mercoledì 30 aprile 2014

Anton Cechov: tre racconti brevi


VILLEGGIANTI

Sulla banchina ferroviaria del sito di villeggiatura passeggiava avanti e indietro una coppietta di sposi recenti. Lui teneva lei per la vita, e lei si stringeva a lui, e tutt'e due erano felici. Da dietro a brandelli di nuvole li guardava la luna e si accigliava: probabilmente provava invidia e stizza della sua noiosa verginità, non utile ad alcuno. L'aria immobile era satura del profumo di lillà e di ciliegio selvatico. In qualche parte, dall'altro lato dei binari, mandava il suo grido il re di quaglie...
— Com'è bello, Sascia, com'è bello! — diceva la moglie. — Davvero, si può pensare che tutto ciò sia in sogno. Guarda come ha l'aria invitante e carezzevole questo boschetto! Come son graziosi questi gravi, taciturni pali telegrafici! Essi, Sascia, ravvivano il paesaggio e dicono che laggiù, da qualche parte, vi sono uomini... la civiltà... Ma forse che a te non piace, quando al tuo orecchio il vento reca debolmente il fragore del treno in corsa?
— Sì... Che mani ardenti hai tu però! Questo perché ti agiti, Varia... Che han preparato oggi da noi per cena?
Okroska e un pollastrino... Il pollastrino per noi due basta. A te dalla città han portato sardine e storione affumicato.
La luna, come se avesse fiutato tabacco, si nascose dietro una nuvola. La felicità umana le aveva rammentato la sua solitudine, il suo letto solitario di là da boschi e valli...
— Viene il treno! — disse Varia. — Com'è bello!
In lontananza si mostrarono tre occhi infocati. Sulla banchina uscì il capo della piccola stazione. Sui binari qua e là baluginarono fuochi di segnalazione.
— Lasciamo partire il treno e poi andiamo a casa, — disse Sascia, e sbadigliò. — Noi due ce la passiamo così bene, Varia, così bene che è perfino incredibile!

Un mostro scuro scivolò senza strepito verso la banchina e si fermò. Nei finestrini semilluminati delle carrozze balenarono visi sonnolenti, cappellini, spalle...
— Ah! ah! — si udì da un carrozzone. — Varia col marito c'è uscita incontro! Eccoli! Vàrenka!... Vàrecka! Ah.
Dal carrozzone balzarono due ragazzette e si appesero al collo di Varia. Dietro a loro comparvero una signora attempata, pienotta, e un signore alto, scarno, dalle fedine brizzolate, poi due studenti ginnasiali carichi di bagagli, dietro gli studenti la governante, dietro la governante la nonna.
— Ed eccoci anche noi, ed eccoci anche noi, amico mio! — cominciò il signore dalle fedine, stringendo la mano di Sascia. — Hai atteso molto, credo! Te la prendevi con lo zio, suppongo, perché non arrivava! Kolia, Kostia, Nina, Fifa... ragazzi! Baciate il cugino Sascia!
Tutti da te, tutta la nidiata, e per un tre, quattro giornatine. Non impacceremo, spero? Tu, di grazia, non far cerimonie.
Vedendo lo zio con la famiglia, gli sposi erano rimasti sgomenti. Mentre lo zio parlava e si profondeva in abbracci, nell'immaginazione di Sascia balenò il quadro: lui e la moglie cedono agli ospiti le loro tre stanze, i guanciali, le coperte; storione, sardine e okroska son divorati in un secondo, i cugini strappano i fiori, versan l'inchiostro, fanno baccano, la zietta per giornate intere discorre della sua malattia (verme solitario e dolore alla bocca dello stomaco) e del fatto che lei é nata baronessa Von Fintich...
E Sascia ormai con odio guardava la sua giovane moglie e le bisbigliava:
— È’ da te che son venuti... il diavolo se li porti!
— No, da te! — rispondeva lei, pallida, parimenti con odio e astio. — Non sono i miei, ma i tuoi parenti!
E voltasi agli ospiti, ella disse con un sorriso invitante:
— Favorite!
Da dietro la nuvola tornò a guizzar fuori la luna. Pareva che sorridesse; sembrava provar piacere a non aver parenti. E Sascia si voltò in là, per non mostrare agli ospiti il suo viso stizzito, desolato; poi disse, dando alla voce un'espressione giuliva, benevola:
— Favorite! Favorite, cari ospiti!

