martedì 30 ottobre 2012

Cataldo Marino: Racconti brevi


I racconti che seguono, da me scritti nel 2001 - tranne gli ultimi sette, risalenti agli anni immediatamente posteriori -  sono stati pubblicati su www.descrivendo.com (vecchio sito) con lo pseudonimo “Aldom”. Dei relativi diritti morali (paternità e integrità) esiste prova certa e documentabile.
Cataldo Marino

* * *

L’aquila

Certi particolari a volte non sono poi così insignificanti. Aveva guardato a lungo il viso, il collo, il petto e il resto di quella figura femminile, e tutto era perfetto. La guardava da su in giù e da giù in su. Perfetta. Istintivamente però, pur cercandone il centro, tendeva a guardare sempre più giù. E, finendo per andare troppo in giù, non trovava il centro, ma i piedi.
Ed i piedi erano imperfetti. A pensarci bene, erano strani …quasi mostruosi. Callosità diffuse formavano colli e monti e l’angolazione estrema fra falangine e falangette faceva pensare a un uccello rapace, piuttosto che ad un essere umano. L’emozione non si attenuò e si chiese se quello era proprio il giusto soggetto da osservare con tanta ammirazione: fra le labbra sorridenti e carnose e quelle asperità delle estreme parti del corpo c’era una contraddizione strana e stridente.
“E’ un uccello – disse - è un uccello con il corpo umano. Potrebbe arpionarmi con le unghie o distruggermi col becco, mentre sorride.”
Qualcosa di anomalo c’era di sicuro e, quando poi vide la strana figura spiccare il volo fra le aspre montagne circostanti, non ebbe più dubbi. “E’ un uccello rapace – pensò - Ulisse fu tentato dalle sirene ed io sono stato attratto da un’aquila.”
Ma perché un’aquila dovrebbe corteggiare un uomo? Un dubbio s’insinuò nella sua mente e i nervi si contrassero. Pensò che l’aquila per sua natura cattura, ferisce e dilania, dando pace solo in questo modo al suo appetito.
Si allontanò per quel tanto che gli permettesse di mettersi in salvo, ma l’aquila al contrario si avvicinava sempre più. Sembrava inoffensiva e quasi timida. Parlò come parlano gli esseri umani, ragionando e manifestando alcuni suoi sentimenti. Le unghie non si vedevano più. La coda s’illuminava e gli occhi si facevano dolci, tanto dolci da creare confusione nella mente.
Volarono insieme per ore ed ore e sembrava che le cose più belle del mondo sarebbero state, sotto le ali della dolcezza, ad aspettare. Poi scelsero un nido rotondo con erbe e rugiada. Lui aveva dimenticato gli artigli in cui si prolungava la vita di quell’essere strano e gioiva senza passato e senza futuro.
Mentre si amavano, sentì però a un tratto una strana sensazione sulla guancia, poi dolore. E poi vide sangue. Guardò ingenuo negli occhi dell’aquila e vide uno strano sorriso. “E’ sangue?” le chiese incredulo. L’aquila non lo tranquillizzò. Si limitava a ridere.
“Cosa sarà? Forse la dolcezza del volo esige un sacrificio come nei tempi andati?” E un altro fiotto gli comparve, senza sapere come, sul petto.
Guardò intorno per cercare gli oscuri aggressori, ma non vide niente né in cielo né in terra. Tutto era come doveva essere. Le unghie dell’aquila spuntarono però rossicce, anzi rosse.




Lo straordinario

Aveva una moglie tanto carina quanto vanitosa e, a parlarci anche pochi minuti, si sarebbe capito che per lei era necessaria una vita comoda e con inequivocabili segni di lusso e prestigio. Col passare degli anni anche lui si era dovuto adeguare a questo stile di vita e ciò si vedeva dal suo modo di vestire piuttosto appariscente, dalle automobili sempre ben tenute e, non ultimo, da un modo di camminare che faceva pensare più ad una conquista del territorio che ai normali e semplici spostamenti, funzionali alle attività lavorative o ludiche che fossero. Le sue falcate erano ampie e quasi distratte, tali da non segnare una precisa linea retta, ma da coprire anche spazi non necessari alla direzione di marcia. In questa andatura era coinvolto tutto il corpo, che ad ogni passo, nella conquista dell’aria, subiva una rotazione di alcuni gradi rispetto al suo asse.
Lavorava in una piccola azienda. Si era diplomato da geometra nella vicina città e, non riuscendo ad entrare nel settore delle libere professioni, aveva dovuto ripiegare su un lavoro incongruente con gli studi fatti, perché in realtà in quella piccola azienda non faceva il geometra ma piuttosto il ragioniere.
Sono cose che succedono e non c’è da stupirsi molto per esse. Il vero problema era che i modesti cespiti da lavoro non riuscivano a coprire le spese necessarie a mantenere il livello di vita che la famiglia riteneva indispensabile. Perciò, dopo pochi anni dal matrimonio, si rese conto che, se non voleva mandare all’aria l’allegra compagnia, avrebbe dovuto ingegnarsi in qualche attività parallela capace di finanziare gli acquisti di quel “superfluo” che ormai era diventato il “necessario”.
Cominciò allora ad offrire alcune piccole prestazioni occasionali ad una agenzia immobiliare. Egli aveva dimenticato le formule e i disegni necessari per costruire gli edifici, ma aveva conservato un piccolo libro di estimo la cui consultazione, unitamente ad un certo intuito per la materia, gli consentiva di dare utili consigli sugli acquisti e sulle vendite.
Purtroppo questa seconda attività bastava appena a coprire le spese minute. Serviva più denaro, la cosa si capiva bene dal crescente stato di irritazione che accompagnava i gesti della sua signora ogni qual volta servivano vestiti nuovi, profumi e gioielli o quando si programmavano costosi viaggi di svago.
Decise perciò di fare del lavoro straordinario nella piccola impresa in cui lavorava. La sera, quando tutti gli altri andavano a casa, lui rimaneva in ufficio per controllare i conti bancari ed i registri delle fatture. Poiché durante il giorno si dava un ritmo di lavoro non molto stressante, la sera non gli pesava eccessivamente rimanere alla scrivania ancora un paio d’ore. Si accorse anzi che, in assenza dell’imprenditore, egli poteva dare una sbirciatina anche alle carte più riservate, soddisfacendo la sua naturale curiosità, e che di tanto in tanto, affacciandosi alla finestra dell’ufficio, si potevano seguire i movimenti della giovane donna che abitava nel palazzo oltre la strada. Senza quasi accorgersene, cominciò a coltivare sempre più spesso questa seconda distrazione. Delle due ore di straordinario, segnate regolarmente a suo favore sul libro paga, una all’inizio era dedicata a guardare dalla finestra. Col passare del tempo, però, da semplice osservatore cominciò ad essere anche osservato e perciò un’ora non bastava più. In pratica il suo “straordinario” cominciava ad essere dedicato interamente alla fanciulla.
Quando la sera tornava stanco a casa, aveva ancora negli occhi i gesti con cui la giovane donna aveva ricambiato il suo interesse per lei. Perciò egli aveva sempre un’aria piuttosto distratta, i suoi movimenti erano imprecisi, lo sguardo fisso, le parole vaghe e sconnesse. Ma la moglie di ciò neppure si accorgeva, perché anche lei pensava ad altro, alla boutique di Sonia, i pettegolezzi con le amiche, le passeggiate sul corso e altre cose del genere. Nessuno dei due si stava accorgendo che la storia di una coppia si stava trasformando in due storie diverse. Di separati in casa, prima, e di divorziati dopo.



La croce

Come un uomo palesemente bugiardo possa guardare negli occhi l’interlocutore senza manifestare il benché minimo senso di disagio, era una di quelle cose che trovava veramente stupefacenti; eppure casi del genere erano tutt’altro che rari, facevano parte della sua esperienza quotidiana. Egli per contro ricordava quali strane reazioni di vergogna aveva provato da bambino per i rimproveri della mamma e, perfino adesso, da adulto, se gli capitava di commettere un errore, nel suo intimo provava sempre un cupo senso di malessere. Fin dall’adolescenza non riusciva a pensare a Dio come un essere capace di interferire attivamente nella vita degli uomini e tuttavia gli rimaneva nella coscienza un alto grado di vigilanza, perché Dio in alcuni momenti gli si poneva davanti, comprensivo e pronto al perdono ma anche inflessibile. Fra coloro che, invece, ogni giorno ne parlavano come se lo conoscessero personalmente, ve n’erano tanti, troppi che, pur se colti in stato di conclamata flagranza, erano pronti a negare l’evidenza e spergiurare con estrema facilità. Ecco, negare una colpa non chiaramente dimostrata era cosa in fondo comprensibile, negare invece una colpa evidente aveva del diabolico.
Casi del secondo tipo, come dicevo, ne aveva constatati tanti nella vita, ma il fatto cui si trovò ad assistere un certo giorno gli ridiede quell’equilibrio di idee e sentimenti che aveva cominciato a vacillare sotto i colpi dell’impunità. Era una serata piovosa e, proprio per questo, egli andava in giro per la città senza uno scopo preciso; la pioggia gli dava, ora come da bambino, un senso di intima gioia. Passando davanti ad una delle tante chiese della città, decise di entrare: lo faceva spesso quando sapeva che per via dell’ora non c’era molta gente e poteva parlare mentalmente con quel Dio, autore del libro che leggeva più di frequente ed in particolare nei momenti più difficili dell’esistenza. Come poi fosse possibile parlare con uno che non esiste era un mistero che si aggiungeva ai tanti altri misteri della vita !
Più che per pregare, andava per avere consigli. Raccontava fatti accaduti e sue personali considerazioni e poi chiedeva come doveva comportarsi; lo chiedeva a quell’altare di marmo, a quel crocefisso di legno, a quel ritratto di Francesco; poi si rispondeva da solo, ne era cosciente, ma la risposta, data e ottenuta, gli sembrava trarre origine da una fonte esterna a lui, anche se non ben identificabile.
Quel giorno, mentre a modo suo dialogava col Cristo sanguinante, testimonianza delle umane ingiustizie e della comune condizione di sofferenza, in chiesa erano presenti cinque persone, due in piedi con le mani giunte e tre in ginocchio; ma dopo alcuni minuti ne entrarono altre due. Tutto faceva supporre che anche questi uomini fossero venuti lì per avere indicazioni sulle vie da seguire. E invece continuarono a discutere delle cose precedenti all’entrata in chiesa e, per nulla intimiditi, si accusavano a vicenda su questioni finanziarie e si scambiavano gli epiteti più offensivi; entrambi si davano poi del bugiardo, ma nessuno dei due era disposto a confessare le proprie colpe.
Fu in quel momento che vide il Cristo schiodarsi, avanzare verso un giovane alto e robusto in ginocchio in prima fila e infiltrarsi come un’ombra nel suo corpo; il giovane immediatamente si alzò, si diresse verso i due litiganti e li spinse con decisione fuori dalla chiesa.




