giovedì 17 gennaio 2013

Salari e consumi, i due fronti della lotta di classe

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Premessa: profitto ‘equo’ e profitto ‘iniquo'.

Supponiamo che Tizio decida di costituire una piccola impresa per la produzione di tavoli da salotto, sostenendo costi speciali per materie prime e lavoro e costi generali per fitti, logorio dei macchinari, elettricità, trasporto, pubblicità ecc..
Gli studiosi di economia aziendale sono concordi nel ritenere che, affinché tale attività sia da considerare conveniente, l’imprenditore dovrebbe conseguire un utile almeno pari a questi ‘costi effettivi’, aumentati però di altri costi, detti ‘figurativi’ cioè computati ma non sostenuti realmente: gli interessi che in alternativa avrebbe potuto percepire con un investimento finanziario, il ‘salario direzionale’ che avrebbe potuto ottenere svolgendo l’attività lavorativa in un’altra impresa, il compenso per il rischio di perdita del capitale che corre nello svolgimento dell’attività imprenditoriale.
Se egli riesce però a vendere il prodotto ad un prezzo maggiore della somma dei costi effettivi e figurativi, il reddito conseguito va idealmente scomposto in due parti:
1) la parte corrispondente ai costi figurativi, che costituisce il profitto ‘equo’;
2) la parte eccedente, che costituisce ciò che il prof. Carlo Caramiello* eufemisticamente definisce profitto ‘più che equo’, ma che indiscutibilmente non può che significare ‘profitto iniquo’.

Il profitto: la controversia dei secoli XIX e XX

Il profitto è da lungo tempo il terreno di scontro fra partiti di destra e di sinistra, fra le associazioni degli imprenditori ed i sindacati operai. I liberisti vedono in esso la molla che spinge all’efficienza economica e alla produzione di maggiore ricchezza, mentre i socialisti ne sottolineano l’iniquità. I primi sostengono che esso è frutto delle ‘capacità organizzative’ dell’imprenditore, mentre per i secondi si tratta di un ‘furto del lavoro’, in quanto la trasformazione di una materia prima in un prodotti vendibili, pur tenendo conto delle spese generali e dei costi detti ‘figurativi’, è unicamente merito di chi ha materialmente operato quella trasformazione.

Tralasciamo per ora di approfondire questa controversia, per notare che la realizzazione di profitti notevolmente superiori alla somma degli interessi teorici sul capitale, del salario direzionale e del compenso sul rischio d’impresa producono in ogni caso una enorme sperequazione fra i redditi degli imprenditori e quelli dei lavoratori. I ben noti dati sulla distribuzione della ricchezza (il 10% delle famiglie che possiede il 45% dei beni) ne è una lampante, anche se indiretta, dimostrazione.
Contro queste distorsioni, denunciate come furto o ingiustizia, i partiti ed i sindacati operai si sono sempre battuti per un aumento dei salari ed un contenimento dei profitti, ma, dopo un periodo di successi ottenuti negli anni del boom economico, gli imprenditori sono riusciti, attraverso alcune scelte strategiche, a contenere, e più spesso a ridurre, i livelli salariali. Dagli anni ’90 le lotte sindacali sono state infatti neutralizzate mediante il ridimensionamento delle unità produttive (scorporazioni e lavorazioni affidate a terzi)** e la globalizzazione del mercato del lavoro (immigrazione e delocalizzazione).

Sindacati e forze politiche però, purtroppo, non tengono nella dovuta considerazione un’altra possibilità di intervento, per spiegare la quale torniamo all’esempio iniziale del costruttore di tavoli da salotto.
L’imprenditore spende un certo importo e ne incassa uno ben superiore. Bene, chi paga per acquistare tutti i beni prodotti? I possibili acquirenti saranno, è vero, anche altri imprenditori, per cui questi finiscono per derubarsi fra di loro; ma essi, da soli, non basterebbero ad acquistare tutti i prodotti; è necessario ampliare la platea dei potenziali consumatori agli stessi operai, i quali vengono così a subire una prima truffa al momento dello scambio fra lavoro e salario (nella fase della produzione) ed una seconda truffa nello scambio fra salario e merci (nella fase del consumo). Se i tavoli sono costati x euro ed il profitto ‘equo’ è stato valutato in y euro, perché non dovrebbero essere rivenduti al prezzo di x + y?

