venerdì 31 gennaio 2020

Luigi Santucci "Volete andarvene anche voi?", Mondadori 1969






Capita, capita a volte di comprare un libro e di metterlo presto negli scaffali perché ad una prima lettura non ci dice nulla. Magari arrivi a pagina 20 e dici ‘non ne vale la pena’.
Capita però a volte anche di ripescare quel libro dopo molti decenni, di rileggerne qualche pagina e accorgersi di aver sbagliato. A me è capitato ultimamente con “Volete andarvene anche voi?” di Luigi Santucci, comprato negli anni Settanta e ripescato nel 2020.
Di libri e articoli sulla vita di Gesù ce ne sono sicuramente decine o centinaia di migliaia. Alcuni cercano di spiegare e commentare fatti e discorsi del personaggio, altri cercano di scavare sulla storicità (o sul carattere mitologico) dei vangeli canonici, gnostici e apocrifi. Alcuni seguono cronologicamente gli eventi esposti nei testi, altri tentano – spesso invano – di ricavarne una dottrina unitaria, con coerenza quasi filosofica.
Il testo in cui mi sono imbattuto non ha nulla in comune con tutto ciò. E’ una semplice, ma bella, riesposizione poetica dei brani più significativi dei vangeli canonici. Mentre altri si lambiccano il cervello su ciò che è vero o falso, storico o immaginario, giusto o ingiusto, e si inoltrano negli oscuri meandri dell’esegesi, Luigi Santucci - sui personaggi, sulle parole e sui fatti narrati dai quattro evangelisti - costruisce dei piccoli ma suggestivi racconti. Non va alla ricerca di verità ‘estraendo’ dati, ma ‘aggiungendo’ ciò che il cuore e la fantasia gli suggeriscono.
Ecco una bella pagina su Giuseppe. I vangeli dicono poco di lui. Ma è possibile, in base ai pochi fatti di cui è protagonista, tratteggiarne la figura semplicemente in modo umano? Santucci ci prova!

<< Colui che c'interessa è Giuseppe. Giuseppe è casto, nobile e falegname.
Casto. All'estuario di tanta fecondità, di tanti concepi­menti, un uomo che non feconda, che non concepisce: un uomo asciutto, la cui pelle coincide col proprio pudore e le cui mani non hanno toccato che pane, legno, cuoio, tes­suto di vesti e cenere di focolare.
Nobile. Ma a nessuno degli antenati somiglia. La sapien­za di Salomone e l'ardimento di Davide sono colati, per le vene dei secoli, fino a lui, ma egli li ha stemperati in una candida dimenticanza; e così la lussuria d'Israele (quella che folgorò anche Salomone, quella che accecò anche Davide, torva e meridiana), egli l'ha purgata in una verginità ch'è piuttosto un'infanzia senza tramonto. Invecchierà così den­tro quella fanciullezza come in un involucro trasparente. Entrerà nel premio della vecchiezza regalmente libero da ogni passione, senza screpolarsi al vento della virilità, sem­pre con quel suo medesimo colore un po' anemico che ha la gente di bottega.
Perché Giuseppe è il falegname, è il faber lignarius. E questo spiega tante cose. Il legno è materia nobile e strana; non è più terra, e carne non è ancora; è come il latte, che non è sangue ed è già più che acqua. Il legno è sensibile e casto, e Giuseppe esercitava la sua innocente sensualità ripassando le palme aperte sulle assi denudate dalla pialla, carezzando gli spigoli smussati al tornio e respirando dalle narici la fragranza dei trucioli, quell'odore di fatica che, chiunque s'affacci dalla porta, fa alzar la fronte sudata nella certezza che entri un amico. Il legno è bontà.
Colui che c'interessa è il falegname Giuseppe, eletto cu­stode nell'abisso dei cieli. Può custodire proprio perché è trasognato, può vigilare perché è assorto, può diffidare per­ché ingenuo, guidare perché inesperto.