1 Piatto freddo, molto appetitoso, preparato con uova, carne, o pesce, cetriolini, cipolle e vari altri ingredienti, il tutto minutamente tritato, con aggiunta di panna acida.



L’ALBO

Il consigliere onorario Kraterov, magro e sottile come la guglia dell'Ammiragliato, si fece avanti e, rivolgendosi a Zmichov, disse:
- Eccellenza! Mossi e tócchi nel profondo dell'anima dai vostri lunghi anni di comando e dalle paterne premure...
- Nel corso di oltre dieci buoni anni, — suggerì Zakussin,
- Nel corso di oltre dieci buoni anni, noi, vostri dipendenti, in questo giorno... sì... per noi significativo, rechiamo a vostra eccellenza, in segno del nostro rispetto e della nostra profonda gratitudine, quest'albo coi nostri ritratti, e auguriamo, per la durata della vostra significativa vita, che ancora a lungo a lungo, fino alla morte stessa, non ci lasciate privi...
- Dei vostri paterni insegnamenti sulla via della verità e del progresso... — aggiunse Zakussin, tergendo dalla fronte il sudore spuntatogli in un batter d'occhio; evidentemente egli aveva una gran voglia di parlare e, con tutta probabilità, teneva pronto il discorso. - E sventoli, - terminò, - il vostro vessillo ancor bene a lungo nel campo del genio, del lavoro e della pubblica coscienza di sé!
Sulla rugosa guancia sinistra di Zmichov serpeggiò una lacrima.
- Signori! — egli disse con voce tremula. — Io non m'aspettavo, non pensavo punto che avreste festeggiato il mio modesto giubileo... Sono commosso... addirittura... moltissimo... Questo minuto non lo scorderò fino alla tomba, e credete... credete, amici, che nessuno vi vuoi del bene come me... E se qualcosa vi fu, fu per il vostro stesso vantaggio...
Zmichov, consigliere di Stato effettivo, scambiò un abbraccio col consigliere onorario Kraterov, che non s'aspettava tale onore e impallidì dall'estasi. Dopo di ciò il superiore fece con la mano un gesto, indicante ch'egli dalla commozione non poteva parlare, e si mise a piangere, come se non gli donassero un costoso albo, ma, al contrario, glielo togliessero... Poi, calmatosi un po', e dopo aver detto ancora qualche sentita parola e permesso a tutti di stringergli la mano, egli, tra sonore grida di giubilo, scese giù, sedette in carrozza e, accompagnato dalle benedizioni, partì. Stando in carrozza, sentì in petto un fiotto di gaudiosi sentimenti fin allora ignoti, e pianse ancora una volta.
A casa lo aspettavano nuove gioie. Ivi la sua famiglia, gli amici e i conoscenti gli fecero un'ovazione tale che gli sembrò di aver davvero recato alla patria moltissima utilità e che, se non ci fosse stato lui al mondo, magari la patria se la sarebbe passata ben male. Il pranzo del giubileo consistè tutto in brindisi, discorsi, abbracci e lacrime. In una parola, Zmichov non si aspettava punto che i suoi meriti fossero presi così strettamente a cuore.
- Signori! — diss'egli alle frutta. - Due Ore fa sono stato ripagato di tutte le pene che toccano ad un uomo che serva, per così dire, non la forma, non la lettera, ma il dovere. Io, per tutto il tempo del mio servizio mi son tenuto costantemente al principio: « Non il pubblico per noi, ma noi per il pubblico ». E oggi ho ricevuto un'altissima ricompensa! I miei dipendenti mi hanno offerto un albo... Ecco! Sono commosso.