L’intrigo

Aveva circa cinquant’anni e, come molte delle colleghe dell’ufficio in cui lavorava, aveva una cura quasi maniacale della sua persona. Il suo abbigliamento era quasi sempre impeccabile per via di una scelta accurata della qualità delle stoffe e di una costante attenzione per l’abbinamento dei colori, che preferiva in genere vivaci, per meglio spendere il suo buon gusto. Capitava anche a lei ogni tanto di esagerare e di cadere nel kitsch, ma ciò, bisogna dirlo, accadeva raramente.
Oltre che dell’abbigliamento essa aveva molta cura di tutte le altre componenti del suo look: acconciature sempre gradevoli nei colori e nella forma ed un’accentuata sottolineatura delle labbra e degli occhi, operata però con grande maestria; solo il massiccio uso di fard e creme denunciava una preoccupazione un po’ eccessiva per gli effetti degli anni sul viso e sul collo, effetti che con tali ritocchi venivano però mascherati alla perfezione. Con un’operazione mentale tesa a privare la signora Letizia di tutti gli accorgimenti presi per crearsi il suo fascinoso look, si sarebbe potuto immaginare che sotto tutto questo potesse albergare anche una sagoma tutt’altro che perfetta, ma, ad una osservazione breve, superficiale, acritica e possibilmente non troppo ravvicinata, non si sarebbe potuto provare che un sentimento di ammirazione, se non addirittura una certa attrazione, sentimento che attecchiva stranamente anche fra le sue colleghe.
Ad impreziosire il tutto intervenivano infine un portamento deciso e naturale, che diventava goffo solo in particolari circostanze di nervosismo, ed una affabilità, che avrebbe potuto indispettire le migliori attrici del cinema hollywoodiano.
Tutte queste qualità, che ben si accordavano con la sua personalità decisa ed ambiziosa, aiutavano non poco la signora, non solo a risolvere i problemi che le si ponevano di volta in volta, ma anche ad osare in progetti sociali e professionali arditi e di lungo respiro.
Uno di tali progetti nacque nella sua mente allorché nel suo ufficio si rese libero un posto di alta responsabilità. Poiché l’incarico per il prestigioso ruolo rientrava nella sfera delle competenze del direttore amministrativo, programmò una serie di contatti con tutti coloro che avevano su di lui una certa influenza, al fine di far emergere le sue particolari attitudini a gestire le pubbliche relazioni e saper in tal modo assicurargli un elevato grado di collaborazione da parte dei dipendenti. In tutti questi contatti dimostrò notevoli capacità di adeguare il suo comportamento alle persone che avrebbero dovuto aiutarla, puntando per alcuni su particolari aspirazioni, per altri invece sulle loro debolezze e sui loro timori.
Alla signora Beatrice, ad esempio, fece capire che, qualora fosse stata aiutata ad ottenere l’incarico, avrebbe fatto il possibile per trasferirla in una stanza che si trovava al piano terra, dalla quale, durante le ore di lavoro, non avrebbe avuto eccessive difficoltà a sgattaiolare e assentarsi per andare a casa di tanto in tanto e dare un’occhiata ai bambini. Alla collega Carla, molto sensibile al fascino del denaro, promise l’assegnazione di lavoro straordinario ben pagato. Alla collega Lucia, sempre timorosa, data la sua speciale tendenza alla distrazione, di commettere errori nella tenuta dei registri contabili, assicurò una piena collaborazione nella revisione degli stessi ed ogni forma di copertura di responsabilità in caso di irregolarità. Al signor Giovanni, un uomo molto attratto dalle lusinghe del gentil sesso, riservò sorrisi venati di strana complicità, mentre al signor Battista, particolarmente pigro, prospettò la possibilità di mansioni di tutto “riposo”.
Quando giunse il momento di fare la scelta, il direttore amministrativo si consultò con tutte le signore ed i signori prima menzionati e, dopo un’attenta valutazione delle informazioni e dei giudizi forniti, non ebbe alcun dubbio: per il posto vacante la persona ideale era lei.




Il borgomastro

Alle pendici d’una serie infinita di aspre colline sorgeva un piccolo borgo, lontano molte miglia dalle grandi città. Nonostante la lontananza dalla capitale, le leggi dello Stato arrivavano e, bene o male, chi avesse voluto, almeno una parte di esse avrebbe potuto conoscerle.
C’erano però alcuni ostacoli da superare. Innanzitutto le leggi arrivavano con un ritardo assurdo per gli abitanti delle città, ma normale per quelli del borgo; a volte ci volevano molti giorni, altre volte anche mesi o anni. Ciò dipendeva da vari fattori: il corriere postale doveva superare diverse barriere di monti, per una strada stretta ed accidentata; poi c’era il fatto che la posta veniva consegnata ad un usciere che per mesi interi non andava in ufficio e, quando lo faceva, era talmente distratto che dimenticava i plichi in un cassetto per molti giorni; infine, a tutto ciò si aggiungeva il fatto che questi plichi finivano nelle mani di un borgomastro che operava una selezione rigida di tutte le comunicazioni, distinguendo fra quelle da cestinare, perché gli nuocevano, e quelle da diffondere, perché aumentavano il suo già smisurato potere.
Il borgomastro, per diventare tale, aveva dovuto superare una serie di difficili prove. Alcune di queste riguardavano la capacità di organizzare il villaggio in modo che non fosse mai possibile il verificarsi di mormorii o, peggio, udibili lamentele, perché queste sono la miccia dei subbugli del popolo minuto. Altre prove riguardavano il grado di istruzione del rappresentante del potere: aveva dovuto dimostrare di saper leggere, ricopiare, analizzare e spiegare le note che arrivavano dalla capitale, ma soprattutto aveva dovuto dimostrare che era in grado di valutare l’opportunità di applicarle o non applicarle, con intelligenza e flessibilità, in relazione alle situazioni che di volta in volta si presentavano. L’ultima prova, la più importante, consisteva nella verifica delle sue attitudini a trovare alleati fra qualcuno dei governanti della capitale: chi riusciva in questo, dava naturalmente la garanzia più inoppugnabile sulle sue capacità di gestire poi il potere in nome dell’autorità centrale.
Il borgomastro aveva percorso tutte le strade segnate nella ragnatela della burocrazia con determinazione e scaltrezza e da più d’un decennio riusciva a controllare la situazione del borgo, concedendo privilegi speciali agli amici e alternando lusinghe e minacce coi nemici. Il suo sistema di governo era semplice quanto arguto: dividere e contrapporre i primi ai secondi e fra questi ultimi contrapporre quelli deboli a quelli forti e, fra questi ultimi, contrapporre quelli tentennanti a quelli decisi. Con una lunga sequela di suddivisione dei sudditi, sbriciolava ogni potenziale tentativo di insurrezione. Il malcontento c’era ed era diffuso, ma le voci con cui esso poteva manifestarsi erano in parte controllate, in parte attenuate, in parte insonorizzate e in parte soffocate. Qualcuna fra quelle soffocate terminava con la rassegnazione, qualcun'altra con la morte per asfissia.
Il cittadino Karl era un raffinato cultore della logica formale: vero per vero dà vero, falso per falso dà vero, falso per vero e vero per falso danno invece falso. Da ragazzo era stato una testa calda, ma gli anni gliel’avevano rinfrescata, così, nel ricercare e separare il vero dal falso, aveva trovato un modo di vivere tranquillo. Vedeva gli artifici cui il borgomastro ricorreva col suo istinto primitivo per gestire il controllo del borgo, ma pensava che in fondo la vita di ognuno, compensando i picchi alti con quelli bassi, finiva per essere in sostanza abbastanza simile.
La storia andò così, fino a quando il borgomastro, nel momento più alto del suo potere, non emise un’ordinanza con cui si stabiliva che veniva concesso un vitalizio a tutti coloro che avessero accettato di farsi bendare un occhio e farsi incidere le corde vocali in modo da non poter più emettere suoni.
Karl comprò allora un flauto e per le strade del borgo suonò, per giorni, mesi ed anni, una melodia tanto dolce che il sangue finì per inondare oltre ogni misura le orecchie del borgomastro. Intanto il popolo minuto, annuendo per la nuova situazione venutasi incredibilmente a determinare, ballava con gli occhi ben aperti e cantava a squarciagola.




