mercoledì 24 novembre 2010

Berlinguer-Gelmini. Il filo nero

Non volevo più parlare di scuola: ad essa avevo dedicato praticamente tutta la vita, dai 3 ai 22 anni dietro i banchi e dai 22 ai 57 dietro la cattedra. Adesso, passati altri cinque anni, gli statistici dicono che me ne resterebbero ancora diciotto, ma io non ne sono più tanto sicuro, perché già molti coetanei sono andati via, di là.
Dal '99 al 2005, prima di andare in pensione, avevo combattuto come l’ultimo giapponese per evitare che questa istituzione toccasse il livello più basso del progressivo degrado a cui avevo assistito. Ho lasciato traccia di questa battaglia in un breve saggio e in una serie di articoli, tutti reperibili sul sito dell’Unicobas e qualcuno su quello della Gilda degli Insegnanti o di Scribd, ed ero fermamente intenzionato a non ritornare sull’argomento, per la delusione e il disgusto che avevano accompagnato il mio addio a quei gradini della scuola, che negli ultimi anni avevo finito per percepire come “duro calle”.

Ma ora, sia pur per un giorno, ci ritorno, ci devo ritornare, perché siamo all’ultimo atto della sua distruzione. Come un nodo scorsoio, si chiude il cerchio: da Riccardo Misasi (1970-72), lungo una sfilza di ministri democristiani abituati ad assecondare la “primarizzazione” di tutte le scuole (1973-98), si arriva al mortificatore massimo degli insegnanti Luigi Berliguer (1998-2000) e poi alle due donne cui egli lascerà il testimone, prima la Moratti (2001-2006) e poi Mariastella Gelmini (2008-2010).

Ricordo i tempi in cui le direttive di Riccardo Misasi invitavano gli insegnanti a derogare dai loro precisi doveri istituzionali, promuovendo tutti gli alunni a prescindere dal loro impegno. E ricordo poi i tempi più recenti in cui Luigi Berlinguer - cugino di Enrico, incredibile! - iniziò, con una serie di piccoli provvedimenti, premeditati in funzione di un unico disegno, a rompere il comune spirito degli insegnanti, per assoggettarli come servi della gleba ai feudi, assegnati con dubbie procedure concorsuali ai dirigenti scolastici, spesso amici dei dirigenti dei vari partiti e dei vari sindacati.

Se la “riduzione culturale” degli alunni era stata perpetrata da un ministro democristiano condizionato dalla sinistra, all’umiliazione degli insegnanti penserà un ministro diessino, fuorviato da una malintesa idea di meritocrazia. Un’idea mutuata dall’inossidabile Silvio, il quale, prendendo ad esempio la sua stessa vita, sostiene di essere diventato l’uomo più ricco in quanto il più intelligente e più operoso: l’equivalenza è per lui quasi matematica.

Una volta fatto il cambio della guardia al governo nel 2001 da Amato a Berlusconi, e passato il testimone della P.I. da Luigi Berlinguer alla Moratti e poi alla Gelmini, come potevano, queste ultime due contrapporsi al predecessore? Per farlo avrebbero dovuto smentire le loro stesse idee. L’amico Luigi aveva loro consegnato su un vassoio d’argento tutti gli ingredienti per il loro piatto preferito: dare ai titolari di ogni feudo scolastico il potere di determinare il posizionamento economico e sociale degli insegnanti e, con questo, rendere tutti costoro dei sudditi silenziosi e timorosi.

Con questo sistema era chiaro che gli ultimi sarebbero diventati i primi e i primi gli ultimi. Quegli insegnanti, che avevano poco da fare con la loro disciplina o avevano poca voglia di dedicarsi alla didattica sono stati i primi a giurare fedeltà al feudatario. Mentre tutti quelli che troppo si erano inorgogliti per un’interpretazione zelante del loro ruolo, e per tale orgoglio si erano tenuti lontani dal “castello”, se non si auto-emarginavano venivano emarginati.