Festose fisionomie si chinarono sull'albo e presero ad esaminarlo.
- Ma è un albo grazioso! - disse la figlia di Zmichov, Olia. - Costerà un cinquanta rubli, penso. Oh, che incanto! Tu, babbino, dammelo quest'albo. Senti? Io lo riporrò... È così bellino.
Dopo pranzo Olec'ka si portò via l'albo e lo chiuse nella scrivania. Il giorno dopo ne tirò fuori i funzionar! e li gettò per terra, e al loro posto mise le sue compagne d'istituto. Le divise regolamentari cedettero il posto alle bianche mantellette. Kolia, il figlioletto di sua eccellenza, raccattò i funzionari e colorò i loro vestiti di rosso. A quelli senza baffi disegnò dei baffi verdi, e a quelli senza barba delle barbe brune. Quando non ci fu più da colorare, ritagliò dai cartoncini gli ometti, bucò loro con uno spillo gli occhi, e si mise a giocare ai soldatini. Dopo aver ritagliato il consigliere onorario Kraterov, lo fissò su una scatola di fiammiferi vuota, e in tal forma lo portò nello studio del padre.
- Babbo, un monumento! Guarda!
Zmichov diede in una risata, si chinò e, intenerito, posò un bacione sulla guancia di Kolia.
- Su, monello, va' a mostrarlo alla mamma. Che lo veda anche la mamma.


IL GROSSO E LO SMILZO

A una stazione della ferrovia di Nikolaievsk s'incontrarono due amici: uno grosso, l'altro smilzo. Il grosso aveva giusto allora pranzato in stazione, e le sue labbra, velate di burro, luccicavano come ciliege mature. Mandava odore di xeres e di fior d'arancio. Lo smilzo invece era appena uscito dal carrozzone, ed era carico di valige, fagotti e scatole di cartone. Odorava di prosciutto e fondi di caffè. Da dietro il suo dorso spuntavano una donna magrolina dal mento lungo: sua moglie, e un alto studente ginnasiale con un occhio socchiuso: suo figlio.
— Porfiri! — esclamò il grosso, scorgendo lo smilzo. — Sei tu? Colombelle mio! Da quanto e quanto tempo!
— Padri miei! — stupì lo smilzo. — Miscia! Amico mio d'infanzia! Di dove sbuchi?
Gli amici si abbracciarono tre volte e si piantarono addosso a vicenda gli occhi pieni di lacrime. Erano tutt'e due piacevolmente sbalorditi.
— Carissimo! — cominciò lo smilzo dopo gli abbracci. — Proprio non me l'aspettavo! Ecco una sorpresa! Su, guardami per benino! Lo stesso bel giovane che eri! Lo stesso simpaticone e damerino! Ah, Signore Iddio! Orsù, che mi dici? Sei ricco? Sposato? Io son già sposato, come vedi... Ecco qui mia moglie, Luisa, nata Vantsenbach... luterana... E quest'è il figlio mio, Nafanail, allievo della terza classe. Questo, Nafania, è un mio amico d'infanzia! Studiammo insieme al ginnasio!
Nafanail pensò un poco, e si tolse il berretto.
— Studiammo insieme al ginnasio! — continuò lo smilzo. — Rammenti, come ti stuzzicavano? A te davano dell'Erostrato, perché avevi bruciato con la sigaretta un libro della scuola, a me dell’Efialte, perché mi piaceva far la spia. Oh, oh... eravamo ragazzini! Non temere, Nafania! Viengli più vicino... E questa é mia moglie, nata Vantsenbach... luterana.
Nafanail pensò un poco, e si nascose dietro il dorso del padre.
— Orsù, come te la passi, amico? — domandò il grosso, guardando estasiato l'amico. — Dove fai servizio? Hai fatto carriera?
— Sono in servizio, carissimo! È’ già il second'anno che sono assessore collegiale e ho la croce di Stanislao. Stipendio gramo... già, ma Dio l'accompagni! La moglie dà lezioni di musica, e io in privato faccio portasigari di legno. Eccellenti portasigari! Li vendo a un rublo l'uno. Se qualcuno ne piglia dieci e più, gli faccio, capisci, uno sconto. Si vivacchia alla meglio. Servivo, sai, alla divisione, e ora sono stato trasferito qui come capufficio nella stessa amministrazione... Servirò qui. Be', e tu? Già consigliere di Stato, credo? Eh?
— No, carissimo, sali un poco più su, — disse il grasso. — Sono ormai al grado di consigliere segreto... Ho due croci.