Ricordi

Sfiorò religiosamente alcuni degli oggetti della stanza preferita: la vecchia, modesta chitarra su cui aveva strimpellato mille volte le poche canzoni imparate nell’adolescenza; la costa di alcuni dei libri a lui più cari; la scrivania e lo schienale della sedia su cui sedeva ogni giorno alcune ore; il pianoforte dal quale aveva sentito uscire le più belle note, quelle che le minuscole dita dei suoi figli avevano suonato da bambini. Le cose che non sfiorava con le mani, le carezzava con lo sguardo.
“Mai e poi mai sopporterei di perdere una di queste cose” pensò, “Fra me e loro c’è un rapporto che non è solo quello di proprietà, esse sono una parte della mia vita passata, che a questo punto è sicuramente di più rispetto a quella che ancora mi resta da vivere. Ognuno di questi oggetti mi ricorda qualcosa. Quel vaso di cristallo ce lo regalò una delle più dolci ed intelligenti amiche. Il tavolo, lo volemmo rotondo, mia moglie ed io, per paura che un tavolo con gli spigoli potesse far del male ai nostri piccoli. Quella foto davanti ai libri ritrae il papà di mia moglie, e dentro non c’è solo il suo viso, perché di tanto in tanto lui esce sornione dalla foto tutto intero e passeggia per questa stanza con la sua tristezza, la sua allegria, la sua spietata ironia, innanzitutto quella verso se stesso e poi quella verso l’umanità, mai verso la natura, per la quale aveva un rispetto intimo, misterioso… forse solo artistico: vedeva le cose con l’occhio della sua macchina fotografica, più che vedere "inquadrava.”
Aldo era, evidentemente, uno di quegli uomini per i quali ogni evento lascia un segno e, nella sua mente, li aveva archiviati con cura maniacale, tutti gli eventi. L’amore per gli oggetti di casa sua non era che una espressione di alcuni di questi ricordi, quelli dei quali era rimasta una traccia materiale.
Un oggetto vecchio, anche se malridotto, è il più delle volte, migliore di un oggetto nuovo. Con questa filosofia le industrie creatrici del consumismo si trovavano di sicuro a mal partito. Una volta il vecchio assicuratore, rinnovandogli la polizza della sua auto, comprata vent’anni prima, esclamò: “Se tutti facessero come lei, molte case automobilistiche sicuramente fallirebbero!” Ma lui era fatto così e pensò che la sua vita valeva più di una fabbrica di automobili o di qualunque altra cosa e che, mai e poi mai, un imprenditore avrebbe rinunciato al suo profitto per salvare la vita d’un uomo.
Così era lui, anche se la descrizione finora fattane non deve indurre a pensare che non fosse capace di organizzare il futuro. Gli pareva anzi che un ordine preciso delle cose passate e la loro meticolosa manutenzione fossero fattori indispensabili per fare progetti, per il domani e per l’età senile, per sé e per i suoi cari.
Quel giorno, mentre sfiorava le cose con lo sguardo e riviveva altre situazioni con l’aiuto della penombra della sera, uno dei tanti ricordi incominciò ad assumere dimensioni più grandi, forme più precise, colori più decisi. Rivide se stesso mentre, adolescente, saliva i gradini di un vecchio palazzo che ospitava la locale sezione del Partito. All’epoca non c’era bisogno di precisare quale, gli altri essendo considerati semplici gruppi di interesse. Nella prima stanza c’era un biliardo, dove non disdegnava di fare qualche partita all’italiana coi “compagni”, nella seconda c’erano un televisore, un armadietto e diverse sedie, sparse a ridosso delle pareti o ammucchiate in un angolo e da tirar fuori quando c’erano le assemblee. Nella terza stanza, la più piccola, c’erano una vecchia scrivania coperta da una panno rosso, alcune sedie intorno e, in alto, i manifesti colorati del Partito. Lì, aveva visto seduti tante volte i compagni Marco e Stefano, due uomini di grande cultura e intelligenza, di alti valori morali, di impareggiabile generosità, di coerenza assoluta, fino alla morte. Lì, aveva ascoltato i primi discorsi sul popolo, sulla giustizia, sulla solidarietà, sulla pace e sulla vera democrazia. Lì, aveva visto i volti dei compagni che affollavano le frequenti riunioni: tristi, indignati, esasperati, in certi momenti; dubbiosi, riflessivi, meditabondi, in altri; gioiosi, festanti, esaltati, esaltanti in altri ancora.
Andò nella stanza da letto. Tolto il pigiama, infilò camicia, pantaloni e giacca, chiuse la porta di casa, salì sull’automobile, percorse pochi chilometri, parcheggiò, attraversò una piazza, salì per una vecchia gradinata ed entrò. Nella prima stanza, c’era un vecchio biliardo.





Il lago

Per poco o molto che le conosciamo, le persone tendiamo quasi sempre a catalogarle attribuendo loro un certo carattere, il quale però non è mai una qualità specifica, ma un insieme di qualità, a volte coerenti fra loro e altre volte invece molto eterogenee, tenute insieme solo dalla voglia di vivere, che in fondo è l’automatismo inconscio sul quale si regge la specie umana. Questa tendenza a catalogare risponde all’esigenza di semplificare la complessità dei rapporti sociali, per poter meglio capire, giudicare e prendere in tempi ragionevoli le nostre decisioni. E poiché si tratta di un meccanismo psichico funzionale alla nostra vita, non dobbiamo né indignarci né disprezzare coloro che vi ricorrono, che poi costituiscono la stragrande maggioranza dell’umanità.
Questo non deve però farci dimenticare come il “carattere” di un essere umano spesso sia, come si diceva, complesso e contraddittorio e come talvolta la stessa persona, posta in ambiti diversi, modifichi a tal punto lo stile di vita da sembrare addirittura dotata di una doppia personalità, senza che ciò comporti tuttavia una diagnosi di particolari patologie psichiche.
Il mio amico Mauri, ad esempio, era a tutti noto come uomo molto, forse anche troppo, rigido e razionale. La sua estrema rigidità si articolava poi in una serie di caratteristiche: la fermezza dei principi, un esasperato bisogno di coerenza logica interna e di coerenza fra le idee ed i comportamenti, l’intransigenza morale, la determinazione estrema nel raggiungimento degli obiettivi che si poneva. In lui non mancavano la dolcezza e la gentilezza, ma queste erano sempre subordinate alla chiarezza dei rapporti che instaurava con gli altri e al rispetto del nucleo fondamentale attorno al quale ruotavano le sue idee ed i suoi comportamenti.
Questo era il signor Mauri che tutti conoscevano in città. Ma non era esattamente quella stessa persona che, d’estate, si sarebbe potuta incontrare nel villaggio posto ai fianchi di un lago, dove da molti anni ormai non poteva fare a meno di passare le vacanze. Chiunque lo conoscesse, incontrandolo anche per poco, si sarebbe subito accorto che lì, nei mesi estivi, era diverso, più sorridente, più rilassato, più pronto ad accettare i difetti degli altri … e lì, ma solo lì, egli non era nemmeno più tanto sicuro che gli altri potessero poi avere dei difetti. Le sue idee restavano sempre quelle, ma i rapporti con gli altri cambiavano: sulle rive di quel lago le sue idee erano le sue idee e basta; del fatto che gli altri ne avessero di diverse o diametralmente opposte non gliene importava più di tanto.
Bisogna pur dire che quel villaggio aveva qualcosa di particolare. E lui stesso, che non aveva mai voluto sentir parlare di magia, segretamente pensava che esso qualcosa di magico doveva averlo. I cambiamenti che provocava in lui non solo erano evidenti agli altri, ma lui per primo ne era consapevole. Di questi cambiamenti egli si stupiva, ma solo fino a un certo punto, perché almeno alcune cose erano spiegabili. Si sa, ad esempio, che per le persone ansiose il lago è estremamente giovevole, e in fondo certe sue rigidità mentali erano forse il frutto del suo carattere ansioso. Ma questa spiegazione di tipo medico era assolutamente insufficiente rispetto ai radicali mutamenti dell’anima che egli subiva durante il soggiorno sul lago.
Doveva esserci dell’altro, ma l’unica ipotesi che al riguardo lo soddisfaceva era, purtroppo, anche la più fantasiosa: quel paesaggio doveva, secondo lui, essere molto simile a quello del lago di Genezaret, in Galilea, quello sulle cui rive Gesù predicò l’amore, insegnò le beatitudini e compì i primi miracoli. Se veramente le rive del lago Arvo rassomigliavano a quelle del lago di Genezaret, allora non c’era proprio da meravigliarsi che anche lì la vita potesse assumere una dimensione più religiosa e mistica e nulla vietava di pensare che un giorno Gesù, sia pur per errore, vi avesse potuto mettere piede lasciandovi una sua traccia.


