sabato 14 marzo 2020

Luigi Santucci: Io e Nicodemo (Gv. 3,1-21)

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«Scritto e ripreso nel corso di lunghi anni, Volete andarvene anche voi? è una vita di Cristo scritta con una tecnica ardita, estremamente dinamica e imprevedibile, per permettere al suo autore d'immedesimarsi nelle vicende e nei personaggi del Vangelo con uno scandaglio totale, quasi come testimone fisico, in una continua tensione poetica ed emotiva dove la fede trionfa di stretta misura dopo una generosa e strenua battaglia. In queste pagine la vita di Cristo, superando l'agiografia e la narrazione dei fatti, tende a diventare una ‘summa’ di ragioni e di passioni umane. Alla fine, non altro forse che un'enorme metafora dei nostri sentimenti e del senso dell'Eterno. Volete andarvene anche voi?, travagliato atto di fede d'un uomo dei nostri giorni, è comunque un libro così lontano da ogni conformismo e devozionalismo apologetico, che un critico lo ha recentemente definito ‘una vita di Cristo anche per gli atei’».

(dalla Prefazione dell’Editore, 1969)
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<< Eccomi qui. Fra le tante figure sulla scena del Vangelo io sono probabilmente costui - anche se tante volte mi riconosco nel pubblicano, nella meretrice, nel lebbroso: il dottor Nicodemo: l'intellettuale petulante, quello che "si recò di notte da Gesù e gli disse...".
 Sarei andato di notte. Tante volte, quando non riesco a prendere sonno perché ho orrore della giornata che mi sta alle spalle e paura di quella che spunterà; quando il cervello, la sapienza diplomata che mio padre e mia madre mi hanno trasmesso pagandomi dei buoni studi mi pesano nelle tempie più di ogni peccato, mi alzo e vado da lui. Neppure occorre che mi alzi. Sto supino nel buio, a occhi aperti, e lo importuno. Non è pregare: è provocarlo; è sperare in segreto di confonderlo e farlo ruzzolare nel mio stesso dramma di ateo superstizioso; ed insieme è pure una piatire da lui la risposta che mi pacifichi, un invocare che si metta alla lavagna e, riempiendola di cifre rotonde, mi dimostri che Dio c'è, che lui è il figlio del Padre, che io andrò in paradiso dopo una vita lunga e felice. Un esigere che lui metta sulla piramide sghemba della mia cultura il sigillo della certezza metafisica.
È notte. Nessuno ci vede né ci sente. Così senza parere, signorilmente, può darsi che questo privilegio io glielo strappi, che mi spieghi un po'... Se si creerà il clima giusto, quel tanto di magica connivenza che l'ora e il dialogo a due favoriscono. Siamo un tantino colleghi, in fondo: docti sumus. 
  Nicodemo ha voluto la lezione privata. Anch'io la vorrei. Un incontro a quattrocchi. Non dovermi accalcare fra pescatori, gobbi e prostitute nei trivii di Cafarnao, o sulla spiaggia del lago, o nel deserto dove si arriva in turba coi piedi piagati dopo tre giorni di digiuno. Non dovermi arrampicare su un albero come Zaccheo per vederlo e sentirlo; o peggio, mescolarmi coi suoi quando lo ammazzano, col rischio di...
  Nicodemo è andato dunque e Gesù lo ha ricevuto. E vado anch'io, e anche a me apre la porta, mi fa sedere. «Come mai?» gli dice il dottore giudeo. «Come mai?» gli dico io. «In verità ti dico che se uno non rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio...» «Non ti meravigliare se ti ho detto: "bisogna che nasciate di nuovo". Il vento spira dove vuole, e ne odi la voce, ma non sai donde venga, né dove vada.»
  «Come mai può essere questo?» borbottiamo io e Nicodemo. E lui molto civilmente onora adesso i miei titoli di studio: «Tu sei maestro in Israele» mi dice «e non lo sai?». «Lasciamo perdere» diciamo io e Nicodemo trangugiando l'ironia del nostro interlocutore «lasciamo perdere... Dimmi una buona volta, come mai?»
  Gli orologi, le pendole, i cronometri sbriciolano il tempo notturno, che sembra uguale a quello diurno ed è così diverso, col loro tic tac, dentro la casa che soffre come noi, nei suoi mattoni e nei suoi mobili, l'angoscia di esistere e non sapere perché.
  «Se non credete quando vi parlo delle cose terrene, come potrete credere quando vi parlerò delle celesti?» dice Cristo nella vecchia poltrona del mio studio, accarezzando i braccioli. Di nuovo sfugge, anche questa volta. È lui che fa domande. «Lascia stare queste distinzioni, maestro. Terrene, celesti.... Parlami di me che non so che cosa sono, terra o cielo, e in fondo me ne infischio. Sono solo paura, una grande continua paura di perire.»
  «Infatti.»
  «Che cosa "infatti"?»
  «Infatti Dio tanto ha amato il mondo che ha dato il suo Figliolo unigenito, affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Ché Dio non ha mandato il suo Figliolo al mondo per condannare il mondo, ma affinchè il mondo sia salvato per opera di lui
  Mi alzo. Ne so come prima. Non mi ricordo di chi sia questa casa: se la mia dove lui è venuto o la sua dove io sono andato a bussare. È la stessa cosa, comunque. Quel ch'è certo è che ci siamo parlati di notte. Che di notte ho tentato, per l'ennesima volta, l'imboscata di Nicodemo. Che esco dalla casa dove sono entrato inutilmente e mi ritrovo nel buio della strada, della campagna. E malgrado tutto, sto meglio. Anzi, sono felice; mortificato ma felice. Forse solo perché albeggia, le tenebre - almeno quelle esteriori - si diradano. E ripenso alle sue ultime parole:
  "La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage. Veramente, chi fa il male odia la luce e non si accosta ad essa perché non siano condannate le cose che fa. Chi invece fa il bene si accosta alla luce, perché le cose che fa si manifestino come compiute da Dio."
  Allora forse non sono malvagio del tutto. Se l'alba mi piace, mi consola ancora, dopo questa pesante sconfitta, con questa bocca salata di chi non ha chiuso occhio. Sono soltanto Nicodemo. >>

Luigi Santucci