di oggi è il paese dei malavitosi. A Mosca si contano oltre 5 mila bande che vivono di estorsioni, spaccio di banconote false, atti di teppismo e che spesso la fanno franca per la grave crisi della giustizia, che non riesce più a garantire lo Stato di diritto, anche per la mancanza di prigioni (la criminalità era stata debellata). Il mercato, alimentato da una massa enorme di denaro straniero (quello degli speculatori) è selvaggio, senza regole e costituisce il terreno ideale per l'espandersi della criminalità. "Abbiamo cercato per 70 anni di creare l'uomo nuovo. Ma appena la società è diventata libera è saltato fuori il malvivente". Questo l'amaro sfogo di A. Jakovlev. La delinquenza dilaga, perché non ci sono più freni morali autonomi o imposti dalle leggi. I furti, le rapine, gli omicidi non si contano più. Chi può cerca di arricchirsi con ogni mezzo e, se ci riesce, suscita l'invidia e, qualche volta, l'ammirazione degli altri, non più protetti nei loro diritti fondamentali. I gangster miliardari che girano su auto di lusso, in compagnia di ragazze belle ed eleganti, spesso diventano degli idoli, perfino agli occhi dei bambini, esterrefatti dinanzi ad altri spettacoli.
Scrive Iacovello su "La Repubblica": "Calcutta? Cercatela in Russia. San Pietroburgo assomiglia a Calcutta: allineati sui vialetti... ci sono storpi e scrofolosi, giovani epilettici e vecchie piene di piaghe, vittime della fine dell'assistenza pubblica, dell'inflazione mangiarisparmi che li ha messi letteralmente sulla strada. Dove non sopravvivranno a lungo. È il nuovo questo?" Nessun politico rappresenta milioni di russi emarginati da riforme che favoriscono solo folle di mercanti, convinti che "al mondo non c'è nessuno più forte del ricco", come viene detto a Iliuscia ne "I fratelli Karamazov".

Molto fiorente è il commercio della droga. Altra fonte di guadagno è la prostituzione. Peccato! Prima essa era un fenomeno sconosciuto o molto limitato. Non che le donne russe fossero tutte caste e fedeli, ma difficilmente vendevano il proprio corpo. Decine di migliaia di ragazze oggi si offrono negli alberghi, nelle case, nelle discoteche. Quell'attività è il sogno delle adolescenti: è una via d'uscita dalla miseria. Non a caso la canzone "Prostituta" è ai primi posti delle classifiche russe. Mosca conta più di 200 case di piacere clandestine. Molto diffusi anche romanzi, riviste e giornaletti porno. Insomma, quella del sesso è l'industria più fiorente del Paese.
Durante i 70 anni del comunismo la notte era dedicata da tutti al riposo, che ritemprava il corpo per il lavoro del giorno successivo. Oggi non è più così: la notte "è fatta per amare" e, di conseguenza, si offrono spogliarelli, "servizi erotici" e ragazze a profusione nei locali aperti al pubblico, che, purtroppo, non chiudono più i battenti alle 11 di sera, come era prescritto anteriormente al libero mercato... del sesso. Da quest'orgia è esclusa la classe operaia: certi piaceri sono riservati ai ricchi, agli speculatori.
Prima gli svaghi erano più semplici, non peccaminosi, Santità! Anche nella sua Polonia, che oggi inonda l'Europa di prostitute, in piena libertà e in contrasto con l'invito pressoché quotidiano del suo Papa alla castità.
Questo è solo l'inizio di un'era che promette guai assai peggiori. Quando ciascuna etnia dell' immenso arcipelago russo avrà acquisito piena coscienza di sé e vorrà imporre alle altre la propria cultura, il proprio credo religioso, allora sì che si manifesterà l'errore imperdonabile commesso da quanti si sono battuti per sconfiggere il socialismo.

Come il poeta esalta e rimpiange l'utilità della quercia dopo il suo abbattimento (essa non può più offrire ristoro al viandante e rifugio agli uccellini), così oggi sono in molti a tessere le lodi del socialismo. Alcuni, forse delusi; altri, forse spauriti; altri ancora, riconfermati nella loro fede. Sembra che lo stesso Papa, uno degli artefici principali della caduta dei regimi dell'Est, rimpianga Iaruzelski e arrivi a sfiorare la riabilitazione del marxismo. Egli afferma che i proletari erano veramente sfruttati nel secolo scorso e che questo sfruttamento costituisce "il nocciolo di verità del marxismo che lo ha reso attraente alla società occidentale". E ancora: "Dobbiamo raccogliere i semi che ci sono nel socialismo, nato come reazione al capitalismo degenerato... I bisogni che hanno dato vita a questo sistema erano reali e seri". Aggiunge però il Pontefice che "centro dell'ordine sociale è l'uomo", che la soluzione proposta da Marx non ne ha garantito la dignità e perciò è andata incontro al fallimento.
Va precisato però che non bisogna confondere il socialismo reale dell'Est con la dottrina di Marx. Se è vero che lo sfruttamento dei proletari era largamente praticato, se è vero che era forte la volontà di andare incontro "a bisogni reali e seri", come si fa ad affermare che Marx ha calpestato la dignità dell'uomo? Al contrario, al centro di quel sistema c'è la fede nella redenzione dell'uomo. Chi ha elevato nel mondo certe classi sociali dallo stato di inferiorità e di abbruttimento in cui erano costrette a vivere? Chi ha fatto cadere certi ostacoli che le tenevano lontano dai diritti fondamentali? È il sistema liberale che pone al centro della storia l'economia e non l'uomo. Dice frate Iljia, un giovane francescano croato: "L'Europa ci sta regalando la diffusione della droga, l'edonismo di massa, il guadagno facile e il disprezzo per la solidarietà sociale".