Perché i provvedimenti attuali della signora Gelmini sono da considerare l’ultimo, conclusivo, atto di distruzione della scuola italiana? In via sperimentale, in alcune scuole essi assegnano ad una Commissione il potere di premiare gli insegnanti “migliori” con un aumento di stipendio di circa il dieci per cento.
Questa commissione è formata dal Preside, - continuo a chiamarlo così anziché col nuovo nome di Dirigente Scolastico, perché i suoi titoli culturali non sono superiori a quelli degli insegnanti e perciò era giusto che, come prima, “presiedesse” gli organi collegiali anziché “dirigere” i suoi pari - da due docenti eletti dai colleghi e dal Presidente del Consiglio di Istituto. La procedura: coloro che ritengono di essere più bravi degli altri (in genere sono i peggiori, perché è il ramoscello senza frutti quello che sempre svetta verso l’alto) redigono un elenco dei propri meriti (diciamo un documento di auto-elogio) e lo presentano a questa commissione, la quale poi valuta anche in base alle proprie conoscenze e ai giudizi espressi dagli alunni e dai genitori.
Vediamo più da vicino la natura di questa Commissione di valutazione e la procedura con cui alunni e genitori daranno il loro contributo nella valutazione degli insegnanti.


La Commissione. Il fatto che di essa facciano parte anche due insegnanti eletti dai colleghi e il Presidente del Consiglio di Istituto, che è un genitore, non danno alcuna garanzia di imparzialità. Chi ha vissuto il passaggio dalla scuola vecchio tipo a quella dell’autonomia (1999), sa che ormai tutte le elezioni sono pilotate dai dirigenti, che esse sono una farsa. Già oggi il dirigente può concedere favori economici mediante il fondo di istituto, l’assegnazione delle classi, la concessione di permessi, la chiusura di un occhio (o due) sulla pigrizia e sulle piccole disattenzioni; spesso ne ricevono in cambio collaborazione per lavori che essi non vogliono o non sono in grado di svolgere e questo cementa più che mai le alleanze che si instaurano; tutto ciò dà loro un potere fortissimo e ormai consolidato. A chiunque si ribelli non è concesso nessun privilegio e nessuna attenuante, anzi può accadere ciò che da anni accade al maestro Fontani di Siena, oggi coraggioso promotore del Comitato Nazionale Antimobbing. Ad una situazione simile ho purtroppo assistito personalmente negli ultimi anni di insegnamento: una collega competente e laboriosa, emarginata da tutti i cortigiani solo per essersi battuta per il rispetto delle regole.
In un tale clima, chiedere, premere, costringere a votare per gli insegnanti a lui graditi, è, per il capo, facile come bere un bicchiere d’acqua.
Fra il ’74 e il 2005 ho potuto inoltre constatare che, nella maggior parte dei casi, i rappresentanti dei genitori sono persone che si candidano con un unico obiettivo: rendere più agevole il corso degli studi ai propri figli. Per fare ciò, appoggiano sempre, moralmente e col voto, l’operato del dirigente, il quale poi ricambierà i favori segnalando il ragazzo agli insegnanti della sua corte.
In conclusione, i soggetti, che decideranno quali insegnanti dovranno essere dichiarati “i migliori” e gratificati con una mensilità in più rispetto agli altri, saranno solo degli yesman pronti all’ubbidienza verso il volere del capo.