Tre donne

Se fosse vero che gli uomini, quando è necessario, sono più bravi nel fare le guerre e le donne nell’organizzare le congiure, si spiegherebbe benissimo perché nella fabbrica tessile della città da un po’ di tempo la produzione incominciasse a calare e la qualità dei prodotti fosse talmente peggiorata che i migliori clienti, che in genere sono anche i più esigenti, gradualmente facessero diminuire le ordinazioni. Tutto questo infatti accadeva perché tre delle lavoranti, le più coraggiose e vanitose, avevano capito che il debole del capo per il fascino femminile apriva loro nell’organigramma aziendale spazi notevoli da conquistare con relativa facilità.
All’inizio ognuna di loro agì per conto proprio. Sofia si presentò un giorno nel suo ufficio, con un abito che ne impreziosiva le forme e i movimenti e, con grandi sorrisi, espose la sua opinione circa l’acquisto delle materie prime: gli scarti di lavorazione offerti dai fornitori a prezzi stracciati potevano essere utilizzati per ampliare la gamma dei loro prodotti e conquistare posizioni più forti nei grandi magazzini e nei bazar.
Dopo qualche mese fu la volta di Bruna, giovane che simulava perfettamente una timidezza inesistente; anche lei aveva un progetto da proporre all’anziano imprenditore: per aumentare i ritmi di lavoro sarebbe stato utile registrare su una scheda intestata a ciascun lavoratore le operazioni compiute giornalmente e rapportare il salario allo zelo dimostrato nel lavoro.
Infine toccò a Concetta, una moretta scaltra e dagli occhietti che guizzavano come quelli d’un gatto randagio; il suo consiglio riguardava la commercializzazione del prodotto: si trattava di selezionare gli agenti in base alla loro prestanza fisica ed inserire fra essi una certa quantità di ragazze benfatte, maggiormente capaci di accattivarsi le simpatie dei clienti più taccagni.
Nel volgere di pochi mesi Sofia, Bruna e Concetta si ritrovarono a dirigere i tre più importanti uffici dell’azienda, tutti posti al terzo piano e contigui all’ufficio del capo. La vicinanza fisica e la comunione di interessi creò fra di loro legami sempre più stretti di collaborazione. Adesso, quando c’era da proporre nuove idee, prima si consultavano, valutavano gli effetti di tali idee sulle loro posizioni nell’azienda e, anche se la cosa non era stata formalizzata, ognuna di esse, valutati i rispettivi vantaggi, poteva porre il proprio veto.
Quando ad esempio si decise di aumentare di otto unità il reparto B, ognuna di loro aveva dei nominativi, ma il numero otto non era divisibile per tre e così i nuovi assunti furono nove. Quando si trattò di meglio selezionare i fornitori di materie prime, ognuna aveva i propri favoriti, dai quali avrebbe ricevuto delle ricompense di cui il capo non avrebbe saputo nulla. Quando si trattò di aprire un nuovo bancario, ognuna suggeriva una diversa azienda di credito, basandosi più sui ritocchi ai tassi d’interesse dei conti personali che su quelli per il conto aziendale.
All’inizio le cose sembravano andare proprio bene. Il fatturato cresceva per via dei forti sconti, anche se non si calcolava con precisione se il prezzo copriva il costo di ogni prodotto. I lavoratori non si lagnavano, perché dalle schede individuali proposte da Bruna risultava sistematicamente che tutti lavoravano più del previsto. Tutti si dichiaravano felici, ma più di tutti era felice il capo, che poteva finalmente rilassarsi dopo il duro lavoro cui si era sottoposto per vari decenni, perché ormai era certo che le sue tre collaboratrici dirigevano con sicurezza e con risultati positivi la gioiosa macchina produttiva. Il maggiore tempo a disposizione poteva così meglio utilizzarlo per fantasticare ed elaborare i risvolti personalissimi di quella rivoluzione portata in modo così inatteso dal magico emergere delle tre fatine.
“Gran brava ragazza quella Sofia - pensava sprofondandosi in una enorme poltrona soffice ed anatomica – e…gran belle gambe”.
“Arrigo !”
“Dica, signore”
“Per cortesia, dica alla signora Sofia se può venire qui un momento.”
Sofia entrò su due tacchi a spillo che valorizzavano al massimo i movimenti rotondi della schiena.
“Dica, cavaliere”
“Lasciamo stare i titoli, Sofia, per cortesia mi chiami Nino e basta. Vede, ho pensato che potremmo semplificare le operazioni di carico dei camion, facendo una rampa, là, in mezzo al cortile. Cosa ne pensa lei?”
“Dovrei vedere.” E si diresse verso la finestra che dava proprio sul cortile.
Il suo sguardo percorse il corpo di Sofia voltata verso la finestra, dai polpacci alla testa ed ebbe il tempo di andare su e giù almeno quattro volte, mentre il suo viso diventava sempre più teso e gli occhi stravedevano.
“Ottima idea!” Disse Sofia voltandosi.
“Bene, Sofia, sono contento che tu sia d’accordo. Io di te mi fido ciecamente.” E, senza accorgersene, era passato dal “lei” al “tu”. Poi con voce un po’ incerta e con evidente disagio aggiunse “A volte mi chiedo se anche tu abbia in me la stessa fiducia.”
“E me lo chiede ? Per lei farei qualunque cosa.”
“Beh, qualunque cosa… Per esempio, verresti con me, se ti proponessi di andare per qualche giorno in giro per l’Italia per contattare personalmente i clienti ?”
“E perché non dovrei ?”
“Mah, pensavo…tuo marito…forse…”
“I mariti oggi non possono intralciare il lavoro delle donne. Se per l’azienda è necessario viaggiare, lo si fa. Anche lui lavora e sa che a certi impegni non ci si può sottrarre. Il mio lavoro oltretutto adesso rende alla famiglia più del suo.”
Il viaggio con Sofia durò dieci giorni. Cosa abbiano fatto in quel lasso di tempo nessuno lo sa con certezza e precisione; nessuno tranne Bruna e Concetta, le quali attesero pazientemente di presentar loro il conto al ritorno: una valanga al giorno di fatti inventati ma verosimili, in base ai quali risultava che Sofia era sempre stata così, molto facile e sbrigativa nel concedersi, e che il capo era un vero maiale.
Le due si vendicarono inoltre facendo circolare la voce che in azienda c’era scarsa liquidità, per cui i pagamenti non erano tanto sicuri. La produzione e le vendite in poco tempo calarono e il funzionario della banca, lamentando la scarsa movimentazione del conto, revocò il fido e bloccò gli assegni. La moglie di Nino sbarrò la porta di casa e ne fece cambiare la serratura, mentre i figli, meno drastici, scrissero al padre una affettuosa ma brevissima lettera che finiva con un pacato rimprovero: “Papà, potevi almeno stare un po’ più attento”.




Primavera

Inoltrarsi a maggio in una valle di aranci non è per due giovani innamorati di per sé un peccato, ma un modo per trovarsi irresistibilmente avvinghiati l’uno all’altra senza provare sensi di colpa, perché è il profumo dei fiori che decide tutto ciò che deve avvenire. Esso è infatti inebriante come un brandy, dolce come il miele, erotico come una danza araba. Fare l’amore in un posto così non garantisce un felice matrimonio, quanto piuttosto una stagione dell’anima, che difficilmente potrà cadere nell’oblio qualunque cosa potrà accadere in seguito.
Erano andati, i due, una volta in maggio, ignari entrambi delle conseguenze, in una valle d’aranci. Nella sera erano stati investiti da piccole folate di profumi ammalianti e poi travolti da un uragano di passione, che non dava neppure il tempo di sussurrarsi l’amore. Pochi i discorsi, ben bastando gli sguardi e i sorrisi a significare l’armonia interna d’ognuno e la percezione dell’assenso di tutta la natura circostante.
Dopo la prima, ci fu una seconda e poi una terza e poi una quarta volta; e poi gli incontri non si contarono più. La felicità smise d’essere una parola astratta, per assumere una fisicità palpabile e ben definita. La leggerezza dell’aria, dei colori, dei pensieri, dei gesti, faceva della valle un nido ovattato, dove nessuno avrebbe mai potuto essere sfiorato dall’idea del peccato.
Eppure, al sopraggiungere dei primi segnali della stagione estiva, l’incanto svanì. Nella valle arrivò la brezza del mare coprendo gli aranci dell’aspro odore della salsedine, i tramonti si vestirono di colori sempre più accecanti, il vento si fece secco e tormentoso, la pelle diventò arsa e dura, le parole persero la loro leggerezza e la loro trasparenza. Prima gli incontri si diradarono e poi di colpo tutto svanì come in un sogno.
Passarono mesi e mesi, prima azzurri, poi gialli e poi grigi, relegando la valle felice nel posto più nascosto e sicuro dell’anima, quello dove si conservano i ricordi che non devono morire. Da quel nascondiglio le immagini e i suoni non si possono tirar fuori con facilità, perché si correrebbe il rischio di perderli o modificarli. Durante quei mesi i cuori andarono in letargo, dell’anima restò solo il freddo pensare e le abitudini al lavoro, al gioco, agli atti quotidiani privi di consapevolezza.
Il tempo passava lentamente, ma ineluttabilmente portava una nuova fioritura. Nella pianura, sotto le altere chiome degli ulivi, sopra il tappeto verde dell’erba, cominciarono a vedersi i primi fiorellini variopinti, con forte prevalenza del giallo e del rosso. Qua e là fra gli ulivi esplodeva all’improvviso il bianco del mandorlo e il rosa del pesco. Il bianco dell’arancio restava invece ancora nascosto nel folto dei rami verdi.
Ma ai primi giorni di maggio quei fiori si svelarono di nuovo col loro profumo e, spinto da una forza interna sconosciuta, lui salì con l’auto verso una collina, si fermò sul bordo della strada e aspettò che lei scendesse con la sua automobile. Infatti, un’auto ad un certo punto sbucò dal tornante, rallentò, si fermò. Alice aprì lo sportello, sorrise e disse solo parole dolci, come se si fossero visti appena il giorno prima.
Di nuovo gli effluvi della valle sommersero le più antiche fibre dell’anima. Di nuovo gioia e tenerezza invasero i corpi, dando ai gesti più comuni la parvenza di una danza lenta eppur sconvolgente. Di nuovo i sorrisi rubavano e restituivano i colori alla primavera in una perfetta osmosi naturale e i giorni più non si contarono. Ma poi di nuovo sopraggiunsero la luce accecante e gli aspri odori dell’estate. Lucertole e serpenti conquistarono l’erba ormai gialla e un diabolico trasformista, che prendeva il volto di grinzose vecchiette, seriosi uomini e invidiose giovinette, li allontanò dalla valle definitivamente.
Non vide più Alice e strappò da tutti i calendari il mese di maggio, ma, quando quel mese arriva, egli viene sempre preso da una forte inquietudine.