R. Zangheri nel suo ultimo libro "Storia del socialismo italiano" afferma che "senza uno spirito di solidarietà, di fratellanza non eviteremo le catastrofi in agguato, e il socialismo, come altre idee-base della civiltà umana, ha forse qualcosa da dire a questo proposito". Anche nell'incontro-dibattito tenuto a Roma nell'aprile del '93 si conclude che il socialismo non è da buttare. Alla rassegnazione di L. Colletti, il quale sostiene che il capitalismo è il frutto di una selezione naturale, che esso non rappresenta il migliore dei mondi possibili, ma il mondo reale, M. Rocard (l'ex 1° ministro francese) oppone la necessità di un "movimento" progressista, di una sinistra dal cuore socialista, capace di garantire nell'economia di mercato l'elemento umano della solidarietà. Su Civiltà cattolica del febbraio 1993 i gesuiti dichiarano apertamente che dei socialisti l'Italia ha ancora bisogno. "Contro lo strapotere del capitalismo individualista, che tende a sottomettere l'attività economica alla sola legge del mercato e del profitto, una forza socialista, rinnovata nell'ideologia e nella prassi, ha ancora la sua ragion d'essere, a patto che non si ricada negli errori dell'era Craxi, durante la quale il PSI è entrato in perfetta consonanza con l'attuale società consumistica". È quanto sostiene padre Giuseppe De Rosa."II socialismo non può morire. Fin quando gli uomini saranno capaci di un anelito di giustizia e d'altruismo, quell'anelito sarà socialista" dice E. Montanelli, che completa però il pensiero affermando che il socialismo deve avere la funzione di "correttivo del capitalismo, che, abbandonato a se stesso, trasformerebbe la società in una giungla".

In un mondo con poche famiglie sempre più ricche e tutte le altre sempre più povere, quale rimedio più efficace di un socialismo autentico che tuteli chi la ricchezza contribuisce a crearla e, in generale, i destinatari dei beni prodotti? Non si pensi che la lotta tra capitalismo e socialismo si sia conclusa. È terminato solo il 1° round. L'egoismo e l'apertura agli altri sono categorie dello spirito insopprimibili ed il contrasto è destinato a durare in eterno. La difesa del singolo, intraprendente e spregiudicato, si scontrerà sempre con le esigenze della collettività.
La rivoluzione nata per imporre l'eguaglianza è fallita per la ferocia dei capi e la fretta di concludere processi storici che richiedono prudenza e tempi lunghi, ma soprattutto per la reazione decisa e concordata del grande capitale mondiale e di forze religiose anelanti ad esercitare nell'Europa dell'Est la loro suggestione.
[…]

Benedetto Croce sostiene che nella storia non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma sempre fatti buoni, perché il vero soggetto di essa è sempre in ultima analisi lo spirito.
"La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta, ossia confondendo il pensiero con la vita e assumendo come giudizio del pensiero le attrazioni e le repulsioni del sentimento". In altre parole, tutto nella storia è razionale perché tutto in essa ha la sua ragione d'essere. Bisogna aggiungere che negli ultimi scritti B. Croce cade in contraddizione quando distingue la razionalità della storia dalla razionalità dell' imperativo morale, col quale riemerge quel sempre schernito dover essere che pretende di dar lezioni all'essere.
Se ogni evento ha la sua giustificazione, non si spiega l'accanimento contro alcuni di essi in particolare. A volte non è il caso di tirare in ballo una dottrina come causa di nefandezze. Il cristianesimo è stato causa di lutti e sciagure perché lo si è voluto piegare a interpretazioni aberranti. Scrive S. Tommaso: "Di per sé l'eresia è un peccato tale che l'eretico merita di essere non solo separato dalla Chiesa per mezzo della scomunica, ma anche escluso dal mondo con la morte" (!!!). Innocenze III, ritenuto uno dei più grandi papi, nel 1209 indisse una crociata che portò allo sterminio dei Catari, rei solo, assieme ad altri spiriti liberi (tutti condannati come eretici) di perseguire il ritorno agli ideali evangelici di povertà e giustizia in nome di una rigenerazione religiosa e morale. Fonti insospettabili dicono che furono milioni i roghi su cui finirono, nel Medioevo, eretici e streghe. E tantissimi altri fatti stanno a dimostrare come sia facile travisare una dottrina e compiere ogni sorta di violenze in nome di un Dio che è solo amore.
Anche oggi, se le condizioni fossero le stesse, i roghi chiuderebbero la bocca a molte persone. E si ha anche il coraggio di dire che l'uomo dev'essere riportato al centro della storia, l'uomo mortificato ad Est e ad Ovest perché la modernità, cioè il marxismo e il liberalismo, metterebbero a quel posto l'economia.
[…]

Marx è stato violentato con conseguenze disastrose. Questo non toglie alle sue opere l'alto significato etico, riconosciuto anche da Croce e Gramsci, che pongono l'accento sul senso dell'uomo, sul rifiuto di una società ingiusta. Nel groviglio di quegli scritti, farraginosi e di difficile lettura -tutti ne parlano, ma pochissimi li conoscono a fondo- c'è un solo punto fermo: la glorificazione dell'uomo e della sua attività. […]
Marx resta l'analista insuperabile del capitalismo, il rivoluzionario, il capostipite del socialismo moderno, colui che sogna una società più umana, una società in cui "il libero sviluppo di ciascuno sia condizione per il libero sviluppo di tutti", e in cui possa trovare attuazione il principio sacrosanto 'ognuno secondo la propria capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni".
Nei Paesi dell'Est il comunismo è fallito proprio perché s'era allontanato da Marx, al quale non sono assolutamente da addebitare la ferocia e i metodi di Stalin. Se c'è un grosso errore che si può rimproverare a Marx è quello di aver sottovalutato le capacità dei capitalisti: i veri potenti sono i ricchi e contro di loro c'è ben poco da fare. […]
Marx è il cantore della libertà e della dignità dell'operaio, al quale conferisce appunto decoro nel momento in cui lo spinge a non dare al suo lavoro il carattere di asservimento incondizionato al profitto altrui.
L'autore del Capitale è ateo e va bandito?
A parte la constatazione che anche gli atei possono entrare nel "Regno dei Cieli", se si comportano onestamente, bisogna distinguere un ateismo pratico, di fatto, da un ateismo teorico. Chi calpesta il fratello, lo sfrutta, lo riduce in catene, anche se si professa cristiano, in realtà non lo è, perché agisce come se Dio non esistesse. Viceversa, chi coscientemente non riesce ad arrivare a Dio, ma si batte in nome della fratellanza e cerca di inculcarne l'idea anche negli altri, è da pensare che sia molto più vicino a Lui dell'altro. […]

