martedì 31 marzo 2020

Luigi Santucci: Come un carro ribaltato


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Sono intervenuto in questi giorni sul post di un amico di facebook citando gli ultimi due articoli del mio blog.
In realtà non si trattava di due veri articoli, perché di mio c’era ben poco. Mi ero limitato a pubblicare due brani del libro “Volete andarvene anche voi?” di Luigi Santucci, una ‘storia di Gesù’ basata acriticamente sui vangeli, liberamente riplasmati da questo scrittore del Novecento.
I miei interlocutori non hanno purtroppo colto questa mia premessa e si sono avventurati sulla strada della cristologia: Gesù non è una figura storica ma un semplice mito.
Sì, ho letto anche io nella “Breve storia della religione” di Ambrogio Donini questa tesi, storiograficamente condivisibile. Ma sono rimasto un po’ infastidito dai pregiudizi anticristiani di questi amici.
Ad essi dico, qui, ora, che pur se Gesù non fosse mai esistito, esiste il messaggio contenuto nei vangeli, pagine scritte chissà quando, chissà dove e chissà da chi, ma che esistevano e rimangono tuttora vive. E quel messaggio ha contagiato nei primi secoli dell’era volgare una gran massa di gente disperata. Poi questi seguaci – dando conferma, come sempre, delle leggi sociali della circolazione delle élite - si sono dati una struttura verticale, si sono inseriti nella vita politica e nella storia profana, ma inizialmente, in virtù di quel messaggio, avevano dato vita ad una forma di comunitarismo non molto dissimile, nei fini, da quello proposto nell’Ottocento per il riscatto delle classi sociali svantaggiate e oppresse.
In ‘Atti degli apostoli” (4:32-35) è scritto: “La comunità dei credenti viveva unanime e concorde, e quelli che possedevano qualcosa non lo consideravano come proprio, ma mettevano insieme tutto quello che avevano. Gli apostoli annunziavano con convinzione e con forza che il Signore Gesù era risuscitato. Dio li sosteneva con la sua grazia. Tra i credenti nessuno mancava del necessario, perché quelli che possedevano campi o case li vendevano, e i soldi ricavati li mettevano a disposizione di tutti: li consegnavano agli apostoli e poi venivano distribuiti a ciascuno secondo le sue necessità.” (Paolo di Tarso correggerà poi il tiro, dicendo che ognuno deve vivere del frutto del suo lavoro, ma lo disse due decenni dopo la morte di Cristo, e dei primi cristiani fu persecutore).
Nel capitolo qui proposto Santucci riprende l’aspetto rivoluzionario del mito cristiano, commentando da par suo ‘Le beatitudini” dei poveri e l’amaro destino dei ricchi.
come un carro ribaltato.

c.m.