La procedura. La commissione deve tener conto del giudizio degli alunni e dei genitori. Ma quali alunni e quali genitori? Tutti o solo una parte? Se si tratta solo di una parte, chi li sceglie?
Se bisognerà sentire il parere di tutti, occorreranno le votazioni, per le quali saranno necessarie le schede elettorali, le urne e la propaganda, se no che votazioni sono? Bisognerà poi anche stabilire quanti voti ogni alunno può esprimere. Se ha dieci insegnanti e il voto è uno solo, automaticamente dovrà bocciare gli altri nove anche se li ritiene bravi; se i voti sono due, ne dovrà bocciare otto; se invece i voti sono nove, ne dovrà bocciare uno solo, e la scelta sarà molto semplice: l’insegnante che lo ha ritenuto insufficiente per tutto l’anno, presumendo, il presuntuoso, che egli non avesse studiato.
E già perché a scuola, ma non solo a scuola, vige la legge del taglione e di conseguenza i prof. che danno a tutti bei voti, saranno a loro volta votati, mentre i prof. che vogliono essere troppo zelanti saranno castigati, e vendetta è fatta.
Ma a chi può sembrare, questa, una giusta selezione secondo i meriti? A me sembra esattamente il contrario!
Ma a valutare saranno anche i genitori, dice la nostra ministra sperimentatrice. E chi può credere che i criteri usati dai genitori siano diversi da quelli dei loro figli?

Insomma un bel pasticcio, Sig.ra Gelmini. Ma, nonostante questo, lei ce la può fare, perché il clima le è favorevole. Ho visitato i siti dei nostri “maggiori” sindacati: tutti contenti per aver ottenuto gli scatti di anzianità prima negati. Tutti contenti del fatto che questi scatti di anzianità saranno pagati con il denaro tolto ai precari e ai supplenti. Che, d’ora in avanti, i lacchè abbiano uno stipendio in più e possano guardare dall’alto in basso, secondo precise gerarchie di (de)merito, gli spiriti indipendenti e ribelli, beh questo passerà in secondo piano. Passerà inosservato.
Anche politicamente la signora avrà la strada spianata: fra una destra liberista e una sinistra liberal, chi le si potrà opporre? Anche il PD, grato e fedele al suo ex ministro, è già andato a ingrossare le file della maggioranza meritocratica, che va quindi da Ignazio Benito Maria La Russa a Pier Luigi Bersani, passando per Pier Ferdinando Casini. Dunque Preside, alunni e genitori diano i voti ai prof. e le graduatorie così compilate, istituto per istituto, vengano esposte in bacheca, in modo che si veda bene chi vale e chi no, chi comanda e chi ubbidisce, chi sale agli onori e chi viene messo alla berlina, chi avrà uno stipendio in più e chi rimarrà al palo.
Ma forse poi, però, gli insegnanti che rimarranno esclusi da questo tipo di premiazione si chiederanno con quale autorità potranno affrontare una scolaresca già difficile da gestire, se si presenteranno anche con il marchio di insegnante di grado inferiore, e vorranno qualcuno che rappresenti le loro angosce e la loro rabbia. La scuola ha le sue tradizioni e sono tradizioni di pari dignità e di rispetto reciproco.
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martedì 16 novembre 2010

Disoccupazione: che fare? Un contributo

Ho già accennato al problema della disoccupazione giovanile nei post “Peter Pan” e “Le responsabilità dei vecchi”, e l’ho fatto però finora prevalentemente nell’ottica delle responsabilità individuali. Tuttavia le dimensioni assunte attualmente dal fenomeno fanno di esso anche un fatto socialmente rilevante, ed è perciò giusto affrontarlo anche sotto l’aspetto della politica economica.

Le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro sono presenti, dove in misura maggiore e dove in misura minore, in tutti i paesi occidentali. La libera circolazione delle merci e dei capitali ha posto a confronto il prezzo del lavoro e delle merci in Europa con quello, più basso, dei paesi emergenti. Ne è conseguito un progressivo spostamento della produzione industriale verso i paesi asiatici, che ha prodotto nella nostra società una riduzione dell’occupazione, sia per alcuni lavoratori anziani (disoccupati) che per tantissimi giovani in cerca di primo impiego (inoccupati).
Nella vecchia Europa, in conseguenza di ciò, si è venuta a creare una profonda spaccatura fra tre categorie:
1) industriali e commercianti che, sfruttando le opportunità offerte dal mercato internazionale, hanno notevolmente incrementato i loro redditi;
2) lavoratori dipendenti attivi che, pur subendo una riduzione del potere di acquisto, mantengono un livello di vita che, almeno per ora, consente di far fronte alle esigenze quotidiane;
3) lavoratori dipendenti licenziati e giovani in cerca di prima occupazione, che vivono oggi ai margini della società e, per un futuro abbastanza prossimo, corrono il rischio di scivolare nelle attività illecite o verso forme di protesta violenta.