Negli anni Settanta destò grande interesse la "Teologia della liberazione", cioè una nuova maniera di fare teologia, che si cercò di sperimentare nell'America Latina, dove una vergognosa sperequazione vede le masse soffrire in modo incredibile. Senonché, i promotori di questa crociata di salvezza, sacerdoti, anche dell'ordine dei gesuiti, furono sconfessati ufficialmente dalla Chiesa.
Siamo nel 1971 quando Gaetano Gutierrez tiene una conferenza in occasione della giornata di studio della "partecipazione dei cristiani alla costruzione del socialismo in Cile". Vengono esaminati diversi tipi di relazione tra marxismo e cristianesimo. Uno è di rifiuto del marxismo. Errore, se esso è umanismo, se vuole il "ritorno dell'uomo a se stesso", cioè l'ascesa dalla disumanità all'umanità, e se considera la proprietà come disponibilità del lavoro altrui. Non si può respingere una dottrina che auspica una società più giusta. Anche il marxismo ha la sua fede. L'azione politica non è solo scienza, analisi, ma ha un progetto storico, un'utopia, che è l'elemento creativo, qualcosa che muove ad agire, l'ansia dell'uomo nuovo e della società nuova. La fede, come impegno nella storia, dà un contributo all'azione politica. Se ciò che salva è l'amore del prossimo, la comunione, cioè qualcosa che si realizza quaggiù, la salvezza è situata nella storia, che è unica (quella sacra non si distingue da quella profana).

La Teologia della liberazione, che non è quella ufficiale, deduttiva, vuol essere una riflessione critica, alla luce delle parole del Signore, sull'attività umana, quella che Marx chiama "praxis". "Una delle più grandi illusioni cristiane -dice Gutierrez- è quella di dire che non si ricava niente se non si converte l'uomo. Che significa convertire l'uomo se non convertire il mondo in cui l'uomo si trova? Il cuore da solo non si converte: quattro secoli di cristianesimo in America Latina stanno a dimostrarlo... C'è tutto un contesto, qualcosa di molto più vasto da tener presente". Se il processo di liberazione tende a creare una società giusta, un uomo diverso, affrancato dal peccato, inteso come mancanza di amore, esso può essere favorito da una collaborazione fra cristiani e marxisti. Ma ad una condizione, che essi non siano schiavi dell'ideologia, che è il mondo delle verità precostituite. "Nella misura in cui il cristianesimo e il marxismo si presenteranno meno ideologizzati saranno molto migliori". Il loro rapporto, che può concretizzarsi solo nell'azione politica, dipenderà appunto dal tipo di azione politica.

E si insiste su un concetto basilare. Il cristiano ha una visione dell'uomo diversa da quella del marxista. La rivelazione gli dice "che è amato da Dio, che quest'amore è gratuito e che gratuite devono essere le sue relazioni con gli altri" (solo l'amore gratuito è profondo). "Si salva chi rompe col proprio egoismo e si apre agli altri; aprendosi agli altri si apre a Dio, a Cristo". Se i fatti storici esprimono un conflitto tra individui e si muovono verso la comunione degli uomini tra di loro, anche i marxisti, si ribadisce, possono dare il loro contributo all'azione politica. Marx vuole mutare il mondo, dopo che i filosofi l'hanno soltanto interpretato; in lui è grande la volontà di realizzazione politica, il desiderio di una società migliore.
Ora, se i "nuovi" teologi vedono la possibilità di un'intesa proficua sul terreno pratico con i "nemici", perché nei confronti di quelli c'è tanta diffidenza e perfino ostilità?
È proprio vero, come sostiene il buon frate Vittorino, che la Chiesa si allea con i potenti, con i ricchi, dai quali soltanto può ricevere favori e aiuti? In effetti, la storia conferma che l'appoggio dei monarchi e persine dei dittatori, chiesto e ripagato nel corso dei secoli, le ha dato sempre forza e capacità di affermarsi. Ai poveri si apre il "Regno dei cicli", degli altri si consolida quello terreno. Se non fosse così, nell'azione politica i cattolici sarebbero spinti a sinistra, dove sventola la bandiera della solidarietà, cioè dell'amore.

Eppure sembrava, alla fine del secolo scorso, che qualcosa stesse cambiando dietro la spinta del socialismo cosiddetto utopistico e di quello scientifico. Il cristianesimo c'è da venti secoli, ma la dottrina sociale della Chiesa, in forma organica e ben articolata, vide la luce solo con l'enciclica "Rerum novarum" del 1891. Leone XIII tentò di creare un "socialismo cattolico o cristiano" per togliere ai socialisti il merito di essere gli unici occuparsi dei problemi delle masse operaie.
Che gara edificante! Perché non riconoscere umilmente i meriti altrui, dato che il buon Dio può servirsi di chiunque per operare? Era proprio necessario Marx per spingere la Chiesa ad occuparsi esplicitamente dell'operaio e del lavoro? È vero che la questione sociale si pone solo nell'Ottocento con l'avvento della macchina e il passaggio alla produzione di fabbrica o industriale e con lo sviluppo di mezzi di trasporto e di comunicazione. Ma è pur vero che anche nella fase della produzione artigianale o manifatturiera si sfruttava l'uomo, e i testi sacri sono pieni di riferimenti alla sua dignità e alla giusta mercede. […]

Pasquale Saraceno
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giovedì 17 gennaio 2013

Salari e consumi, i due fronti della lotta di classe

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Premessa: profitto ‘equo’ e profitto ‘iniquo'.