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Finché un giorno questa sua voce ha riempito di gente una montagna. È la montagna di Tabha, appena una gobba davanti al mare di Tiberiade. Ma quel giorno (un giorno ventoso e imprevedibile) quella montagna si fa alta, non è più di terra e sassi ma è una montagna di uomini e donne che l'affollano, la rigonfiano in un centuplicato volume, vi fanno grappolo verso le nubi come un favo di api brulicanti.
Tutti gli uomini del mondo, vivi morti e nascituri, venuti lassù per una precisa questione che attende una risposta. Presi uno per uno, essi non hanno minimamente l'idea di quale sia la questione; nessuno, chiamato fuori del suo bivacco da chi gli dicesse "domanda la cosa che ti preme", saprebbe aprire bocca. Se mai, interpellati personalmente, Isacco, Miriam, Levi balbetterebbero che hanno un'ulcera, un tumore, un erpete da farsi togliere; per questo si sono arrampicati sul monte; per questo, come le altre volte, tutta la moltitudine cercava di toccarlo. Ma radunati così tutti insieme, il loro bisogno è un altro, un'altra la loro curiosità. Quale sia l'interrogativo che hanno da porre a Gesù, essi stessi lo ignorano. Ma lui lo sa bene, e oggi risponderà. Essi vogliono sapere della felicità: se esiste, cos'è, per chi è, perché la covano talmente e in ogni ora dentro i loro pensieri, cosa si debba fare per raggiungerla.
Allora Gesù si pone a sedere, non fa miracoli sulle gambe ciondolanti e sulle pustole di lebbra, oggi, ma tenta il miracolo sui destini di questo immenso popolo. Apre la bocca e insegna la felicità: «Beati...».
I ruscelli dentro la roccia, i prati di trifoglio lucidati dal vento, le nuvole che scendono a impigliarsi sui faggi sembrano in ascolto non meno del cammelliere, della vedova, del ragazzo con le lentiggini.
Beati chi? Si parla già di gente felice? Non ci sono preamboli a questo discorso, approcci e distinzioni filosofiche, qualche raziocinante cautela? Non ci sono. «Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli... Beati i mansueti, perché possiederanno la terra...»
Fra i poveri, ha cominciato da questi: penso che i “poveri in spirito” siano quelli che non credono in se stessi, i prigionieri di un'inguaribile timidezza, gli uomini che non hanno fantasia per progettare un domani migliore né personalità per realizzarlo. Sono i più poveri; sono solo i signori della speranza, ma di una speranza incorporea ch'essi non sanno legare a nessuna scadenza. Sono i silenziosi che vivono senza toccare nulla, neanche col desiderio; solo, frequentemente, mirano le nubi e l'azzurro perché sanno che il cielo è una cosa che non si contende a nessuno. E il cielo è per loro.
La terra invece ai mansueti. La possiederanno appena camminandoci, arandola per gli altri, andando a fare il soldato per gl'imperatori e morendoci sopra; e poi marcendo nel suo grembo dove li avranno seppelliti in fretta.
«Beati coloro che piangono, perché saranno consolati... Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia...»
Piangere è già una beatitudine. Ai suoi poveri, la consolazione Cristo la semina già nell'ora dei singhiozzi, quando il dolore brucia in cima come una candela e l'anima cola in gocce. Il piangere - solo il piangere - ci fa poi misericordiosi, ci fa provare pietà di noi stessi e degli altri; e quando siamo misericordia, finalmente fra Dio e noi non c'è più confine, la nostra acqua si mescola alla sua.
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio... Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio...»
Almeno il cuore resti puro, se la carne si contamina così facilmente nelle cose che le creature ci offrono. Se Dio non lo potrò abbracciare perché le mie mani non sono pure, almeno il mio cuore si salvi in una generosa innocenza perché io possa, dal più lontano spiraglio dell'infinito, vedere il suo volto.
E se di Dio vorremo essere chiamati figli, allora arruoliamoci nella schiera dei pacifici: che è una durissima milizia e tutto vuoi dire fuor che vivere in pace e disertare la lotta, ma battersi per la madre più minacciata e tremante, la pace. Colei che ci chiama Abele, che tutti ci vuole vivi e disarmati, a cancellare dalla crosta della terra il nome di Caino.
«Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia, perché di loro è il regno dei cieli... Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e vi perseguiteranno, e rigetteranno il vostro nome come abominevole, e diranno di voi ogni male per cagion mia...»
Soffrire per la giustizia: anche se la giustizia sembra il bene più irrinunciabile e l'ingiustizia il più insopportabile male? Beati anche questi? Come, quando? Sempre, subito; oggi, non domani. Giacché per costoro, come per i perseguitati a causa di Cristo, il Regno, il cielo è già intorno e dentro la vita. E se sarà splendida la loro eternità, di morire quasi non si accorgeranno, a essi il Padre non darà di distinguere con un taglio netto la beatitudine degli angeli e la beatitudine quaggiù dei loro giorni tribolati. Perché Gesù, ecco, oggi sulla montagna li chiama beati e si felicita con loro.