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Sull’analisi della situazione c’è grosso modo un certo accordo. Mancano però i rimedi, e comunque quelli finora timidamente proposti non hanno dato risultati apprezzabili, perché confidano in una teoria priva di fondamenti. Si presuppone che, abbandonando i settori produttivi a basso valore aggiunto a favore dei paesi emergenti e puntando su quelli ad elevata tecnologia, i paesi europei possano ritrovare un soddisfacente equilibrio. Questo presupposto è purtroppo errato perché nei paesi emergenti, come già accadde in Europa nel dopoguerra, allo sviluppo economico si accompagna anche una generale crescita culturale e in particolare una crescita delle competenze nei settori tecnologici. Questo fa sì che, finché ci sarà libero scambio, la torta da dividere in Europa avrà sempre le stesse dimensioni o addirittura andrà a rimpicciolirsi.
Ma esistono terapie d’urto, capaci di fronteggiare questa grave crisi del Vecchio Continente?

La prima possibilità è quella di tentare di correggere il corso della storia degli ultimi venti anni, nel senso di mantenere un’area di libero scambio in ambito europeo e reintrodurre però alcuni vincoli negli scambi con i paesi in via di sviluppo. A livello politico questa sembra un’idea perdente, perché ad essa si oppongono le imprese esportatrici e quelle che hanno approfittato della de-localizzazione della produzione per ridurre i costi; si oppongono i consumatori che trovano sul mercato merci a prezzi più convenienti; si oppongono, infine, i partiti e i sindacati di riferimento dei lavoratori, per motivi di solidarietà con i paesi emergenti. Questi ultimi sbagliano, perché i mercati dell’est (Cina, India e Indocina) hanno ormai raggiunto un livello produttivo capace di autoalimentarsi ed hanno un potenziale mercato interno costituito da miliardi di consumatori. In fondo il boom economico europeo degli anni Cinquanta e Sessanta si è realizzato tutto nell’ambito del mercato interno: perché non dovrebbe verificarsi la stessa cosa nei paesi dell’est?

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Se la ricetta delle barriere doganali dovesse continuare a risultare una carta politicamente perdente, allora, volenti o nolenti, per fronteggiare il problema occupazionale, non resta che ricorrere a una redistribuzione del reddito, purtroppo dolorosa per quasi tutte le componenti del sistema produttivo.
La prima categoria che dovrebbe contribuire sarebbe quella degli imprenditori: il fatto che in Italia essi partecipino al gettito fiscale solo in misura del 5% significa che c’è una vastissima evasione.
E’ vero che finora nessuno è riuscito a farla emergere e tutti i governi hanno fatto fiasco. Tuttavia è da rilevare come tutti abbiano agito ignorando una regola fondamentale dell’economia aziendale, e cioè che “il reddito è la doppia risultanza del confronto fra costi e ricavi e del confronto fra capitale iniziale e finale”. Finora l’accertamento è stato fatto solo e sempre col primo criterio, che, attraverso il sistematico occultamento dei ricavi e la manipolazione contabile dei costi, consente alle imprese di comprimere in misura consistente il reddito assoggettabile ad imposta.
Intrecciando però i dati contabili sul reddito delle imprese con le variazioni del “patrimonio familiare” degli imprenditori, non dovrebbe essere troppo difficile rilevare le incongruenze più macroscopiche. Quando in una famiglia si acquistano immobili o titoli per un importo cospicuo, è necessario che si verifichi una di queste condizioni:
- che vi sia il corrispondente beneficio di un’eredità o di una donazione;
- che il reddito annuo dichiarato sia tale da consentire una adeguata capacità di risparmio;
- che ci sia stata l’accensione di un mutuo o comunque l’apertura di una linea di credito.
Se non si verifica nessuna di queste tre condizioni, vuol dire che c’è evasione oppure che l’incremento patrimoniale è frutto di attività illecite.