Lo smilzo di colpo impallidì, impietrì, ma ben presto il suo viso si storse da tutte le parti in un amplissimo sorriso; sembrava che volto e occhi spargessero scintille. Egli stesso si fece piccino, s'incurvò, si restrinse... Le sue valige, i fagotti e le scatole si restrinsero, si raggrinzirono... La bazza della moglie si fece ancor più lunga; Nafanail s'irrigidì sull'attenti e abbottonò tutti i bottoni della divisa...
— Io, eccellenza... Molto piacere! Amico, si può dire, d'infanzia e d'un tratto diventato un così gran signore! Ih-ih!
— Be', basta! — si accigliò il grasso. — Perché codesto tono? Io e tu siamo amici d'infanzia; e a che allora quest'ossequio?
— Per carità... Che dite... — ridacchiò lo smilzo facendosi ancor più piccino. — La graziosa attenzione di vostra… eccellenza... è… come dire vivificante rugiada... Ecco, eccellenza, il figlio mio Nafanail... la moglie Luisa, luterana, in certo qual modo...
Il grosso voleva già ribatter qualcosa, ma sul viso del mingherlino era dipinta tanta venerazione, dolcezza e deferente acidità, che il consigliere segreto fu nauseato. Egli si scostò dallo smilzo e gli porse in segno di commiato la mano.
Lo smilzo strinse tre dita, s'inchinò con tutto il corpo e ridacchiò, come un cinese: « Hi-hi-hi ». La moglie sorrise. Nafanail strisciò una riverenza e lasciò cadere il berretto. Tutti e tre erano piacevolmente sbalorditi.

*.*.*


Per circa due anni ho seguito settimanalmente i racconti brevi pubblicati dall’amico Fulvio Musso su un forum letterario. Ne ammiravo la cura estrema del linguaggio, la capacità di narrare in poche righe una storia che sembrava potersi dilatare in un romanzo, il compenetrarsi indistinguibile del dolce e dell’amaro nell’intera storia come nelle singole parti. 

Prima di apprezzare i racconti di Fulvio, per gli stessi identici motivi, avevo già apprezzato i racconti brevi che Anton Cechov, per mantenersi agli studi, verso il 1880 pubblicò su alcune riviste, quando era ancora un giovanissimo studente di medicina.

Ne ho qui riportati tre, scelti fra quelli più significativi e nel contempo più brevi. Il lettore noterà che, a metà o alla fine di ogni racconto, c’è sistematicamente una ‘svolta’ imprevedibile, un capovolgimento di fronte che ravviva l’attenzione e contiene in modo implicito il messaggio dell’autore. In “Villeggianti”, due giovani sposi, felici della loro intimità, vedono inaspettatamente arrivare un nugolo di parenti invadenti, ma convinti di essere ben accetti (la luna, per converso, prima prova invidia e poi... sorride!). Ne “L’album”, durante la cerimonia per il suo pensionamento, l’importante dirigente di un ufficio si commuove per le belle parole dei suoi dipendenti e per l’album da essi regalatogli, ma a casa, divertito, lascia poi che i suoi bambini quest’album lo distruggano. Ne “il grosso e lo smilzo”, due compagni di scuola si incontrano dopo tanti anni e si abbracciano affettuosamente, ma, quando ‘lo smilzo’ viene a sapere che ‘il grosso’ occupa un’alta carica, egli diventa deferente a tal punto da disgustare l’amico.

     Cataldo Marino

venerdì 18 aprile 2014

Francesco Carnelutti “Il canto del Grillo”, a cura di Gian Pietro Calabrò, Cedam, 2014