Oggi è un gran giorno, oggi bisognava fare qualcosa di grosso e d'immediato per questa sterminata gente che soffre e sogna la felicità. Bisognava capovolgere il mondo, metterlo come un carro di fieno a ruote in aria. E Cristo ha ribaltato il mondo. I piangenti, gli affamati, i poveri sono issati in trionfo, fatti oggetto d'invidia; i mansueti e i pacifici spadroneggiano e fanno bottino sulla terra strappata al nemico; e i perseguitati fanno tremare gli oppressori nel candido Regno atteso da mille e mille anni. Giustizia è fatta.
È fatta, nel mondo stravolto, la giustizia. E dalla montagna dei santi, come una cascata di lava, schiuma giù adesso per gli altri l'annuncio della desolazione: «Ma guai a voi, o ricchi, perché avete già la vostra consolazione... Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nella mestizia e piangerete... Guai a voi, quando tutti gli uomini vi applaudiranno...».
I ricchi, i ben pasciuti, i gaudenti, i vanitosi che Cristo maledice da questo monte non sono, grossolanamente, quelli che indugiano volentieri tra agi e gozzoviglie, tra feste e battimani. Ogni uomo ha inseguito queste cose, almeno per un attimo le ha possedute. Egli non è così ingenuo né così puritano. I dannati, gli esclusi oggi e sempre dalle delizie della montagna, sono coloro che dentro ai fumi di quelle passioni si separeranno dagli altri, giorno uguale a giorno, fino a farli soffrire e a scacciarli. Perché c'è un solo peccato ed è quello di non amare; una sola maledizione, l'egoismo; una sola parola proibita, la parola nemico. Perciò il discorso di Gesù continua. Sul prato di trifoglio, sul cammelliere, sul faggio e sulla vedova sono cadute quel giorno altre parole, perché ciascuno raggiungesse la beatitudine.
[…]
Luigi Santucci

sabato 14 marzo 2020

Luigi Santucci: Io e Nicodemo (Gv. 3,1-21)

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«Scritto e ripreso nel corso di lunghi anni, Volete andarvene anche voi? è una vita di Cristo scritta con una tecnica ardita, estremamente dinamica e imprevedibile, per permettere al suo autore d'immedesimarsi nelle vicende e nei personaggi del Vangelo con uno scandaglio totale, quasi come testimone fisico, in una continua tensione poetica ed emotiva dove la fede trionfa di stretta misura dopo una generosa e strenua battaglia. In queste pagine la vita di Cristo, superando l'agiografia e la narrazione dei fatti, tende a diventare una ‘summa’ di ragioni e di passioni umane. Alla fine, non altro forse che un'enorme metafora dei nostri sentimenti e del senso dell'Eterno. Volete andarvene anche voi?, travagliato atto di fede d'un uomo dei nostri giorni, è comunque un libro così lontano da ogni conformismo e devozionalismo apologetico, che un critico lo ha recentemente definito ‘una vita di Cristo anche per gli atei’».

