venerdì 24 maggio 2019

Jeremy Rifkin: "Produttività e Fine del lavoro" (2004)

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Da circa un paio d'anni seguo, soprattutto su You Tube, conferenze e interviste dell'acuto e simpatico sociologo del lavoro Prof. Domenico De Masi, dalle cui ricerche il M5S ha tratto le più serie motivazioni per far approvare la legge sul reddito di cittadinanza.
Da qualche settimana ho invece intercettato su internet due libri del Prof. Jeremy Rifkin, economista e consulente di vari capi di governo (Germania, Italia, Cina ecc.), il quale già nel 1995 sosteneva che la robotica e l'informatica, utilizzate sempre più dalle imprese per comprimere velocemente e inesorabilmente i costi di produzione, segneranno la riduzione del lavoro - sia manuale che intellettuale! - a percentuali prossime allo zero.
Tutti sappiamo che un allarmismo simile ci fu all'inizio della prima rivoluzione industriale e che tale allarmismo risultò poi ingiustificato. C'è oggi però qualcosa di nuovo, che rende più realistico il pericolo di una "disoccupazione di massa", e ciò dovrebbe risultare abbastanza chiaro da due paragrafi della Introduzione, che Rifkin fece per la riedizione del suo "The End of Work" del 2004 e che riporto qui di seguito.
Il libro di 574 pagine, edito in Italia dalla Mondadori, è attualmente disponibile sul mercato solo in formato e-book al prezzo di € 7,99, ma se ne può effettuare il download integrale dal sito www.scribd.com
C.M.

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Il rebus della produttività (pagg. XVIII-XXIV)

Nonostante una crescita dell’economia pari al 2,8% nel 2002 e una rapida crescita del 4,7% della produttività del lavoro, più di un milione di lavoratori è fuoriuscito dal mercato occupazionale nell’ultimo anno (l'autore si riferisce al 2003). Essi, semplicemente, hanno smesso di cercare lavoro e non sono più conteggiati, perciò, come disoccupati.
Perché questi posti di lavoro sono scomparsi? Alcuni imputano l’aumento della disoccupazione al costo del lavoro più basso e alle importazioni a più buon mercato, e se la prendono con le aziende statunitensi per aver trasferito la produzione e i servizi a sud del confine o oltremare.
Per quanto ci sia del vero in questo, la causa più profonda della diffusione della disoccupazione in America e nel resto del mondo consiste nel vertiginoso aumento della produttività. La vecchia logica secondo la quale le acquisizioni e i conseguenti vantaggi della tecnologia fanno scomparire vecchie occupazioni ma ne creano a loro volta altrettante di nuove non è più vera. Si è sempre guardato alla produttività come al motore che genera occupazione e prosperità.

Gli economisti sostengono da tempo che la produttività permette alle aziende di fabbricare una maggiore quantità di beni a costi inferiori; che beni meno costosi, a loro volta, stimolano la domanda; che l’aumento della domanda porta a produzione e produttività maggiori, i quali, a loro volta, aumentano ancor più la domanda, in un ciclo senza fine. E così, anche se le innovazioni tecnologiche nel breve periodo eliminano parte della forza lavoro, il picco della domanda di prodotti meno costosi assicurerà più posti di lavoro di bassa specializzazione per venire incontro ai cicli di produzione in espansione. E anche se i progressi tecnologici hanno come conseguenza massicci licenziamenti, le schiere dei disoccupati cresceranno fino a deprimere i salari a un punto tale che sarà meno costoso riassumere i lavoratori piuttosto che investire in nuove tecnologie laborsaving.
 