    Esattamente trent’anni fa giunse nella mia scuola un ispettore scolastico. Tutti noi insegnanti, seduti nella sala delle riunioni, ascoltammo in silenzio un lungo sermone su ‘come’ si insegna. Io, allora impavido trentenne, feci notare - con forti accenti critici e suscitando fra dirigenti e colleghi un certo timore reverenziale per l’illustre ospite - che i migliori insegnamenti agli insegnanti vengono dal rapporto con gli allievi.
    Pochi giorni fa trovo nella cassetta delle lettere la recente pubblicazione di alcuni discorsi, tenuti alla radio negli anni Cinquanta dal celebre avvocato Francesco Carnelutti. Un dono del caro amico Gian Pietro Calabrò, direttore della Collana “La testa di Gorgone”, della quale il libro fa parte.
    Non sono mai entrato in un’aula di giustizia, né per accusare né per difendermi, né ho mai seguito con passione le vicende giudiziarie. Ma il nome dell’autore del libro mi era noto, perché ricordo dall’infanzia che, quando mio padre voleva ricondurre alle giuste dimensioni le eccessive pretese oratorie di qualcuno, diceva: “E chi è? Carnelutti?”
    La sera apro il libro e, giunto alla lettura del quinto capitolo, mi sembra di trovare conferma della tesi da me sostenuta trent’anni prima di fronte al Signor Ispettore; una figura che, ancora oggi, tanto mi ricorda gli alti burocrati della Russia zarista, così come descritti nella sua vasta ed insuperata letteratura dell’Ottocento.
    Accertatomi di non far torto all’editore e al curatore del libro, e sperando di fare comunque cosa gradita ai lettori di questo blog, pubblico qui di seguito le due bellissime pagine dedicate da Carnelutti - con l’eleganza che solo gli uomini d’un tempo sapevano padroneggiare - alla natura del linguaggio e al rapporto di reciprocità che lega insegnante e allievi. Come nell’amore e nella carità, anche nell’insegnamento “dando si riceve e ricevendo si dà”, in un circolo virtuoso che si autoalimenta indefinitamente.
Cataldo Marino
  

Francesco Carnelutti    
     << La donna, a un certo punto, partorisce perché non può trattener più l'altra vita dentro di sé. L'uomo parla perché a un certo punto non può più tacere. La donna quando partorisce è in tristezza, ha detto Gesù. Il travaglio del partorire e il travaglio del parlare sono, al fondo, la stessa cosa. Ricordo di avere accennato, tempo fa, a un turgore del pensiero: l'idea preme, come un neonato, per venire al mondo. Il volto dell'artista è contratto nello sforzo come il volto della madre nel generare; e quel soffrire è il prezzo della gioia che viene dopo: guai se quel prezzo non viene pagato. Poi, è tempo di giubilo, «perché è nato un uomo». 
     Un uomo nasce dall'oscuro bisogno che ha l'uomo di uscire da sé. Dallo stesso bisogno nasce la parola. L'uomo parla perché ha bisogno di capire. Capire, da capere: prendere, afferrare, impadronirsi. Ma come: non parla invece per farsi capire? E farsi capire non significa dunque farsi prendere? Sembra che si debba scegliere: prende o si fa prendere? Leggevo tempo fa, in un romanzo di Béatrix Beck, Leon Morin prêtre, che la donna, veramente, prende anzi che essere presa; e sembra la verità, ma la verità è anche l'altra, che è presa anzi che prendere; cioè la verità è più veramente che non esiste, nell'amore, una differenza tra ricevere e dare: dando si riceve e ricevendo si dà. E’ il miracolo della carità, dopo tutto; ma anche il miracolo dell'arte, o il miracolo del pensiero, che è la stessa cosa. Uno non fa capire se non capisce; ma non capisce se non fa capire; perciò ha bisogno di farsi capire per capire: insomma l'idea ha bisogno di sprigionarsi per essere imprigionata; e questa è o almeno sembra essere una contraddizione; ma anche la più sicura esperienza della vita dello spirito, per poco che chi la vive tenga gli occhi aperti. 