Il coraggio

Il suo lavoro era stato abbastanza tranquillo pur se faticoso per l’ansia con cui lo aveva sempre affrontato e l’esasperato perfezionismo di cui soffriva fin da bambino, fino a quando non si scoprì che due pericolosissime bestie si erano intrufolate nell’edificio che ospitava gli uffici.
Una delle due bestie, che sembrava un rinoceronte, sostava nei lunghi corridoi e si spostava pesantemente e vistosamente solo quando l’agitarsi improvviso di qualcosa che disturbava la sua quiete lo induceva a caricare il presunto avversario. Le ferite causate non erano quasi mai letali, bruciavano ma in genere lasciavano in vita la preda di turno. Gli impiegati erano ormai abituati alle sue brevi quanto irruenti incursioni. Ognuno sperava sempre che capitasse ad altri e non a lui e comunque, quando gli capitava, aveva imparato a curarsi con i farmaci adatti, stando attento a fasciarsi poi bene la parte offesa, anche per evitare che la bestia, ricordandosi degli effetti notevoli della sua forza, fosse indotta a ripetere l’assalto per una seconda volta contro lo stesso nemico.
La seconda delle due bestie aveva già visitato in altri tempi quei luoghi ed aveva anch’essa mietuto diverse vittime. Ad un certo punto, per stanchezza o per ritornare ai luoghi d’origine, la foresta più fitta e tetra mai esistita, per un lungo periodo non s’era più fatta vedere. Ma ora era tornata più velenosa di prima. Si trattava infatti di qualcosa di simile a un serpente, che aveva però la straordinaria capacità di assumere il colore di una semplice biscia, una delle tante nere ma inoffensive bisce di cui sono ricche le colline circostanti soprattutto in primavera. Come tutte le bisce, essa aveva una forte inclinazione alla lussuria, ma nei due dentini, fra i quali sbucava improvvisamente una lingua sottile ed agilissima, aveva anche una micidiale dose di veleno. Naturalmente non poteva, come tutti i serpenti, colpire più di un soggetto per volta, fra una vittima e l’altra doveva passare il tempo giusto perché si riformasse la stessa quantità di veleno da usare per la vittima successiva.
L’abitudine di entrambe le bestie di colpire ad intervalli lunghi e irregolari, lasciava sempre sperare le potenziali vittime nel fatto che, a furia di vivere in quell’ambiente pacifico, esse avrebbero modificato la loro natura aggressiva. E per tale motivo gli impiegati polverosi di quell’ufficio convivevano ormai da anni con esse. Per evitare gli scontri molti di loro avevano imparato a mimetizzarsi da gallina, da oca, da cane, da vitellino, da animali che comunque per la loro mansuetudine non potessero essere percepiti come intralcio alla natura dominante dei nuovi arrivati.
Questi impiegati anzi arrivarono a fare gesti di intesa ai due aguzzini e qualcuno di essi addirittura intuì che, riuscendo a passare dalla tattica della mimetizzazione a quella dell’imitazione, se ne poteva trarre anche qualche vantaggio. Si sa che normalmente, fra gli uomini, gli amici dei potenti sono rispettati in quanto tali. Allora alcuni degli impiegati che si erano camuffati da animali domestici cominciarono a gonfiarsi a dismisura per assumere forme più somiglianti a quelle del rinoceronte, mentre altri, stirandosi, si allungavano a tal punto da diventare sottili e striscianti come il serpente. Che strano vedere quell’ufficio, che per centinaia di anni aveva ospitato tranquilli uomini e donne, diversi per aspetto e personalità ma accomunati dalla laboriosità lenta ma incessante, che strano vederlo adesso trasformarsi per certi versi in uno zoo e per altri in un’allegra fattoria!
Lavorava lì da quando era bambino. Abituato a un ambiente completamente diverso, caratterizzato da rapporti buoni se non ottimi con i colleghi, da gentilezza, comprensione e serenità, adesso era sempre teso: giudicava la situazione insopportabile e si chiedeva spesso se era meglio accettare queste palesi ingiustizie o fare qualcosa per porvi rimedio. Era un dubbio che lo tormentava nella veglia, ma che lo torturava anche nelle ore notturne normalmente dedicate al riposo.
Un giorno si ricordò del fatto che una “situazione” è un sistema di elementi e che se si cerca di cambiare anche uno solo di quelli su cui si regge, si possono verificare due conseguenze: o tutti gli altri elementi ti si rivoltano contro, come quando gli anticorpi aggrediscono un batterio, oppure lo spostamento di un elemento ne provoca un altro e questo un altro ancora e ciò all’infinito come nel gioco del domino. Certo prendere il rinoceronte per il corno e scaraventarlo fuori era pericoloso quanto cercare di calpestare il serpente. Per combatterli bisognava contrapporre il coraggio allo loro forza e l’intelligenza alla loro astuzia. Occorreva a suo parere far sì che quella massa di impiegati ormai ridotti alla totale remissività si coalizzasse e, nel coalizzarsi, riconquistasse la fiducia in sé. La capacità di trovare il punto debole delle due bestie, un punto debole esiste sempre, e di colpire proprio lì, sarebbe stata poi una quasi meccanica conseguenza del coraggio ritrovato.
Avvicinò allora, uno per volta, quasi segretamente, i signori Franco, Ottavio e Lorenzo tre colleghi pacifici e di sani principi. Inoltre contattò la signora Olga, una collega ripetutamente aggredita dal rinoceronte e insidiata talvolta alla caviglia anche dal serpente. Espose loro le sue riflessioni e l’importanza di fare qualcosa che rimettesse le cose nel loro giusto ordine. Ad uno ad uno gli interpellati si convinsero ad agire, ma uno di essi, il più prudente, consigliò di non confidare in nessun altro; prima dovevano agire da soli, gli altri si sarebbero alleati nella loro battaglia solo quando avessero percepito che era non solo possibile vincere, ma che la cosa era probabile, anzi certa.
Il punto debole, che era stato oggetto di approfondite indagini, fu identificato nel terribile corno del rinoceronte e l’unico modo di ridurne la capacità offensiva era quello di indurlo a sbatterlo violentemente contro una figura umana, con determinate caratteristiche, perfettamente affrescata sulla parete di fondo del corridoio, cosa che avrebbe reso l’effetto devastante per il corno, qualora la bestia per incornare avesse deciso di prendere una lunga e decisa rincorsa prima del colpo finale. La parete fu affrescata di notte quando tutti dormivano, la figura umana era quella di una donna alta, ben vestita e sorridente, che nella posizione assunta lasciava intravedere cosce lattee e perfette sinuosità ai fianchi e al petto.
La bestia poderosa, al risveglio, notò subito la gustosa preda e, non potendo da lontano accorgersi che il tocco magico dato dall’impiegato Lorenzo al dipinto aggiungeva un perfetto senso di profondità all’immagine, decise di sferrare il colpo per poi deliziarsi delle gustose carni fresche. Dopo una lunghissima rincorsa, incornò la parete con la violenza del toro nella corrida, il corno si ruppe aprendo però nella parete un varco, oltre il quale la bestia trovò solo la resistenza dell’aria e, dopo una corsa di ore ed ore nella stessa inutile direzione, si ritrovò nella savana, in mezzo a un branco di rinoceronti con cui dovette combattere per il resto della vita per poter sopravvivere.
Il botto scatenò la curiosità dei cinquecento impiegati che avevano appena incominciato a lavorare, essendo ancora le prime ore del mattino. Constatato l’accaduto essi cominciarono a parlare del serpente. Adesso anche cani e vitelli, oche e galline ripresero le loro originarie forme umane, la loro dignità e il loro coraggio e, come se gli anni del terrore fossero stati frutto di un incubo, ripetevano che la biscia era in realtà un serpente e che disegnando un’altra biscia su un muro, essa, sbattendovi la testa, si sarebbe spezzata i due dentini ed avrebbe tenuto in sé il veleno. Invece la biscia, dopo l’accaduto, se ne andò silenziosa in un altro ufficio.