Supponiamo che Tizio decida di costituire una piccola impresa per la produzione di tavoli da salotto, sostenendo costi speciali per materie prime e lavoro e costi generali per fitti, logorio dei macchinari, elettricità, trasporto, pubblicità ecc..
Gli studiosi di economia aziendale sono concordi nel ritenere che, affinché tale attività sia da considerare conveniente, l’imprenditore dovrebbe conseguire un utile almeno pari a questi ‘costi effettivi’, aumentati però di altri costi, detti ‘figurativi’ cioè computati ma non sostenuti realmente: gli interessi che in alternativa avrebbe potuto percepire con un investimento finanziario, il ‘salario direzionale’ che avrebbe potuto ottenere svolgendo l’attività lavorativa in un’altra impresa, il compenso per il rischio di perdita del capitale che corre nello svolgimento dell’attività imprenditoriale.
Se egli riesce però a vendere il prodotto ad un prezzo maggiore della somma dei costi effettivi e figurativi, il reddito conseguito va idealmente scomposto in due parti:
1) la parte corrispondente ai costi figurativi, che costituisce il profitto ‘equo’;
2) la parte eccedente, che costituisce ciò che il prof. Carlo Caramiello* eufemisticamente definisce profitto ‘più che equo’, ma che indiscutibilmente non può che significare ‘profitto iniquo’.

Il profitto: la controversia dei secoli XIX e XX

Il profitto è da lungo tempo il terreno di scontro fra partiti di destra e di sinistra, fra le associazioni degli imprenditori ed i sindacati operai. I liberisti vedono in esso la molla che spinge all’efficienza economica e alla produzione di maggiore ricchezza, mentre i socialisti ne sottolineano l’iniquità. I primi sostengono che esso è frutto delle ‘capacità organizzative’ dell’imprenditore, mentre per i secondi si tratta di un ‘furto del lavoro’, in quanto la trasformazione di una materia prima in un prodotti vendibili, pur tenendo conto delle spese generali e dei costi detti ‘figurativi’, è unicamente merito di chi ha materialmente operato quella trasformazione.

Tralasciamo per ora di approfondire questa controversia, per notare che la realizzazione di profitti notevolmente superiori alla somma degli interessi teorici sul capitale, del salario direzionale e del compenso sul rischio d’impresa producono in ogni caso una enorme sperequazione fra i redditi degli imprenditori e quelli dei lavoratori. I ben noti dati sulla distribuzione della ricchezza (il 10% delle famiglie che possiede il 45% dei beni) ne è una lampante, anche se indiretta, dimostrazione.
Contro queste distorsioni, denunciate come furto o ingiustizia, i partiti ed i sindacati operai si sono sempre battuti per un aumento dei salari ed un contenimento dei profitti, ma, dopo un periodo di successi ottenuti negli anni del boom economico, gli imprenditori sono riusciti, attraverso alcune scelte strategiche, a contenere, e più spesso a ridurre, i livelli salariali. Dagli anni ’90 le lotte sindacali sono state infatti neutralizzate mediante il ridimensionamento delle unità produttive (scorporazioni e lavorazioni affidate a terzi)** e la globalizzazione del mercato del lavoro (immigrazione e delocalizzazione).

Sindacati e forze politiche però, purtroppo, non tengono nella dovuta considerazione un’altra possibilità di intervento, per spiegare la quale torniamo all’esempio iniziale del costruttore di tavoli da salotto.
L’imprenditore spende un certo importo e ne incassa uno ben superiore. Bene, chi paga per acquistare tutti i beni prodotti? I possibili acquirenti saranno, è vero, anche altri imprenditori, per cui questi finiscono per derubarsi fra di loro; ma essi, da soli, non basterebbero ad acquistare tutti i prodotti; è necessario ampliare la platea dei potenziali consumatori agli stessi operai, i quali vengono così a subire una prima truffa al momento dello scambio fra lavoro e salario (nella fase della produzione) ed una seconda truffa nello scambio fra salario e merci (nella fase del consumo). Se i tavoli sono costati x euro ed il profitto ‘equo’ è stato valutato in y euro, perché non dovrebbero essere rivenduti al prezzo di x + y?

Qui entra in gioco il mercato, si dirà, con le sue leggi della domanda e dell’offerta, ormai ‘deificate’ dall’economia liberista come fossero leggi della natura, mentre in realtà sono leggi che risentono fortemente anche di fattori psicologici e sociali.
In effetti si è disposti a comprare a prezzi molto più alti del costo di produzione, perché il consumatore viene appositamente stimolato dalla pubblicità e soprattutto dal fenomeno sociale che il sociologo Thorstein Veblen mise ben in luce nella sua ‘Teoria della classe agiata’: la ricerca di prestigio sociale attraverso la competizione nei consumi (fenomeno per il quale rinvio ai tre articoli di settembre 2012 su questo blog).
Ricerca del prestigio e pubblicità sono due fenomeni che nascono separatamente. La prima nasce in epoche ormai remote, col sorgere di società bellicose in cui chi dimostra di essere capace di azioni coraggiose e predatorie (caccia, guerra ecc.) viene esentato dalle attività produttive e acquisisce il diritto di consumare ciò che altri producono; la pubblicità nasce invece con la società industriale e si sviluppa con i mezzi di comunicazione di massa. I due fattori determinanti nascono in momenti diversi, ma subito si integrano e cooperano allo stesso fine.

Il consumo critico

Buona parte dei messaggi pubblicitari si richiama allo stile di vita competitivo, cioè all’esibizione della proprietà di beni di lusso e all’ostentazione della capacità di consumo di beni superflui, entrambi strumenti di rispettabilità, onorabilità, prestigio. Se si acquista un certo tipo di beni o si fruisce di un certo tipo servizio, si dimostra di essere ‘superiori’ rispetto al parente, al vicino, all’amico, al collega di lavoro, persino rispetto a chi si incontra occasionalmente nei luoghi pubblici; questo è il messaggio dominante delle pubblicità. E la sistematica esibizione del corpo femminile*** non sfugge a questa logica, perché la prima forma di competizione fra gli uomini ‘predatori’ è stata quella di catturare, rapire, comprare, far sue le donne, in qualunque modo. Esibire una moglie bella ed elegante, o meglio ancora una o più amanti fascinose, dava e dà ancora grande prestigio; anzi spesso l’accumulazione di ricchezze è finalizzata proprio a questa conquista, oggi pacifica, delle donne, per le quali si diventa oggetto di ammirazione e di invidia. Di esempi del genere ne abbiamo tanti, basta guardarci intorno o riflettere sullo stile di vita di alcuni uomini alla ribalta nella cronache giornalistiche e televisive.