(dalla Prefazione dell’Editore, 1969)
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<< Eccomi qui. Fra le tante figure sulla scena del Vangelo io sono probabilmente costui - anche se tante volte mi riconosco nel pubblicano, nella meretrice, nel lebbroso: il dottor Nicodemo: l'intellettuale petulante, quello che "si recò di notte da Gesù e gli disse...".
 Sarei andato di notte. Tante volte, quando non riesco a prendere sonno perché ho orrore della giornata che mi sta alle spalle e paura di quella che spunterà; quando il cervello, la sapienza diplomata che mio padre e mia madre mi hanno trasmesso pagandomi dei buoni studi mi pesano nelle tempie più di ogni peccato, mi alzo e vado da lui. Neppure occorre che mi alzi. Sto supino nel buio, a occhi aperti, e lo importuno. Non è pregare: è provocarlo; è sperare in segreto di confonderlo e farlo ruzzolare nel mio stesso dramma di ateo superstizioso; ed insieme è pure una piatire da lui la risposta che mi pacifichi, un invocare che si metta alla lavagna e, riempiendola di cifre rotonde, mi dimostri che Dio c'è, che lui è il figlio del Padre, che io andrò in paradiso dopo una vita lunga e felice. Un esigere che lui metta sulla piramide sghemba della mia cultura il sigillo della certezza metafisica.
È notte. Nessuno ci vede né ci sente. Così senza parere, signorilmente, può darsi che questo privilegio io glielo strappi, che mi spieghi un po'... Se si creerà il clima giusto, quel tanto di magica connivenza che l'ora e il dialogo a due favoriscono. Siamo un tantino colleghi, in fondo: docti sumus. 
  Nicodemo ha voluto la lezione privata. Anch'io la vorrei. Un incontro a quattrocchi. Non dovermi accalcare fra pescatori, gobbi e prostitute nei trivii di Cafarnao, o sulla spiaggia del lago, o nel deserto dove si arriva in turba coi piedi piagati dopo tre giorni di digiuno. Non dovermi arrampicare su un albero come Zaccheo per vederlo e sentirlo; o peggio, mescolarmi coi suoi quando lo ammazzano, col rischio di...
  Nicodemo è andato dunque e Gesù lo ha ricevuto. E vado anch'io, e anche a me apre la porta, mi fa sedere. «Come mai?» gli dice il dottore giudeo. «Come mai?» gli dico io. «In verità ti dico che se uno non rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio...» «Non ti meravigliare se ti ho detto: "bisogna che nasciate di nuovo". Il vento spira dove vuole, e ne odi la voce, ma non sai donde venga, né dove vada.»
  «Come mai può essere questo?» borbottiamo io e Nicodemo. E lui molto civilmente onora adesso i miei titoli di studio: «Tu sei maestro in Israele» mi dice «e non lo sai?». «Lasciamo perdere» diciamo io e Nicodemo trangugiando l'ironia del nostro interlocutore «lasciamo perdere... Dimmi una buona volta, come mai?»
  Gli orologi, le pendole, i cronometri sbriciolano il tempo notturno, che sembra uguale a quello diurno ed è così diverso, col loro tic tac, dentro la casa che soffre come noi, nei suoi mattoni e nei suoi mobili, l'angoscia di esistere e non sapere perché.
  «Se non credete quando vi parlo delle cose terrene, come potrete credere quando vi parlerò delle celesti?» dice Cristo nella vecchia poltrona del mio studio, accarezzando i braccioli. Di nuovo sfugge, anche questa volta. È lui che fa domande. «Lascia stare queste distinzioni, maestro. Terrene, celesti.... Parlami di me che non so che cosa sono, terra o cielo, e in fondo me ne infischio. Sono solo paura, una grande continua paura di perire.»
  «Infatti.»
  «Che cosa "infatti"?»
  «Infatti Dio tanto ha amato il mondo che ha dato il suo Figliolo unigenito, affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Ché Dio non ha mandato il suo Figliolo al mondo per condannare il mondo, ma affinchè il mondo sia salvato per opera di lui
  Mi alzo. Ne so come prima. Non mi ricordo di chi sia questa casa: se la mia dove lui è venuto o la sua dove io sono andato a bussare. È la stessa cosa, comunque. Quel ch'è certo è che ci siamo parlati di notte. Che di notte ho tentato, per l'ennesima volta, l'imboscata di Nicodemo. Che esco dalla casa dove sono entrato inutilmente e mi ritrovo nel buio della strada, della campagna. E malgrado tutto, sto meglio. Anzi, sono felice; mortificato ma felice. Forse solo perché albeggia, le tenebre - almeno quelle esteriori - si diradano. E ripenso alle sue ultime parole:
  "La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage. Veramente, chi fa il male odia la luce e non si accosta ad essa perché non siano condannate le cose che fa. Chi invece fa il bene si accosta alla luce, perché le cose che fa si manifestino come compiute da Dio."
  Allora forse non sono malvagio del tutto. Se l'alba mi piace, mi consola ancora, dopo questa pesante sconfitta, con questa bocca salata di chi non ha chiuso occhio. Sono soltanto Nicodemo. >>

Luigi Santucci