[Ma]…All'uomo più limpido è capitato l'incidente più scabroso. “Maria... essendo sposata a Giuseppe, prima che fossero venuti a stare insieme si trovò che aveva concepito...
Tutta la Giudea lapidatrice di adultere ruggisce intorno al destino di Giuseppe, i polsi di questo giusto martellano, la sua mente è smarrita. Lo scandalo, lo scandalo beffardo e crudele, in una terra che non sa compatire e nemmeno sor­ridere, ma solo condannare.
Giorni tormentosi. La pena di Giuseppe non è il sentirsi ludibrio d'una città puritana, non è il rancore del tradito né la nostalgia di chi perde la donna del cuore. È la pena più alta di chi scopre fallibile la creatura creduta migliore di tutte; un pudore di girar per le strade e una vergogna dì rimanere in casa; l'affanno di chi vorrebbe perdonare e non gli è lecito, e si dibatte fra l'orrore di far male a lei e l'arma del ripudio che la società gli pone imperiosamente fra le mani perché difenda il suo onore.
…È solo coi suoi legni, nella penombra della bottega dove tutto sembra immutato, ove corre la pialla e canta la sega mentre il dramma gonfia nel cuore. E fra i suoi legni Giu­seppe trova il buon compromesso: “Però Giuseppe suo sposo, che era un uomo giusto e non la voleva diffamare, risolvette di ripudiarla segretamente.

Giuseppe, come le anime caste, sogna molto. I sogni di queste creature diafane sono simili a una rugiada che benefica durante la notte e soltanto il sole del mezzogiorno farà sparire del tutto. […]
Giuseppe sogna sempre, e appena prende sonno il suo respiro ha la cadenza di un passo in contrade misteriose dove l'operaio è atteso ogni notte, a vedere e udire. In queste notti invece ha sul petto un macigno, è un dormire cattivo fra lagrime e smanie.
Ma ecco che per la benevolenza di un amico notturno l'affanno si cambia in gioia, l'incubo si scioglie nella felicità che solo ci può dare una condanna revocata, una ricchezza perduta e restituitaci intatta. “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te la tua sposa Maria; perché quello che è nato in lei è opera dello Spirito Santo.” 
Dunque sei pura: posso portarti nella mia casa.

…Invece addio Giuseppe, ingenuo fidanzato di Galilea: addio al tuo sogno d'amore. Nel giubilo di quella notizia celeste ti sono rimaste oscure le parole aggiunte dall'angelo: “... darà alla luce un figlio... egli salverà il popolo dai suoi peccati”.
Tutta la tua vita da oggi sarà un lungo tacere, un lento capire l'enigma di questa frase. Capire il senso della tua dura predestinazione: su chi avevi alzato gli occhi di giovane po­polano; con che cosa sono state barattate le nozze che avevi sperato serene e oscure; chi ti è entrato in casa... Capire la tua sposa, capire tuo figlio, capire te, Giuseppe, che sarai - tu - il nostro primo santo.
Da questo momento non sapremo più niente di te. An­cora poche pagine e non ti nomineranno più, il Vangelo ti ingoia. Intravvederemo solo le tue mani sulla pialla, udremo il morso ovattato della tua sega, per un numero d'anni che nessuno conosce. Poi ti ritroveremo sugli altari delle chiese, nei quadri a capo del letto, nelle immagini dei devoti, canuto e rugoso, come se davvero fossi stato sempre un vecchio; a noi piace dimenticare che fosti, vicino a Maria, un giovane bello e forte: un giovane innamorato. >>


* * *

I miracoli narrati nei vangeli sono tanti. Sono credibili o si tratta di ‘strumenti’ mediante i quali venne costruita una nuova religione, da accostare o contrapporre a quella del Pentateuco?
Alla veridicità dei miracoli Santucci non vuole fornire alcuna prova, né a favore né contro. Vuole – come poeta o forse come psicologo – dimostrare la necessità umana di sperare nei miracoli. Ed ecco un’altra sua bella pagina, dalla quale spero emergano le grandi qualità di uno scrittore ingiustamente tenuto in ombra.