Il nuovo partito dei lavoratori

Il 10 di aprile del 1998 preparò una valigetta, mettendoci dentro l’indispensabile per pochissimi giorni, e prese un autobus che portava nella capitale per parlare col Segretario del Partito. Egli riteneva un suo diritto poterlo fare in quanto, sin dagli anni della sua adolescenza, si era sempre battuto per certi ideali e ad essi aveva dedicato in vari modi una parte non trascurabile delle sue energie. Da quando quel partito era al governo, egli aveva però assistito ad una serie di atti che giudicava errati e contraddittori e così aveva deciso di parlare personalmente col massimo responsabile di quelle scelte, per farne rimarcare la gravità e le negative conseguenze.
Il viaggio non fu breve né comodo e ottenere il colloquio desiderato fu possibile solo per la sua caparbietà. All’inizio gli fu detto che il Segretario non era in sede, poi che aveva troppi impegni e infine che, in prossimità delle elezioni, non c’era tempo per discutere di problemi particolari, dovendo avere innanzitutto cura di organizzare comizi e dibattiti. Aveva però aspettato pazientemente per due giorni di seguito ed alla fine l’aveva spuntata.
“Compagno” disse con modestia e naturalezza al Segretario, il quale, a quell’esordio, capì subito di avere di fronte una persona per la quale il tempo passava con una certa lentezza e, piegando appena in su gli angoli della bocca, lasciò trasparire una leggera espressione di ironia. Lui proseguì: “Quanto è successo in questi ultimi tempi è semplicemente assurdo. Per cinquanta anni il nostro partito ha difeso gli interessi dei lavoratori e non appena è andato al governo ha fatto delle leggi che vanno in senso opposto.”
“A quali leggi lei si riferisce ?”
“Soprattutto a quella con cui avete dato ai dirigenti la possibilità di organizzare il lavoro senza tener conto dell’opinione dei lavoratori; poi agli enormi aumenti retributivi per questa categoria rispetto agli operai.”
“Lei deve capire – disse il Segretario - che l’azione del Governo non può prescindere dai meccanismi generali dell’economia e dal quadro politico complessivo. L’impulso allo sviluppo delle attività economiche è garantito da una certa efficienza dell’ apparato produttivo e una maggiore responsabilizzazione dei quadri dirigenziali è cosa indispensabile per raggiungere questo obiettivo. Naturalmente a maggiori responsabilità devono corrispondere maggiori poteri e serie gratificazioni economiche.”
Il Segretario aveva individuato il problema alla perfezione e, in modo efficace, lo aveva sintetizzato in pochi concetti, anche per liberarsi velocemente di quella inaspettata seccatura. Lui aveva capito di non avere ancora a disposizione molto tempo, forse c’era solo la possibilità di una breve replica e dopo sarebbe stato, sia pur gentilmente, licenziato. Era necessario essere altrettanto concisi.
“Io veramente pensavo che gli ideali che ci hanno finora guidato, la dignità dei cittadini, la giusta distribuzione della ricchezza fra loro, la subordinazione delle scelte economiche ad alcuni principi etici, ecco, pensavo che tutto ciò fosse più importante della produzione in sé.”
“L’attuale situazione internazionale non ci consente più di ragionare nei termini di alcuni anni addietro ed è compito della politica sapersi adeguare ai tempi. Ideali, dignità, giustizia, principi etici, si, si, ma ha visto poi come è finita ?”
Ebbe una piccola fitta al cuore e sentì tutto irrigidirsi. Capì che non c’era più molto da dire, e questo non solo per l’evidente fretta del signor Segretario.
Prima di alzarsi e congedarsi, sotto la scrivania vide le scarpe dell’interlocutore. Lui, di scarpe, se ne intendeva, perché aveva lavorato a lungo in un calzaturificio. Quelle costavano veramente tanto, più o meno quanto lui guadagnava in un mese.
“Addio” disse, porgendo malvolentieri la mano.
“Noi siamo fiduciosi per il suo voto alle prossime elezioni” disse il Segretario, con ipocrita affabilità.
“Una volta le scarpe valevano meno dei piedi. Adesso, chissà?” pensò, voltando la schiena e imboccando la porta di uscita.





La promozione

Era stato assunto negli archivi di Stato, grazie all’intervento di un oscuro uomo politico locale, insieme a sua moglie e a suo fratello, i vincoli di sangue essendo in quella regione, oltre a quelli politici, i più forti legami che aggregavano gli uomini.
Naturalmente, passato il giusto lasso di tempo dall’assunzione, onde allontanare i sospetti dei favori ricevuti, egli cominciò a distruggere sistematicamente l’immagine del benefattore: l’ingratitudine infatti non è un sentimento naturale, ma la logica conseguenza di una lucida strategia autodifensiva.
Le sue mansioni erano piuttosto indefinite, essendo state create unicamente per fargli un favore. Si trattava di spolverare una volta la settimana le cartelle dell’archivio, che, non venendo mai rimosse, sarebbero state altrimenti sommerse dalla polvere e dalle ragnatele. Poiché per tali operazioni si richiedeva un lavoro di circa dieci ore al mese, gli restava una notevole quantità di tempo per osservare attentamente la puntualità ed il modo di lavorare degli impiegati dell’archivio e ben presto si accorse che quello sarebbe stato il suo vero lavoro e che da esso avrebbe potuto trarre benefici considerevoli.
L’intuizione gli si rivelò in tutta la sua concretezza, quando il capo dell’ufficio lo convocò in una sala riservata al ricevimento degli ospiti di riguardo e disse: “Vede, in questo ufficio non dico che non si lavori…”. L’impiegato ebbe lì per lì un sussulto, ma il seguito del discorso lo tranquillizzò immediatamente: “Il fatto è che, pur lavorando tutti più o meno in modo accettabile, mentre vi sono alcuni impiegati che dimostrano un ammirevole senso della correttezza, dimostrandosi sempre ossequiosi e modesti nei miei confronti, ve ne sono altri che nei rapporti con le autorità assumono atteggiamenti di disattenzione o eccessiva indipendenza o addirittura ostilità. Ora lei capisce che questo secondo modo di fare è insopportabile, perché io sono al posto in cui sono per via di un concorso molto selettivo, che per ciò stesso conferisce una posizione di prestigio ragguardevole. Questi comportamenti rischiano a lungo andare di
mettere in dubbio la autorità mia personale, ma soprattutto i principi gerarchici che per fortuna ancora reggono tutte le nostre istituzioni. Io l’ho convocata qui perché, avendo notato le sue capacità di osservazione, vorrei che lei collaborasse nell’informarmi di tutto ciò che vede, non potendo io controllare personalmente, dal mio ufficio, l’operato di tutti i dipendenti. Ho da pensare alla corrispondenza e siglare ogni giorno un numero cospicuo di documenti, senza parlare del fatto che non sarebbe dignitoso che un capo si mettesse a girare per i vari uffici, potendo ciò essere occasione per i dipendenti di parlargli senza tenere le dovute distanze. Lei invece, per via delle sue mansioni, può circolare dappertutto, senza destare sospetti; può guardare e riferire a chi di dovere, cioè a me, di tutti quei grandi e piccoli errori in cui inevitabilmente qualunque dipendente incorre. In tal modo io potrò, relativamente alle persone che danno dei fastidi o non dimostrano il dovuto rispetto verso le autorità, segnalare questi errori e chiedere l’allontanamento di tali soggetti sovversivi.”
Accettò la collaborazione con vero orgoglio. Per mesi ed anni egli esplicò con tanto zelo le sue mansioni occulte che progressivamente incominciò anche a dare lucidissimi consigli al capufficio, conoscendo egli meglio di chiunque altro tutto ciò che di bene e di male accadeva nelle varie stanze del vetusto edificio.
Molti impiegati percepirono la novità della situazione venutasi a creare ed il potere che egli indirettamente poteva esercitare; incominciarono così ad avere gran timore di lui e ad operare in modo goffo, la qual cosa determinava un moltiplicarsi di errori nell’espletamento del loro lavoro. All’aumentare degli errori ovviamente aumentava il senso di soggezione verso di lui e all’aumentare della soggezione aumentavano gli errori. Il capufficio adesso era contento, molto contento. Ora al suo passare tutti si piegavano in inchini spagnoleschi.
Lo zelante osservatore intanto veniva apprezzato sempre di più da un nuovo politico locale, il quale, a conoscenza della sua influenza fra i numerosi impiegati dell’archivio, gli chiese un appoggio per le imminenti elezioni, promettendo a sua volta il suo “vivo interessamento” per la sua promozione nel ruolo di Ispettore dell’Archivio subito dopo la vittoria elettorale.





L’abbazia

Alle pendici di un compatto altipiano circondato da burroni e cosparso di una fitta vegetazione tipicamente mediterranea, si trovava un pianoro di poche migliaia di metri quadri. In primavera era uno dei più bei posti del mondo, perché ricoperto di un verdissimo tappeto di trifogli, fra cui spuntavano margheritine e papaveri, diversi alberi da frutta in fiore ed al centro un’antica abbazia, ora disabitata, da cui all’epoca un gruppo di monaci controllava la sottostante pianura, cosparsa ai bordi da numerosissimi villaggi.
Il professore, proprio in un giorno di primavera aveva percorso con la sua vecchia auto i molti tornanti che conducevano in quel posto carico di odori naturali e testimonianze di una vita religiosa intensa e feconda. Appena arrivato aveva goduto della bellezza incomparabile del posto, ne aveva osservato attentamente i particolari e anche il panorama della pianura, che si lasciava baciare dal mare su un orlo di due piccole insenature contigue che avrebbero dato l’idea di un grande seno anche all’uomo più ieratico del mondo. Il professore era troppo severo con se stesso per permettersi la licenza di coltivare oltre il necessario quella interpretazione antropomorfica del disegno naturale e, quasi per espiare la colpa di un pensiero troppo profano per quel luogo di preghiera, diresse i suoi passi verso la porta dell’abbazia.
Un unico grande ambiente, essenziale nella struttura architettonica e negli arredi, straordinariamente lontano dalle centinaia di chiese barocche dei paesi sottostanti, dava un senso di lontananza estrema dagli uomini e dalla civiltà ed un senso di vicinanza notevole con qualcosa di divino, che stravolgeva in alcuni momenti le regole delle proporzioni spaziali e temporali con gli oggetti che pure erano lì. Le nude colonne rotonde e la statua della Madonna chiusa in un tetro mobile con vetrina davano una sensazione di freddo, che diventava però una sensazione di dolce tepore quanto più alle colonne e alla statua si riusciva a dare un significato, a farle rivivere, quasi ad averci una qualche forma di comunicazione.
Nell’intensa emozione di quelle sensazioni al professore sembrò di vedere nella parte peggio illuminata della grande sala, proprio in fondo, dove era posto l’altare, due strane ombre. Più si abituava alla penombra che avvolgeva tutte le cose, più i contorni di quelle ombre si schiarivano. Gli sembrò di intravedere la sagoma di un uomo molto vecchio, robusto, incanutito, dai gesti lenti ma decisi e autorevoli, e la sagoma di un uomo adulto ma molto più giovane del primo, dai tratti delicati e con uno sguardo la cui dolcezza e profondità mettevano un certo disagio.
Essi parlavano fra loro noncuranti dell’occasionale ospite e il professore si accorse ben presto che non si trattava di argomenti futili. Qualunque fosse la loro natura, fra un vecchio ed un giovane i discorsi futili erano impossibili. Lo scarto generazionale – pensò -è sempre stato l’origine di importanti conflitti.