La seconda categoria che dovrebbe accettare un sacrificio sarebbe quella dei lavoratori che oggi hanno la fortuna (!) di avere un’occupazione. Per essi si dovrebbe, a livello legislativo, imporre una riduzione dell’orario di lavoro e, purtroppo, una corrispondentemente riduzione del salario. Se per 20 milioni di lavoratori attivi l’orario di lavoro si riducesse di un 5%, le imprese, per mantenere invariato il livello produttivo, dovrebbero assumere circa un milioni di giovani.
Naturalmente, se un tale sacrificio fosse imposto tramite provvedimento legislativo ai lavoratori occupati, per un principio di equità un qualche sacrificio dovrebbe essere sopportato anche dai pensionati.

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E’ ovvio che, oltre a tutto ciò, andrebbero curate anche alcune piaghe endemiche, specifiche del sistema italiano: le false pensioni di invalidità, l’assenteismo e i casi di doppio lavoro. 1) Per le pensioni di invalidità occorre una normativa rigorosa sulle procedure di concessione e sulle verifiche da parte del personale medico. Inutile parlare impropriamente di ammortizzatori sociali: i riconoscimenti di invalidità pilotati da rapporti politici o amicali vanno combattuti mediante pene e sanzioni disciplinari con forti capacità di dissuasione. 2) Per l’assenteismo la ricetta è più semplice: il 50% della paga giornaliera dovrebbe essere costituito da un’indennità di presenza; nei giorni di assenza, niente certificato medico e visite fiscali: basta il salario dimezzato. 3) In quanto al doppio lavoro, soprattutto nella Pubblica Amministrazione esso crea problemi organizzativi e di efficienza e, in ogni caso, costituisce la più palese ingiustizia nei confronti dei giovani che, ancora a trent’anni, non ne hanno nessuno. A ciò si aggiungono gli effetti iniqui di una pratica diffusa nell’amministrazione pubblica (enti locali, magistratura, aziende sanitarie ecc.): quella di affidare lavori esterni (perizie, difesa d’ufficio, consulenze, revisione dei bilanci, opere pubbliche ecc.) ai vecchi professionisti che già vantano una buona fetta del mercato privato, anziché a quelli giovani, i quali vedono così occuparsi tutti gli spazi di lavoro.
Un’altra grossa anomalia è costituita dai posti creati ad hoc in epoca democristiana: ho visto uffici pubblici in cui erano sufficienti cinque dipendenti, a cui se ne aggiungevano però altri cinque pagati per non fare nulla. E’ zavorra economica ereditata dai tempi delle vacche grasse, ma è difficile porvi rimedio mettendo sulla strada i cinque in esubero, soprattutto se devono mantenere una famiglia. Quella degli impiegati “pagati per reggere i muri” è comunque una razza in via di estinzione, della quale non resta che incaricare il tempo.

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In sintesi. Gli introiti per la lotta all’evasione, basata sull’analisi degli incrementi patrimoniali, ed i risparmi per la lotta alle false invalidità e all’assenteismo potrebbero mettere lo Stato in condizione di finanziare la ricerca e di ridisegnare completamente la mappa delle infrastrutture nazionali, le cui carenze sono, in alcune zone, la principale causa dell’insufficiente sviluppo economico. La riduzione dell’orario settimanale di lavoro, il divieto di doppio lavoro e un più frequente affidamento di incarichi professionali ai giovani s’incaricherebbero d’altra parte, come già detto, di immettere nel sistema produttivo una ormai gigantesca ed esplosiva massa di inoccupati, parcheggiati troppo a lungo nelle famiglie e cinicamente privati di proiezioni temporali.
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