La competizione, indotta nei consumi da antichi abiti mentali e oggi rinvigorita dalla pubblicità, altera alcune leggi dell’economia, crea un eccesso di domanda che permette ai produttori e ai venditori di praticare prezzi irragionevoli. Un esperto informatico mi disse un giorno che le materie prime necessarie per fabbricare quello scatolone magico che era il mio primo computer (comprato nel 2000, con rate mensili, per oltre duemilioni di lire), avevano un valore commerciale di circa 40.000 lire; certo c’era da aggiungere il lavoro degli operai indocinesi, le spese di ricerca, il trasporto ecc., ma, come ci si arrivava a oltre duemilioni?
Per ristabilire un giusto equilibrio economico fra imprenditori e lavoratori, si può certo continuare con le lotte per gli aumenti salariali, ma a queste bisogna associare una maggiore consapevolezza negli acquisti. Evitiamo di comprare in un dato negozio solo perché è frequentato da persone ‘importanti’. Evitiamo di comprare vestiti che costano il doppio solo perché ci facciano fare bella figura. Evitiamo di andare in vacanza in una certa località solo per potercene poi vantare.
Ricordiamoci anche che la pubblicità costa e che, a pagarla, siamo noi lavoratori al momento dell’acquisto; paghiamo venendo inconsapevolmente imbrogliati – come si diceva in precedenza - una seconda volta: la prima volta quando riceviamo un salario basso, rispetto all’incremento di valore subito dalle materie prime nella trasformazione in prodotto finito; la seconda volta quando, invece di acquistare un tavolo a x + y euro nel negozietto di periferia, andiamo a comprarlo a x+y+z euro da un mobiliere che ha in esclusiva un tavolo, sempre sorretto da quattro gambe, ma per il quale siamo costantemente inondati dalla pubblicità..****

Note

.* Il prof. Carlo Caramiello è stato ordinario di Ragioneria nell’Università di Pisa e nella LUISS di Roma, presso la quale gli è stato intitolato l’Istituto di Studi Aziendali.

.** Il decentramento delle unità produttive, gli stabilimenti, allontanano fisicamente i lavoratori con conseguente indebolimento delle loro capacità di aggregazione culturale, sociale e politica.

*** v. ‘Pensiero critico’ - www.pensierocritico.it - di Patrizio Paolinelli, sezione Archivio, doc. “Guardami! Corpi femminili nell’immaginario della pubblicità”

.**** Da anni, ogni mattina, seguo su Radiotre la trasmissione ‘Prima pagina’. Fra la rassegna stampa e il filo diretto con gli ascoltatori c’è sempre qualche minuto di pubblicità, e da anni sono costretto ad ascoltare l’orrendo messaggio promozionale del software contabile della ditta Zucchetti, che chiude con l’invito finale di una voce femminile: “Zucchetti, e tu cosa aspetti?”. Adesso ho trovato il rimedio: spegnere la radio per pochi secondi. Ma sono sicuro che, molti commercialisti, quel software hanno comprato o… finiranno per comprarlo!
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sabato 12 gennaio 2013

Pasquale Saraceno, “Controcorrente”, Rossano, 2010


Brevi cenni biografici sull’autore riportati nelle alette e in quarta di copertina delle sue pubblicazioni.

Pasquale Saraceno, professore emerito e scrittore, proviene da un Casato presente a Rossano Calabro da ben 600 anni.
Dedica il suo tempo allo studio di saggi per trovarvi una risposta ai problemi di vario genere che lo assillano.
"Vive nascostamente", secondo il precetto di Epicuro, il grande saggio dell'antichità ingiustamente denigrato.
La critica è stata con lui piuttosto benevola, tanto che il sociologo Cataldo Marino ha potuto scrivere: "Il Prof. Pasquale Saraceno ai Rossanesi della mia generazione ha trasmesso l'amore per la cultura ed a tutti i concittadini ha fornito, col suo sobrio stile di vita, un nobile modello di riferimento".
In tutti i suoi libri è presente un forte anelito di un mondo migliore, che, secondo l’autore, solo le neuro-scienze possono realizzare quando riusciranno a trovare nella scatola cranica la fonte dell'egoismo ed, agendo su di essa, permetteranno agli uomini di amarsi come ai tempi del mitico Eden.

Opere pubblicate:

- "Un angelo di nome Lucia", ritratto-ricordo dell'adorata moglie scomparsa nel 1992, pubblicato a dicembre 1992, pagg. 142;
- "Riflessioni senilamare di un Rossanese", su problemi locali e non, pubblicato a luglio 1995, pagg. 277;
- "L'incolpevole", storia di una popolana bersagliata dalla sfortuna, pubblicato a luglio 1997, pagg. 295;
- "L'inganno", il Mostro presente in ogni ambito sociale, pubblicato a gennaio 2008, pagg. 303;
- "Controcorrente", mette in evidenza la credulità umana nel campo politico, etico e religioso, pubblicato a giugno 2010, pagg. 263.