Il dire e il fare

Sapeva che la verità non esiste e che è possibile sostenere qualunque tesi purché suffragata da valide argomentazioni. Naturalmente i raffinati sofismi su cui le sue dimostrazioni si basavano erano sottesi, come tutti i sofismi manifestatisi nel corso della storia, da una sua verità ultima che in realtà era alquanto diffusa e banale: per vivere bene bisogna essere ricchi ed influenti, una influenza estesa a livelli sociali sempre più ampi ed in settori della vita sempre più importanti. La contraddizione tra le tesi da lui di volta in volta opportunamente scelte e il suo modello di comportamento era palese, ma la vita, lui lo sapeva bene, si regge più sulle contraddizioni che sulla coerenza, perciò di questo non si faceva un cruccio esagerato. Anzi l’idea di raccordare il dire e il fare veniva da lui snobbata e sbeffeggiata come ingenua e non degna di grande considerazione.
Fra il suo bel parlare e le finalità poco nobili che ispiravano le sue scelte piccole e grandi, ne veniva fuori uno stile, che si traduceva in atteggiamenti, posture e movimenti del corpo oltremodo ambigui. Gli occhi furbi si muovevano sempre come per rubare le immagini di ciò che lo circondava, i continui movimenti inutili e nervosi delle gambe segnalavano un inspiegabile istinto di scappare, la gestualità estrema delle mani faceva pensare alla voglia primordiale di ghermire qualcosa anche quando davanti c’era solo l’aria




I terroni

“Terùn !” disse il padrone di casa, un po’ compiaciuto, al giovane studente, che dimorava da alcuni anni in quella città. Non era la prima volta che il giovane sentiva rivolgersi direttamente o indirettamente quel termine, sprezzante per il significato oggettivo e per il modo di pronunciarlo. Ne era stato sempre ferito nell’orgoglio, ma quella volta l’appellativo lo raggelò, perché veniva usato da una persona che avrebbe dovuto almeno tener conto che si trattava di un ospite, il quale non si era intrufolato, ma era stato da lui invitato quel giorno nella sua casa di montagna.
“Com’è possibile tanta cattiveria? - pensò il giovane - Non gli ho fatto nulla di male, sono stato garbato. Oltretutto non sono venuto qui ad elemosinare nulla né ad implorare un lavoro. Ogni mese la mia famiglia mi spedisce una certa somma, che io spendo qui, nella sua città, per sostenermi agli studi. Eppure devo sentirmi trattato come un uomo di razza inferiore. Il mio livello culturale non mi sembra poi per nulla inferiore a quello di questo signore, che si permette di offendermi. A sentirlo parlare sembra un uomo abbastanza mediocre e a valutare il suo stile di vita siamo anche al di sotto della mediocrità”.
Cesare B. era un uomo sulla cinquantina ed era evidente che una certa fortuna nei commerci aveva in lui fatto crescere a dismisura la stima di sé. Comprava carni all’estero per conto di aziende nazionali: un lavoro magari redditizio ma non certo di alta qualità, un lavoro per il quale bisognava avere competenza in quel mercato e nelle operazioni di cambio, ma che in fondo esigeva propensione per gli affari più che una cultura elevata.
La mediocrità di quest’uomo si poteva poi intuire con una certa immediatezza da alcuni suoi comportamenti. In mattinata, ad esempio, mentre la moglie preparava il pranzo, egli invitò lo studente a provare un’auto sportiva nuova, di colore rosso. Imperversò per una stretta e tortuosa stradina di montagna a velocità veramente elevata, mettendo in pericolo la sua vita e quella dello studente. Si vantava della sua attività, metteva in mostra la sua bravura nella guida e rideva di frequente per cose piuttosto stupide. Lo studente, durante la corsa un po’ pazza, ebbe paura e pensò più volte a come potesse un uomo di quella età abbandonarsi ad atteggiamenti tipici di un adolescente che vuole pavoneggiarsi. Eppure quest’uomo, qualche ora dopo, vigliaccamente avrebbe offeso il giovane ospite.
La moglie del signor Cesare era invece di tutt’altra pasta: gentile, dolce, umile. Essa fu molto cortese con lo studente. Gli offrì con garbo ottime pietanze e dimostrò per lui sincera attenzione. Se in una coppia entrambi fossero cattivi, la convivenza sarebbe impossibile.





Corruzione

Era un uomo difficile da capire e, ancora di più, da definire. A volte parlava con competenza e altre volte dava l’impressione di un povero ebete; a volte sembrava di una generosità quasi sconsiderata, altre volte rivelava un morboso attaccamento al denaro; a volte si era certi di essere di fronte a un intellettuale progressista fino al midollo, altre volte si scopriva in lui un semplice faccendiere.
A questa molteplicità di contraddittorie caratteristiche intellettuali e morali corrispondeva una molteplicità di attività pratiche apparentemente inconciliabili. Egli esercitava con freddi principi economici una prestigiosa e remunerativa professione, ma si era anche fatto promotore di lodevoli iniziative culturali.
La disinvoltura con cui passava da un’idea all’altra e da un’attività all’altra suscitava forti perplessità e mal si conciliava con ciò che i suoi tratti fisiognomici e il suo sorriso, frequente quanto inopportuno in relazione alle circostanze, avrebbero potuto far ragionevolmente pensare circa le sue capacità organizzative.
L’enigma fu chiarito solo quando in città si pose il problema di alcune concessioni per l’esercizio di una certa attività economica. Si scoprì infatti in quella occasione che era fortemente interessato alla cosa, in quanto ne avrebbe potuto ricavare benefici di entità astronomica.
Alcuni politici seri, che avevano in buona fede fruito della sua falsa generosità per le loro attività culturali, appena si resero conto della fosca trama tessuta, presero le distanze da lui. Non era un vero mecenate come voleva apparire, ma solo un piccolo opportunista.




L’attrice

Il sipario si aprì lentamente e i riflettori illuminarono una donna ancora giovane che pestava nervosamente coi tacchi l’assito del palcoscenico. Andava da un lato all’altro come un detenuto al primo giorno di pena e ripeteva, fra lacrime e risate convulse, di essere vittima innocente di colpevoli trame. Urlava l’infondatezza delle accuse e la vigliaccheria e il cinismo di chi aveva ad esse dato credito. Poi si mise a raccontare al pubblico la sua storia, alternando momenti di lucida serenità e di disperata isteria.
Lo aveva conosciuto vent’anni prima, in un pomeriggio estivo, sulla sabbia rovente d’una spiaggia quasi deserta. Erano stati lì per delle ore, fingendo di chiacchierare del più e del meno, mentre in realtà, complici il caldo e le nudità, i corpi trasmettevano quei misteriosi messaggi, gesti e odori, che a volte portano due estranei a conoscersi, anche in breve tempo, nel modo più perfetto. Il seguito della storia era come da copione: frequentazione, progetti, matrimonio e figli.
L’attrice raccontò tutto questo con lamenti contenuti e asciugandosi di tanto in tanto le lacrime. Poi d’un tratto rovesciò sulla platea un urlo di rabbia: “Perché andarsene ?”. Un brivido percorse la schiena del pubblico come se esso fosse stato un unico corpo.
“E’ vero – disse l’attrice ravviandosi i capelli – in questi anni la mia attenzione era diminuita. E’ vero, i miei pensieri spesso vagavano per luoghi diversi da quelli quotidiani. E’ vero, al suo volto nel sonno talvolta si sovrapponeva un altro volto. E’ vero, col tempo i silenzi sopraffecero i sussurri e la stanchezza divorò l’energia dei vent’anni. E’ vero che tutto questo è vero. Ma così vanno le cose, bisogna capire, rassegnarsi, non fuggire come un bambino!”.
Il sipario si chiuse su una donna in lacrime e si riaprì su un’altra scena. Sullo sfondo c’era il mare e sul palco un uomo, seduto sulla sabbia, con la schiena rivolta verso il pubblico.




Disagio

Se è vero che, come dicono alcuni psicologi, l’intelligenza di un uomo consiste nella capacità di adattarsi alle varie situazioni della vita, allora si trattava di un giovane disadattato e poco intelligente. Se non che tali studiosi, purtroppo, non fanno differenza alcuna fra chi non sa adattarsi e chi non vuole.
Era cresciuto con le idee e i valori a suo tempo condivisi dai genitori, dagli insegnanti, dai coetanei. Ad esempio, da bambino, quando le uniche storie fantastiche si trovavano solo nei libri o al cinema, perché la tv non esisteva ancora, tutti i lettori e tutti gli spettatori si identificavano col personaggio generoso, il quale finiva sistematicamente per avere la meglio su quello cattivo, che di volta in volta si presentava come assassino, ladro o impostore e, in ogni caso, arrogante, prepotente, violento.
Nel volgere di alcuni anni però le cose erano cambiate e non poco. Qualche intellettuale cominciò a dire che quegli uomini che in genere consideriamo buoni, in realtà, hanno quasi sempre dei fini reconditi poco nobili e che gli uomini che sembrano cattivi sono, in realtà, vittime di un ruolo loro assegnato dal gioco delle parti.
Fino a questo punto, pur se un po’ a fatica, egli accettò che potesse esserci qualcosa di vero. Ma la sua anima finì in uno stato di confusione prima e di prostrazione poi, quando il giudizio addirittura si capovolse. L’odio, la violenza e l’inganno diventarono gli ingredienti indispensabili per il successo ed i personaggi costruiti su tali elementi divennero i miti della nuova epoca.
Quando usciva di casa, questi nuovi personaggi incominciò a vederli incarnati negli uomini che incontrava per strada, nei bar, in ufficio, ovunque. Erano ormai tanti, tutti col volto teso e gli occhi perfidi. Ben vestiti, atletici, sicuri di sé, ma cattivi. Questi nuovi eroi, a lui non piacevano affatto. Comparvero allora i primi segni di disadattamento: gli occhi sempre tristi e un’andatura irregolare.