Il problema è che questo principio cardine della teoria economica capitalistica non sembra più applicabile. La produttività cresce rapidamente negli USA e, a ogni aumento, un numero maggiore di lavoratori perde il posto. Secondo un rapporto sulla produttività delle prime cento aziende del Paese appena reso noto, ora ci vogliono solo nove lavoratori per produrre quello che producevano dieci lavoratori nel marzo del 2001. William V. Sullivan, senior economist della Morgan Stanley, afferma che «i cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro››, in particolare i progressi nella crescita della produttività e l’introduzione di nuova tecnologia laborsaving, potrebbero «essere di ostacolo a nuove assunzioni». Richard D. Rippe, chief economist della Prudential Securities, concorda, asserendo che «possiamo produrre di più senza aggiungere molta manodopera».

Edmund Andrews, del «New York Times», riassume la crisi dell’occupazione che gli USA e tutti gli altri Paesi hanno di fronte, osservando che la continua diminuzione dell'ammontare delle retribuzioni, nonostante la rapida crescita economica, «è dovuta in primo luogo a uno straordinario aumento della produttività, che ha consentito alle aziende di produrre una quantità molto superiore di beni con l'apporto di molte meno persone››.
Nel novembre 2003 Alliance Capital Management ha pubblicato uno studio rivelatore sul lavoro manifatturiero nelle venti maggiori economie mondiali che ha reso evidente la correlazione tra gli aumenti di produttività e la spaventosa scomparsa dell’impiego in fabbrica. Secondo lo studio, 31 milioni di posti di lavoro in questo campo sono stati eliminati tra 1995 e 2002. L'occupazione nel comparto manifatturiero è diminuita anno dopo anno in ogni regione del mondo. Il calo dell'occupazione è avvenuto nel periodo in cui la produttività del comparto è cresciuta del 4,3% e la produzione industriale globale di oltre il 30%. L’incredibile aumento della produttività ha consentito alle aziende di produrre molti più beni con molta meno manodopera. L'occupazione nel comparto manifatturiero, in tutto il mondo, è diminuita di circa il 16%. Gli USA hanno perso più dell'11% dei loro posti.

La maggior parte degli americani e molti europei imputano la diminuzione dei posti di lavoro nel comparto manifatturiero alla crescita impetuosa dell’economia della Cina. Mentre la Cina produce ed esporta una percentuale molto più alta di beni, lo studio ha scoperto che la manodopera cinese del manifatturiero viene eliminata in massa. Tra 1995 e 2002, la Cina ha perso più di 15 milioni di posti di lavoro nel settore, pari al 15% della sua forza lavoro totale nel comparto. Come in ogni altra regione del mondo, le aziende manifatturiere cinesi stanno aumentando la produzione, e così hanno bisogno di molta meno manodopera. Se il tasso attuale di decremento è destinato a durare - ed è più che probabile una sua accelerazione - l’occupazione globale nel comparto manifatturiero diminuirà dagli attuali 163 milioni di posti di lavoro a solo qualche milione nel 2040, mettendo virtualmente fine nel mondo all'era del lavoro di massa in fabbrica.

Il modo migliore per cogliere l”enormità di questo cambiamento del lavoro in fabbrica è guardare a una singola industria. L’industria dell'acciaio negli USA è un tipico esempio della transizione che sta ora avendo luogo. Negli ultimi venti anni, la produzione industriale americana di acciaio è cresciuta da 75 milioni di tonnellate a 102 milioni. Nello stesso arco di tempo, dal 1982 al 2002, il numero di lavoratori dell’acciaio negli USA si è ridotto da 289.000 a 74.000. Le aziende dell'acciaio, come tutte le aziende manifatturiere del mondo, stanno producendo di più con molta meno manodopera, grazie ai vertiginosi aumenti di produttività. «Anche se il comparto manifatturiero riuscirà a mantenere la sua quota nel PIL››, dice l'economista della University of Michigan Donald Grimes, «è probabile che continueremo a perdere posti di lavoro a causa della crescita della produttività». Grimes lamenta che ci sia poco da fare. «È come tentare di avanzare contro un terribile vento».