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Dal libro “Controcorrente”
La fede consolatoria, cap. XXVI, pagg. 246-251

Tutti i popoli e tutti gli esseri umani hanno sempre cercato di evadere dalla realtà creando miti in grado di soddisfare il loro desiderio di sopravvivenza. Gli antichi egizi, i greci, i romani, per non parlare degli indiani e dei cinesi, hanno immaginato un futuro roseo riservato agli onesti, categoria a cui anche i furfanti credono di appartenere. Nessun individuo, infatti, si ritiene non degno di essere premiato: si aspira ad un compenso per i dolori sopportati nel corso della vita, ad un paradiso fatto di eterno godimento. Del resto, sognare non costa niente. Perfino la scrofa macilenta sogna le ghiande. Il giovinetto imberbe sogna una bella fanciulla, il povero la ricchezza, l'ammalato la salute, lo storpio un corpo perfetto, la donna brutta l'amore eterno, il generale la gloria, il sacerdote la porpora, la suora la santità. Io ogni giorno vagheggio una comunità di eguali, la messa al bando delle armi, la comprensione e l'amore tra i popoli, una società senza medici e senza giudici, una natura incontaminata. Vedo il lupo accompagnarsi con l'agnello, il gatto giocherellare col topo, il leone con la gazzella, la volpe con la cicogna. Vedo il bianco familiarizzare col nero, il cristiano col buddhista, il nobile col plebeo. Confesso che mi abbandono per ore a tali fantasie. Sul più bello però la ragione si sveglia e mi dice: Dio aveva il potere di creare questi legami tra le sue creature, perché non lo ha fatto? Per una parte almeno del creato non possiamo ricorrere alla giustificazione del peccato originale. Chi allora se non Dio avrebbe dato agli animali l'istinto di sbranarsi a vicenda? È assurdo però pensare che l'Essere supremo, bontà assoluta, abbia potuto determinare una situazione di perenne conflitto, che vede soccombere sempre il più debole. È molto più ragionevole, lo abbiamo messo già in evidenza, accettare la dottrina dell'evoluzionismo, che giustifica la ferocia con la necessità della sopravvivenza. Forse la pensava così anche San Francesco, che amava tanto gli animali e certo non se la sentiva di attribuire al Creatore la paternità di quell'istinto così ripugnante.
Abbandoniamoci allora al sogno, rifugiamoci in un mondo meraviglioso. Mi viene in mente una canzone di Rascel, il piccoletto, il quale cantava che con la fantasia si può ottenere tutto, anche l'intimità con la regina Elisabetta d'Inghilterra. Ma ne vale la pena?
C'è chi non sogna perché ha tutto e s'illude di essere un superuomo. Uno è il nostro caro, ineffabile Berlusconi. Che Iddio ce lo conservi a lungo! Ha perfino innumerevoli escort che allietano i suoi momenti di riposo, oltre naturalmente alla certezza di essere il miglior leader italiano di tutti i tempi. Dimenticavo: cosa sogna il Papa? Il potere, un potere assoluto, politico soprattutto, che gli consenta di guidare verso il bene, il suo bene, questa umanità smarrita.
Abbiamo già notato che le Sacre Scritture non sono esenti da contraddizioni e falsità. Ciò nonostante, su di esse si è modellata la civiltà dell'Occidente. È naturale il bisogno di credere in qualcosa che appaghi il desiderio di un antidoto alla durezza, alle ingiustizie, in una parola al male della vita. Si crede senza riflettere, soprattutto se si cresce in un ambiente dove la fede è patrimonio comune. A che serve ragionare, se la fede rappresenta un'immensa consolazione? Certo, i padri nobili della Chiesa hanno saputo creare un imponente e organico sistema, una teologia che hanno elevata al rango di vera scienza, ritenendo quella profana serva della teologia. Il merito di questa elaborazione va soprattutto alla filosofia scolastica e a San Tommaso in particolare, quello stesso che riteneva lecito uccidere un infedele. Si sa comunque che la teologia non nasce con la filosofia scolastica, ma prima, col vangelo di Giovanni, che parla del Figlio, del Verbo, parola creatrice di Dio. Nasce con le lettere di Paolo, con la Patristica, e si consolida dopo con gli studi di eminenti pensatori. Al centro di questo immane lavoro c'è la figura di Cristo, che è un personaggio gigantesco, un mito, opera dei discepoli, ammaliati certo dal suo carisma. Non conosceremo mai il Gesù storico. Lo abbiamo detto, e non è neanche necessario. E' quello dei vangeli che conduce ad una nuova forma di esistenza, come sostiene il teologo protestante Paul Tillach, che considera Gesù un simbolo. I vangeli non sono resoconti biografici, ma scritti teologici che esaltano il Cristo della fede. In altri termini, il cristianesimo non si fonda su prove storiche, sulle reali esperienze di Gesù, che non sono dimostrabili, ma sul suo messaggio. È questo che ha trasformato il mondo, non le elucubrazioni di quanti hanno creato