<< Non c'è niente di così estraneo, inesplicabile ed insopportabile per l'uomo quanto la natura che lo fascia con le sue leggi, la causalità torpida e massiccia che c'imprigiona in ogni istante, che fa cadere il sasso lasciato dalla mano, fermare il cuore di chi amiamo solo perché questa macchina di carne si è rotta in qualcuno dei suoi stupidi ordigni.
Non è vero che il mondo è già tutto un miracolo — la luna che spunta, il seme che si fa pianta, la formica che ammassa le provviste per l'inverno. Ciò alcuni dicono per un gretto puntiglio, per un empio equivoco e mentiscono. Questo mondo è meraviglioso ma non fa ancora per noi. Noi siamo nati per un mondo dove le formiche parlino, il seme di magnolia faccia nascere gazzelle, la luna cada nel pozzo come nelle metafore dei poeti.
Non c'è un uomo, fra tutti quelli che respirano in questo momento sotto il cielo, che non abbia il miracolo da chiedere, che non aneli un miracolo. Oggi più che mai noi moriamo di questa sete. Nel nostro tempo riddano a migliaia i prodigi della scienza. Ognuno di essi, più è complicato e strabiliante, più ribadisce in noi l'umiliazione che non sappiamo fare miracoli, solo ricamare abilmente i fili di questa maglia di leggi con cui la natura c'irretisce. Guidiamo cascate gigantesche, ma non possiamo far cadere una sola goccia di pioggia; sentiamo le voci di chi ci parla dalla luna, ma non percepiamo la voce dei nostri morti che ci toccano mentre ci crediamo soli.
Ogni miracolo dell'uomo sta chiuso e spiegato in una bobina cilindrica, in una provetta di vetro; ma nelle favole della nostra infanzia non c'erano bobine, non c'erano pro­vette: il ranocchio si trasformava nel bellissimo principe solo perché la reginotta si chinava a baciarlo. Così anche l'uomo che ha tutto invoca il miracolo perché il miracolo, prima di un soccorso benefico, prima di un dono utile e risolutivo contro la pena, è l'ebbrezza dell'infanzia che torna a incantarci, la rivincita di quella prima saggezza innocente sulla bugiarda sapienza di poi. È la bandiera della patria che sven­tola in terra straniera sulla pietraia dei giorni non nostri, con dipinto il castello dove siamo nati per miracolo.

Il Vangelo è il campo dei miracoli. Non passa quasi giorno di quei mille che vanno da Nazaret al calvario, non si volta quasi pagina senza che il frullo di questo evento terribile vibri sulle sventure degli uomini che conobbero Gesù e lo supplicarono. 
Pure, una cosa appare subito chiara: che dei miracoli Cristo fu nemico. “O generazione malvagia e adultera, se non vedete prodigi voi non credete...”. Quale più quale meno, tutti i miracoli gli sono estorti, ora strappati alla sua pietà ora carpiti alla sua condiscendenza, perfino rubati con l'astuzia. E ogni volta che uno ne concede noi sappiamo che quel cieco che apre gli occhi, quello storpio che getta le grucce, quel morto che risuscita non è il vero miracolo se non per noi. Per lui il miracolo è l'altro, quello che dovrebbe sgorgare di conseguenza, per ottenere il quale ha ceduto a farsi stregone e che invece gli riesce solo raramente: la fede. "Perché voi crediate... io dico a te, levati, prendi il tuo lettuccio..." "Credete che io possa fare questo? Vi sia fatto conforme alla vostra fede" "Se puoi credere, ogni cosa è possibile a chi crede" "Alzati, va', la tua fede ti ha salvato". >>
[…]