L'industria dei servizi e dei colletti bianchi sta affrontando simili fenomeni di perdita di posti di lavoro, mentre le tecnologie intelligenti aumentano la produttività e si vengono sempre più a sostituire ai lavoratori. Il sistema bancario, quello assicurativo e il commercio all'ingrosso e al dettaglio stanno introducendo tecnologie intelligenti in ogni settore delle loro operazioni, eliminando rapidamente personale di supporto nel processo.
Gli osservatori dell’industria si aspettano un calo di lavoro dei colletti bianchi che metterà in ombra quello del comparto manifatturiero nel corso dei prossimi quarant'anni, mentre aziende, interi settori industriali e l’economia mondiale saranno collegati in una rete neurale (di neuroni artificiali) globale. Sensori dai costi trascurabili - piccoli processori - stanno facendo la loro comparsa su tutto, dai prodotti di drogheria agli organi umani, mettendo in connessione il mondo intero in una rete ininterrotta di continuo scambio di idee e di informazioni. Paul Saffo, direttore dell’Institute for the Future, a Menlo Park, in California, osserva che «negli anni Ottanta si facevano affari tra persone che parlavano con altre persone - ora tra macchine che parlano con altre macchine».

Conversazioni tra macchine si accompagnano sempre più a conversazioni tra esseri umani e macchine. La tecnologia del riconoscimento vocale è già molto avanzata e continuerà a sostituire le conversazioni tra le persone. Nuovo software per computer sta perfino perfezionando l'abilità delle macchine nel tradurre conversazioni da una lingua all’altra in tempo reale. Come per il comparto manifatturiero, ci si aspetta che le tecnologie intelligenti riducano la forza lavoro dei colletti bianchi e dei servizi a una frazione delle sue attuali dimensioni, mentre la rivoluzione della comunicazione digitale collega ogni cosa sul pianeta in reti intelligenti incorporate in un’unica griglia globale.

Qui sta il rebus. Se gli straordinari progressi nella produttività, nella forma di una tecnologia meno costosa e di più efficienti metodi di organizzazione del lavoro, possono sempre più prendere il posto dell’operare dell'uomo - con la fuoriuscita di un maggior numero di persone dal mondo del lavoro come risultato - da dove verrà la domanda di beni di consumo sufficiente a comprare tutti i nuovi prodotti e i servizi potenziali resi disponibili dall’aumento della produttività?
Per un certo periodo il credito al consumo, la bolla di sapone del mercato azionario e il rifinanziamento delle ipoteche sulla casa hanno permesso ai lavoratori disoccupati o sottoccupati di continuare ad acquistare. Ora che il credito è saturo, che la bolla del mercato azionario è scoppiata e che i tassi di interesse delle ipoteche sulla casa stanno salendo, siamo costretti ad affrontare una contraddizione inerente al cuore stesso del sistema capitalistico, presente dall’inizio, ma che solo ora sta diventando inconciliabile.

Il capitalismo di mercato è in parte costruito sulla logica della riduzione dei costi del fattore produttivo, incluso il costo del lavoro, al fine di creare margini di profitto. C'è una continua ricerca di nuove tecnologie meno costose e più efficienti per abbattere i salari o eliminare del tutto la manodopera umana. Ora, le nuove tecnologie intelligenti possono sostituire buona parte del lavoro umano - sia fisico sia intellettuale. Se l'introduzione di nuove tecnologie laborsaving e timesaving ha aumentato considerevolmente la produttività, ciò è stato raggiunto solo a spese di un numero maggiore di lavoratori emarginati in impieghi part-time o a cui è stata consegnata la lettera di licenziamento. Una forza lavoro contratta, comunque, significa reddito ridotto, domanda di beni di consumo ridotta e un’economia incapace di crescere. Questa è la nuova realtà strutturale che il governo, i leader del mondo degli affari e tanti economisti sono riluttanti a riconoscere.