     Il compito del maestro non è quello di capire per far capire? Io, nei primi anni d'insegnamento, credevo che avrei detto in iscuola quello che avevo capito, che dovevo avere capito, altrimenti non l'avrei potuto dire. Capire, infatti, non vien prima di far capire? Come avrei potuto far capire quello che non avessi già capito? È mai possibile dare ciò che non si ha? Perciò preparavo scrupolosamente la lezione cercando che non mi restasse nulla da capire di quello che avrei dovuto far capire. 
    Poi, a scuola, succedeva spesso, anzi sempre più spesso, una strana cosa: a un tratto s'illuminava un aspetto del problema, che durante la preparazione era rimasto in ombra e, nello sforzo di farmi capire dagli scolari, affioravano delle formule che chiarivano meglio le cose a me prima che a loro, ond'io finivo per essere il primo scolaro di me stesso. Sul principio, mi facevo per questo un rimprovero, come se non mi fossi preparato a dovere; a poco a poco però le ripetute esperienze mi persuasero che, per quanto diligente fosse stato il mio studio, succedeva sempre la medesima cosa. Qualcosa ci doveva essere a scuola, che mi aiutava a vedere quello che a casa, malgrado la buona volontà, non avevo veduto. Che c'era dunque a scuola in confronto con la casa? 
     L'ambiente? Confesso che io sono uno di quelli, per i quali il luogo in cui lavorano non è indifferente. Se posso scrivere accanto a una finestra spalancata sulla campagna o sul mare, qualcosa di meglio vien fuori di sicuro. Mi sembra di fare, così, provvista di bellezza; e la bellezza è lo splendore della verità, ha detto Platone. Se dal mio studio di Cortina non avessi potuto gettar l'occhio, di continuo, sulle Tofane o sul Becco di mezzo-dì, chi sa se sarebbe venuta al mondo la Teoria generale del diritto? Ma certo, dovunque io sia stato, a Catania come a Padova, a Padova come a Milano, a Milano come a Roma, l'aula della università non mi offriva nulla che potesse paragonarsi, sotto questo punto di vista, al luogo dove preparavo la lezione.

     In quell'aula c'erano, però, gli scolari. E non è a dire che sul principio mi sciogliessero la lingua, gli scolari. Tra le varie specie del pubblico, quella degli scolari è una delle più pericolose. E il pubblico, qualunque sia, a chi gli si affaccia, mette sempre paura; e forse anche di questo riusciremo a intravvedere il perché. Senonché anche la paura è uno stimolo per chi cerca, come deve, di superarla. Il coraggio vero (ne abbiamo parlato l'anno scorso) è quello di vincere la paura. Insomma, in faccia agli scolari, io sentivo più profondamente l'impegno. Almeno è questa la ragione del fenomeno, che mi apparve da principio, quando credevo ancora che il maestro fosse soltanto uno che dà e il discepolo uno che riceve. 
     Poi, quando mi sono, man mano, più sciolto con loro e ne ho tollerato, anzi ne ho desiderato le interruzioni, è stata qualcuna di queste che mi ha aiutato a trovar la ragione più profonda. Non mi ricordo dove (ah! è stato nella prefazione ai Dialoghi con Francesco) ho scritto che se la sapienza non si tuffa di continuo nella ignoranza, rischia di morire asfissiata. […] Che ci possa essere qualche rapporto tra la consolazione dell'ignoranza e la consolazione della filosofia? Fatto sta che quell'ignoranza, qualche volta, illuminava il problema come un raggio di sole: il problema, intendo, che formava oggetto della lezione; ma ha illuminato anche quello, che forma oggetto del colloquio di stasera. 

     Così ho finito per capire che se m’aiutava quello dei discepoli, il quale osava pormi un'ingenua domanda, m'aiutavano anche gli altri che ascoltavano, in silenzio, le mie parole. Questa ho capito poi essere anche la ragione del dispetto cagionatomi da quei pochi, dei quali era manifesta la distrazione. Non capivano, dunque, che avevo bisogno di aiuto? Bisogno, già, bisogno di vedermi davanti quei volti giovanili attenti, donde partivano degli sguardi che parevano veramente raggi di sole; e tutti convergevano su di me ed io mi sentivo come librato nella luce. 
     Fantasia? Può darsi. E lasciatemi fantasticare. Lasciatemi credere che se ci fosse una pellicola sensibile al pensiero avrebbe registrato quel fascio di raggi, che andavano e venivano tra il docente e i discenti, ma il docente non era che uno specchio rivolto a raccogliere una luce piovente dall'alto e quanto più la raccoglieva per rifletterla sugli scolari tanto più questi, essendo degli specchi anch'essi, ne restituivano a lui.>>

Francesco Carnelutti “Il canto del grillo”, Cedam, 2014, pagg. 34-37