Qui entra in gioco il mercato, si dirà, con le sue leggi della domanda e dell’offerta, ormai ‘deificate’ dall’economia liberista come fossero leggi della natura, mentre in realtà sono leggi che risentono fortemente anche di fattori psicologici e sociali.
In effetti si è disposti a comprare a prezzi molto più alti del costo di produzione, perché il consumatore viene appositamente stimolato dalla pubblicità e soprattutto dal fenomeno sociale che il sociologo Thorstein Veblen mise ben in luce nella sua ‘Teoria della classe agiata’: la ricerca di prestigio sociale attraverso la competizione nei consumi (fenomeno per il quale rinvio ai tre articoli di settembre 2012 su questo blog).
Ricerca del prestigio e pubblicità sono due fenomeni che nascono separatamente. La prima nasce in epoche ormai remote, col sorgere di società bellicose in cui chi dimostra di essere capace di azioni coraggiose e predatorie (caccia, guerra ecc.) viene esentato dalle attività produttive e acquisisce il diritto di consumare ciò che altri producono; la pubblicità nasce invece con la società industriale e si sviluppa con i mezzi di comunicazione di massa. I due fattori determinanti nascono in momenti diversi, ma subito si integrano e cooperano allo stesso fine.

Il consumo critico

Buona parte dei messaggi pubblicitari si richiama allo stile di vita competitivo, cioè all’esibizione della proprietà di beni di lusso e all’ostentazione della capacità di consumo di beni superflui, entrambi strumenti di rispettabilità, onorabilità, prestigio. Se si acquista un certo tipo di beni o si fruisce di un certo tipo servizio, si dimostra di essere ‘superiori’ rispetto al parente, al vicino, all’amico, al collega di lavoro, persino rispetto a chi si incontra occasionalmente nei luoghi pubblici; questo è il messaggio dominante delle pubblicità. E la sistematica esibizione del corpo femminile*** non sfugge a questa logica, perché la prima forma di competizione fra gli uomini ‘predatori’ è stata quella di catturare, rapire, comprare, far sue le donne, in qualunque modo. Esibire una moglie bella ed elegante, o meglio ancora una o più amanti fascinose, dava e dà ancora grande prestigio; anzi spesso l’accumulazione di ricchezze è finalizzata proprio a questa conquista, oggi pacifica, delle donne, per le quali si diventa oggetto di ammirazione e di invidia. Di esempi del genere ne abbiamo tanti, basta guardarci intorno o riflettere sullo stile di vita di alcuni uomini alla ribalta nella cronache giornalistiche e televisive.

La competizione, indotta nei consumi da antichi abiti mentali e oggi rinvigorita dalla pubblicità, altera alcune leggi dell’economia, crea un eccesso di domanda che permette ai produttori e ai venditori di praticare prezzi irragionevoli. Un esperto informatico mi disse un giorno che le materie prime necessarie per fabbricare quello scatolone magico che era il mio primo computer (comprato nel 2000, con rate mensili, per oltre duemilioni di lire), avevano un valore commerciale di circa 40.000 lire; certo c’era da aggiungere il lavoro degli operai indocinesi, le spese di ricerca, il trasporto ecc., ma, come ci si arrivava a oltre duemilioni?
Per ristabilire un giusto equilibrio economico fra imprenditori e lavoratori, si può certo continuare con le lotte per gli aumenti salariali, ma a queste bisogna associare una maggiore consapevolezza negli acquisti. Evitiamo di comprare in un dato negozio solo perché è frequentato da persone ‘importanti’. Evitiamo di comprare vestiti che costano il doppio solo perché ci facciano fare bella figura. Evitiamo di andare in vacanza in una certa località solo per potercene poi vantare.
Ricordiamoci anche che la pubblicità costa e che, a pagarla, siamo noi lavoratori al momento dell’acquisto; paghiamo venendo inconsapevolmente imbrogliati – come si diceva in precedenza - una seconda volta: la prima volta quando riceviamo un salario basso, rispetto all’incremento di valore subito dalle materie prime nella trasformazione in prodotto finito; la seconda volta quando, invece di acquistare un tavolo a x + y euro nel negozietto di periferia, andiamo a comprarlo a x+y+z euro da un mobiliere che ha in esclusiva un tavolo, sempre sorretto da quattro gambe, ma per il quale siamo costantemente inondati dalla pubblicità..****

Note

.* Il prof. Carlo Caramiello è stato ordinario di Ragioneria nell’Università di Pisa e nella LUISS di Roma, presso la quale gli è stato intitolato l’Istituto di Studi Aziendali.

.** Il decentramento delle unità produttive, gli stabilimenti, allontanano fisicamente i lavoratori con conseguente indebolimento delle loro capacità di aggregazione culturale, sociale e politica.

*** v. ‘Pensiero critico’ - www.pensierocritico.it - di Patrizio Paolinelli, sezione Archivio, doc. “Guardami! Corpi femminili nell’immaginario della pubblicità”

.**** Da anni, ogni mattina, seguo su Radiotre la trasmissione ‘Prima pagina’. Fra la rassegna stampa e il filo diretto con gli ascoltatori c’è sempre qualche minuto di pubblicità, e da anni sono costretto ad ascoltare l’orrendo messaggio promozionale del software contabile della ditta Zucchetti, che chiude con l’invito finale di una voce femminile: “Zucchetti, e tu cosa aspetti?”. Adesso ho trovato il rimedio: spegnere la radio per pochi secondi. Ma sono sicuro che, molti commercialisti, quel software hanno comprato o… finiranno per comprarlo!
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