La fine del lavoro (XXIV-XXVI)

L'economia globale è al centro di un radicale mutamento della natura del lavoro, con grandi conseguenze per il futuro della società. Nell'Era Industriale, una forza lavoro umana di massa operava fianco a fianco con le macchine per produrre beni e servizi di base. Nell'Era dell’Accesso, macchine intelligenti, nella forma di software per computer, robotica, nanotecnologia e biotecnologia, hanno progressivamente sostituito il lavoro umano nell’agricoltura, nei comparti dell'industria e dei servizi.
Aziende agricole, fabbriche e molte ditte di colletti bianchi addetti ai servizi si sono rapidamente automatizzate. Sempre più lavoro fisico e intellettuale, dalle mansioni umili e ripetitive a quelle specializzate di alto concetto, sarà svolto nel ventunesimo secolo da macchine pensanti meno costose e più efficienti. Probabilmente i lavoratori meno costosi del mondo non saranno tanto a buon mercato come la tecnologia che verrà online a sostituirli.

Alla metà del ventunesimo secolo, la sfera degli scambi avrà i mezzi tecnologici e la capacità organizzativa per fornire beni e servizi di base a una crescente popolazione mondiale usando una frazione della forza lavoro impiegata al presente. Entro il 2050 forse si avrà bisogno solo del 5% della popolazione adulta per gestire e rendere operativa la tradizionale sfera industriale. Aziende agricole, fabbriche e uffici semivuoti saranno la norma in ogni Paese.
Pochi tra i chief executive officers con i quali parlo pensano che per produrre beni e servizi convenzionali tra cinquant’anni occorreranno quantità di lavoro umano di massa. Di fatto tutti credono che la tecnologia intelligente sarà la forza lavoro del futuro.

Naturalmente, la nuova era porterà con sé ogni genere di nuovi beni e servizi che, a loro volta, richiederanno nuove abilità occupazionali, soprattutto nell’arena della conoscenza più sofisticata. Questi nuovi posti di lavoro, tuttavia, per loro natura, saranno rari ed elitari. Non vedremo mai più migliaia di lavoratori affollarsi all’uscita dai cancelli della fabbrica e dai centri di servizi come succedeva nel ventesimo secolo.
Anche le mansioni professionali più specializzate sono sempre più vulnerabili alla sostituzione tecnologica. Una sofisticata tecnologia diagnostica sta prendendo il posto di esami clinici altamente specializzati in precedenza svolti da medici, infermieri e tecnici. La progettazione computerizzata ha eliminato molti disegnatori tecnici e ingegneri. Nuovi programmi software sono subentrati a molto lavoro standard in precedenza svolto da contabili. Mentre saranno sempre ricercati i professionisti più brillanti, quelli di livello ordinario nella maggior parte delle discipline saranno con ogni probabilità eliminati dalla forza lavoro quando la tecnologia intelligente si dimostrerà un’alternativa più adeguata, rapida ed economica. La forza lavoro in futuro sarà sempre più specializzata e ricercata.

L'Era Industriale mise fine al lavoro degli schiavi. L’Era dell’Accesso metterà fine al lavoro salariato di massa. Questa è l’occasione e la sfida che l’economia mondiale ha di fronte, mentre ci muoviamo nella nuova era della tecnologia intelligente. Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo Rinascimento per la razza umana o portare a una grande divisione e allo sconvolgimento sociale. La questione centrale è: che cosa facciamo dei milioni di giovani lavoratori di cui si avrà poco o nessun bisogno in un'economia globale sempre più automatizzata?
Davanti a noi ci sono diverse opzioni su come guardare al futuro dell’occupazione. Ognuna di esse richiede un certo sforzo di immaginazione: per esempio la disponibilità sia a ripensare la vera natura del lavoro, sia a esplorare modi alternativi per gli esseri umani di definire il proprio ruolo e contributo nei confronti della società nel secolo appena arrivato.

    Jeremy Rifkin
    "La Fine del Lavoro" - 2004