una teologia che ha dato sì alla Chiesa un enorme potere, anche politico, ma l'ha allontanata dal cristianesimo delle origini a causa di concezioni arbitrarie contrastanti col pensiero e con l'azione di Gesù. Ciò non ha impedito alla Chiesa romana di estendere il suo dominio, perché i fedeli accettano acriticamente ciò che la Suprema Autorità stabilisce di volta in volta. Il corpo della Madonna si trova in Cielo, Dio è uno e trino, Cristo è uomo e Dio? Il cristiano non ha dubbi, perché lo ha stabilito il Papa, che è infallibile per autoproclamazione. Accetta tutto, e in compenso gli viene assicurata la sopravvivenza. Ci sono però degli individui che non sono disposti a chiudere gli occhi di fronte a certe assurdità. Se Gesù stesso si manifesta come uomo, perché considerarlo anche Dio? Chi prega Dio non è Dio. Chi sulla croce si lamenta di essere abbandonato da Dio non è Dio. È bene ribadire questo concetto già espresso nel capitolo precedente.
Queste riflessioni sono proprie di chi è dotato di senso critico, ma il fedele di modesta levatura mentale non avverte la necessità di fare chiarezza. Ed è forse meglio, perché, in assenza di dubbi, si ha una vita meno travagliata.
Nel Settecento, il secolo dei lumi, si pensava che la ragione potesse risolvere tutti i problemi dell'uomo. C'è chi sostiene ch'essa non ne ha risolto neanche uno. Abbandoniamoci dunque al sentimento e andiamo "dove ci porta il cuore". Siamo entusiasti del personaggio Gesù, quello dei vangeli? Ebbene, amiamolo, cerchiamo di attuare il suo messaggio, e forse saremo più sereni o, addirittura, felici.
Non si può negare che nel corso dei secoli la religione - ogni religione - abbia esercitato una funzione benefica, mitigando, i costumi e cercando di impedire la lotta di tutti contro tutti. Senza il suo influsso forse non ci sarebbe strato neanche il "Contratto sociale", l'impegno alla non belligeranza, al rispetto reciproco, dettato certo dall'interesse di ogni membro della comunità a sentirsi tutelato.
Gli uomini, in generale, si distinguono in due categorie. I conformisti sono quelli che, arruolati sotto una bandiera ideologica, la difendono, anche a costo di negare la realtà dei fatti. Gli "irregolari " - come li chiama Pierluigi Battista - sono quelli che privilegiano la ricerca della verità. Da una parte c'è dunque chi cerca la verità, dall'altra chi la ignora o la occulta per favorire la propria bandiera. Lasciamo ora da parte il campo politico a cui si riferisce Battista ed entriamo in quello religioso, dove notiamo una terza categoria di persone, gli indifferenti, i quali stanno a guardare senza scomporsi. In Italia è la più numerosa, dato che riguarda l'80 per cento dei cittadini. È amaro constatarlo. A volte l'indifferenza è dovuta a scarsa capacità mentale, quasi sempre a mancanza di interesse. Questa gente non merita infamia né lode e va lasciata vivere nella sua condizione quasi animalesca. Destano raccapriccio invece i conformisti, che sputano giudizi sprezzanti nei confronti di chi rifiuta le leggende e cerca la verità. Onore a quanti, allergici ad inutili quanto infondate disquisizioni teologiche, hanno capito che amare Dio significa amare il prossimo. È proprio questa la missione del cristiano. Si badi bene, amare il prossimo non significa esprimergli affetto a parole, ma aiutarlo, andare incontro ai suoi bisogni. Non c'è solo il problema dell'aldilà. Bisogna anche evitare che ci colga la disperazione, sempre possibile in questa "valle di lacrime".
Mi torna in mente - è non è la prima volta - madre Teresa di Calcutta, che, nella sua benefica ignoranza, badava, non a questioni di dottrina, ma ad alleviare sofferenze, a consolare afflitti. È un gran male che il suo resti un caso isolato. La donna sapeva benissimo che esiste un solo comandamento, quello dell'amore, da cui discendono tutti i doveri di un cristiano.
C'è tanto bisogno di comprensione, di amore. Non è solo la natura con i suoi ricorrenti cataclismi a sconvolgere la vita dell'uomo. Dobbiamo mettere in conto anche le malattie, la miseria, la fame. Non è proprio possibile essere ottimisti. I giovani, nella loro beata incoscienza forse lo sono, anche perché si sentono protetti dai genitori. Andando avanti negli anni, ci si rende conto che la gioia è solo una breve parentesi tra due dolori. Che fare? Abbandonarsi allo sconforto? No, assolutamente. Bisogna trovare la forza di reagire affidandosi all'illusione, al sogno. A me personalmente sono di grande sollievo alcuni versi del Pascoli, che leggo molto spesso. Come si sa, il poeta ebbe un'esistenza molto travagliata ed era anche pensoso dei misteri che ci circondano. Ciò nonostante, la sua poesia come nessun'altra ha il potere di farci sognare. Una meraviglia è "La mia sera", contenuta nei "Canti di Castelvecchio". Ascoltiamo:

"II giorno fu pieno di lampi,
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle..............
..................................
Nel giorno che lampi! Che scoppi!
..........................che pace la sera!
La nube del giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
                  nell'ultima sera".

Sogniamo, illudiamoci. Immaginiamo che alla fine della vita ci sarà una ricompensa per i giusti, e intanto cerchiamo di praticare la giustizia. Questo è necessario: ce lo impone la ragione. Eppure, nella cristianissima Italia i reati, nell'ultimo anno, sono aumentati, rispetto al precedente, del 229%. Non so proprio cosa pensare. L'egoismo, la sete di ricchezza nel XXI secolo sono cosi grandi che il freno della religione non è più in grado di ridurli. E "il Cielo inonda di un pianto di stelle quest'atomo opaco del male", la Terra cioè.
Chiudiamo ancora una volta gli occhi e sogniamo una società perfetta, oltre che una vita eterna. Saremo certamente più sereni, perché il sogno è la panacea di tutti i mali. Amen!


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“Controcorrente”: Un libro spirituale
Recensione dell’ultimo libro del Prof. Pasquale Saraceno
di Gianpiero Calabrò

Colui che si accinge a leggere il libro del Prof. Saraceno, “Controcorrente”, incorre facilmente nell'inganno di trovarsi di fronte ad un saggio, o pamphlet anticlericale o addirittura veterocomunista, con ascendenze anarchiche. L'A. in realtà, con gusto ironico, utilizzando alcuni scherzi retorici, lascia credere tutto ciò, per poi scioccare l'incauto lettore, che all'ultima pagina trova la confessione con cui l'A. si rivolge al Signore con queste parole: “Signore, la mente, la mia mente – questa povera mente – stanca e limitata – non ti riconosce. – Ma il cuore – il mio cuore – questo cuore – di eterno bambino – a Te anela – in Te s’accheta – solo in Te.”
E qui l’incauto lettore deve andare a ritroso per potere comprendere a pieno tutte le pagine precedenti. “Controcorrente” è un libro spirituale, un canto fatto con la ragione che nello svelare i tanti limiti e le ipocrisie di ieri e di oggi, emana poi un anelito, un bisogno di acquietarsi, come un bambino, nelle braccia del Signore.
Il volume, che per chi è stato suo alunno nei banchi del Liceo, fa risentire la voce severa dell’antico maestro, ravvivando così antiche ed intense atmosfere, si suddivide in dieci parti. La suddivisione ha una ragione sostanziale, perché rappresenta non un elemento storicistico e quindi cronologico, ma una specie di ascesa in cui il lettore è trascinato fino all’ultimo gradino, ove il velo dell’inganno viene strappato, per cogliere il vero (aleteia) nella sua essenza nuda e priva delle incrostazioni di cui le culture e il potere politico e religioso lo hanno impregnato.
La prima parte si apre con il caso di Eluana Englaro e quindi con il tema dell’eutanasia, in cui l’A. denuncia non solo l’accanimento terapeutico, le ipocrisie e le violenze di uomini politici e di Chiesa, ma, si sofferma sulla caducità della vita e sul desiderio di una fine indolore e serena. La prima parte si chiude, così, con la critica alla invadenza della gerarchia ecclesiastica, che scende in campo in politica e si compromette con i ricchi e i potenti. Tutto ciò lo porta alla riflessione evangelica, secondo la quale Gesù tutto perdonava ai poveri e nulla ai ricchi, “... che entreranno in paradiso meno facilmente di un cammello desideroso di attraversare la cruna di un ago.”
Nei capitoli immediatamente successivi alla condanna di ogni stupidità e superstizione, segue l’esaltazione dell’intelligenza, intesa come uso ragionevole della ratio. Un afflato, questo, che sembra di sapore illuministico. Anche se privato degli impeti rivoluzionari e degli eccessi giacobini. Vi predomina, semmai, l’atmosfera di un secolo dei lumi di un Voltaire, piuttosto che quello di Rousseau, un razionalismo lieve e leggero, che si guarda persino dal cadere nell’errore di assolutizzare se stesso. Con questo strumentario ermeneutico, il Prof. Saraceno (non riesco a dimenticare il ruolo da lui avuto sulla mia formazione, essendogli cucito con il crisma sacramentale) esamina e, con amara ironia, demolisce alcuni episodi recenti e passati di credulità e superstizione. Con la lama di un affilato rasoio di Occam, sfronda quelle che, marxianamente, venivano chiamate sovrastrutture. Da ciò la disamina delle aberrazioni di cui si sono macchiati gli integralismi religiosi con i loro effetti nefasti, che hanno prodotto complessi di colpa in intere generazioni, o guerre fratricide che hanno insanguinato le strade della stessa civilissima Europa. Nelle ultime parti l’occhio dell A. si fissa sui tempi di oggi, sulla politica spettacolo e corrotta, sul governo della Chiesa cattolica dopo Giovanni Paolo II, e, di fronte ad uno spettacolo così desolante, riesce a cogliere, tra le tenebre, qualche barlume. Da qui I’ultimo capitolo che, molto opportunamente, viene intitolato l’ “approdo”.
Ricordando la figura leopardiana del venditore di almanacchi, le pagine si riempiono di rimpianti e speranze, anzi in queste ultime la speranza in un tempo migliore, che superi le tragedie prodotte dalla superstizione e dall'ignoranza, diventa predominante e la stessa critica mossa al clero cattolico, viene condotta in nome di un autentico cristianesimo delle origini, in cui si staglia la figura di Cristo, in realtà tradito dai suoi stessi seguaci. Le riflessioni sulla vita e sulla morte, il lamento infinito sulle pene del mondo non devono far credere che l'unica via, l'unico fatale esito siano lo sconforto e la disperazione. C'è ancora una via d’uscita, una via che l'A. indica nella "poesia", e qui scopre tutta la sua umanità ritornando all'antica veste di docente. Infatti scrive: "Bisogna trovare la forza di reagire affidandosi all'illusione, al sogno". La poesia, forza vitale, è capace di cancellare il nero della storia umana e, nello stesso tempo, dare conforto. Un conforto che non può essere inteso, però, in modo meramente consolatorio, come l'atteggiamento di chi, di fronte al male e alle grandi tragedie dell'esistenza, si nasconde, per timore di guardare in faccia la realtà. L'illusione, il sogno di cui scrive Saraceno, è la capacità, (oserei dire rivoluzionaria) dell'homo novus, che, ormai libero dall'ignoranza e dalla superstizione, è consapevole della caducità della vita e guarda con serenità e pace al suo inevitabile compimento. E, in queste pagine finali del libro, fanno capolino i versi de “La mia sera” di Giovanni Pascoli, un poeta che il Prof. Saraceno mi ha fatto amare sui banchi del Liceo. La poesia del Pascoli, scrive l'A., ha il potere di farci sognare. La sobrietà, l'antiretorica, propria della poesia pascoliana, contraddistinguono così tutte le pagine di questo saggio. Si è detto all’inizio che si tratta di un viaggio, di un lungo viaggio attraverso la storia di ieri e di oggi, alla ricerca della verità. Ma qui occorre che il lettore sia molto accorto: la verità per l'A. è un processo di s-velamento, un togliere i veli che ammantano la realtà, alla maniera della filosofia presocratica. L'analisi critica, feroce e a volte sarcastica, non gli serve per demolire e guardare, poi, compiaciuto le macerie prodotte. In realtà, con l'arma affilata della sua critica, egli riesce, comunque, nel buio della notte, ad accendere una pur flebile luce, che possa dare speranza ed indicare il cammino. E, infatti, il suo impegno pedagogico in tutte queste pagine non viene mai meno. Nel lettore egli rivede, così, i suoi studenti, e ancora una volta parla loro con il cuore in mano, con lo stile asciutto e privo di enfasi, con la lucidità di chi ha sempre avuto sete di conoscere e di chi ha creduto nella forza e nella capacità della ragione. Non a caso, nell'accomiatarsi dai suoi lettori, confessa che il suo "...idolo resta, comunque, Gesù, incompreso dai più e tradito da molti". Una confessione, questa, che, come ho detto all'inizio, trasfigura le pagine di questo bel saggio, che giunte a questo punto, trasudano di quella intensa spiritualità, che rasserenando prepara il momento (che ci auguriamo sia sempre più lontano!) del commiato.

Gianpiero Calabrò
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