Lo spazio

Per giudicare se un appartamento è piccolo o grande, occorre valutare diversi elementi. In primo luogo il rapporto fra il volume dell’appartamento e la somma del volume corporeo delle persone che vi abitano, e questo è intuitivo.
Più sfuggente è invece la frequenza degli spostamenti delle persone e la loro velocità: se tutti vanno in continuazione avanti e indietro a passi veloci, l’ambiente certamente darà l’impressione di rimpicciolirsi; il contrario succede, invece, se è abitudine comune quella di stare fermi o muoversi di rado e a passi lenti.
Ancora più difficile da percepire è il terzo elemento: la concentrazione dei sentimenti. In presenza di forte amore o di forte odio, l’aria diventa pesante, come se scarseggiasse l’ossigeno, e allora la natura tende a proteggere gli abitanti spingendoli a cercare ossigeno altrove; se invece i sentimenti tendono verso lo zero, il respiro degli abitanti è meno intenso, l’aria diventa più rarefatta e anche un appartamentino di pochi metri quadri può sembrare un grande deserto.




Il fumo

L’ansia era penetrata nella sua anima ancora prima dell’adolescenza. Per quali cause ciò fosse avvenuto era difficile dirlo. Forse erano state le lunghe attese dell’infanzia nel grande salone delle suore per l’arrivo di chi lo riportasse a casa. Forse erano state le grandi macchie di umido sul soffitto dell’enorme stanza da letto, che, a quell’età, prima del sonno e dei sogni prendevano le forme di nuvole vaganti e poi di feroci bestie e poi di esseri diabolici. Forse era stato il maestro che con tutta la sua serietà diceva chi era buono e intelligente e chi cattivo e stupido. Forse erano stati i compagni di gioco che potevano in ogni momento escluderlo senza motivo: anche quello di escludere qualcuno è un gioco, a otto anni, e a volte tocca a un altro e a volte a te. Forse era il respiro sempre affannoso del babbo, causatogli forse dal fumo o da un sistema nervoso sempre contratto. Forse, forse, forse ! Forse tutte queste cose non c’entravano per nulla ed era solo perché la natura gli aveva dato un certo organismo, un certo cuore, un certo cervello con certe sostanze, delle viscere fatte in certo modo anziché in un altro. O forse era perché a dodici anni, dodici, gli avevano insegnato a fumare e la nicotina gli aumentava i battiti cardiaci a prescindere da ciò che gli succedeva intorno.
Provate a chiedere agli specialisti più famosi quale fra queste era la causa dell’ansia che lo tormentava anche nelle situazioni più banali. Chi vi dirà una cosa, chi un’altra e chi tutte le cose insieme. Di rimedio invece ve ne indicherà uno solo: la pillola che allontana ogni microscopico neurone dagli altri ad esso contigui.



Il giornale dei poveri

Per chi attraversa la città, solo e con pochi spiccioli in tasca, è meglio che i muri non siano troppo puliti, qualche scritta qua e là può sottrarlo ai pensieri e alla solitudine. Vi si trova di tutto: politica, sport, amori giovanili non corrisposti e, a volte, anche eventi particolari da non dimenticare, come nel caso della scritta “Giorgio e Monica / 3-5-99 / ore 2.40”, tenera espressione del desiderio umano di dare un valore eterno a un breve atto d’amore.
Scrivere su un muro non è così precario come scrivere sulla carta. Il muro non si strappa e non si cestina e solitamente la ripulitura avviene in tempi lunghi, sicché l’autore ha una buona garanzia di lunga durata del messaggio.




Fatti e segnali

Ancora oggi, dopo cinquemila anni di storia, nei momenti delle scelte difficili attendiamo qualche segno del destino. Questo capita alle persone colte come alle persone poco istruite, perché le une e le altre, in quei casi, si trovano sempre di fronte all’ignoto e diventano fragili prede di paure anche irrazionali.
Lui era troppo orgoglioso per sottostare a questa come, del resto, a molte altre leggi della natura umana e, cogliendo i segnali della direzione che la sua vita stava per imboccare, sistematicamente li leggeva al contrario. Per essere più chiari con un esempio, se un qualunque uomo di fronte ad una fortunosa operazione finanziaria coglieva un invito a gettarsi a capofitto in altre operazioni simili, lui invece vi vedeva un segnale di pericolo. Ma non bisogna credere che fosse troppo pauroso, in lui non c’era la minima traccia di viltà. Infatti, di fronte ad un evento negativo, mentre altri avrebbero colto l’indicazione di desistere, lui si intestardiva ed era capace di affrontare fatiche, dolori e sconfitte, l’una dopo l’altra o anche tutte insieme, per far sì che, a fronte di quell’evento negativo, se ne determinasse un altro di segno opposto.
Naturalmente, con questi comportamenti, non poteva fare molta strada nell’acquisizione di ricchezze o nell’elevazione sociale. Tutto ciò farebbe pensare che il suo modo di interpretare gli eventi, in quanto inefficace, fosse da sciocchi. Ma non è così. Era rimasto povero e umile, ma neppure si accorgeva di ciò, perché era sempre molto concentrato sulle sue idee e sul suo mondo interiore.




Femminilità

Come in un certo periodo della storia si sia potuto credere che le donne ed i gatti potessero ospitare molto più spesso degli uomini lo spirito del demonio, è cosa ancora non del tutto chiara. Oggi ovviamente sono rimasti in pochi a credere che esista veramente il demonio e che egli possa andare in giro per il mondo con l’unico interesse o passatempo di infilarsi in panni e pellicce non sue e poco funzionali al clima in cui, secondo la tradizione religiosa, sembra normalmente vivere. Tuttavia una certa diffidenza è rimasta e di ciò dobbiamo cercare una qualche spiegazione.
“Gli occhi - pensai, rimuginando sul problema - gli occhi sono sempre stati considerati la “finestra dell’anima”. Attraverso gli occhi un’anima svela le altre e ne viene svelata. Ma perché il più profondo esploratore dell’anima, il grande studioso Essef, non accennò al valore di questa finestra? A volte sembra proprio che certe antiche intuizioni portino verso conoscenze, cui le intelligenze più fulgide, raffinate e fantasiose non porteranno mai”.
Convinto che questa fosse un’ipotesi degna almeno di qualche indagine, cominciai ad osservare, più attentamente e sistematicamente di quanto non avessi fatto fino a quel momento, gli occhi di tutte le donne - belle e brutte, vecchie e giovani, ignoranti e colte,eleganti e trasandate, grasse e magre - proprio tutte. Essi avevano in effetti qualcosa in comune e questo qualcosa li differenziava poi in modo netto dagli occhi degli uomini.
Gli occhi di una donna, similmente a quelli di un gatto, sono molto mobili, curiosi, penetranti e nello stesso tempo segreti, sfuggenti, indecifrabili.




Leggerezza

Conobbe Elisa in una pizzeria sotto casa. Era una sera adatta all’osservazione, perché una immotivata irrequietezza accelerava i suoi pensieri. Lei era una ragazza affabile ed elegante e si rivelò anche un’abile conversatrice capace di ascoltare, sorridendo, ciò che di peggio esistesse al mondo. Cosa c’era di meglio per un uomo attempato e un po’ deluso dalla vita ? Trascorrere quella mezz’ora con lei fu come respirare una boccata d’ossigeno, dopo essere stati rinchiusi per una settimana in una stanza senza finestre o fessure.
Elisa fu tanto generosa da concedersi, dopo tre ore di conversazione, a casa di lui. Dopo la pizza avevano percorso le strade luccicanti della città e si erano fermati in un bar per bere un brandy, come alibi per entrambi: lui per giustificare le sue goffe avances e lei le incontrollate risate. Poi avevano fatto l’amore. L’avevano fatto, ma per lui non era stata una cosa del tutto pacifica e naturale. Era stato piuttosto uno sfogo, uno sfogo dell’anima, arida per la sua vita sregolata e priva di proiezioni temporali. L’amore di Elisa fu invece uno sgambettare frenetico ma disordinato, impudico, quasi incosciente. Rivestirsi e salutarsi fu un’unica cosa, che per fortuna cancellò ogni traccia dell’accaduto.





Aforismi

Geometrie

Perfette equazioni davano il senso di ogni cosa nella vita e la direzione giusta per risolvere ogni problema. Se c’è una logica in ogni evento – pensava - ed ogni evento è frutto di un numero più o meno grande ma sempre determinabile di variabili, ogni fatto dev’essere comprensibile, prevedibile, orientabile. Peccato che la realtà continui a dimostrare sempre il contrario.



Relativismo etico

L’onestà, per i ladri;
l’operosità, per i pigri;
la generosità, per gli egoisti;
l’umiltà, per i millantatori;
la collaborazione, per i competitori;
la sincerità, per i bugiardi;
l’austerità, per gli spreconi;
la serenità, per gli psicopatici.
Sono tutte forme di pazzia.





Il bivio (fiaba)


Dopo aver percorso una lunga strada, si ritrovò di fronte a un bivio. La strada a sinistra portava verso l’amore, mentre la strada che svoltava a destra portava verso il successo. Si chiese quale direzione fosse meglio prendere e, non trovando risposta immediata, rifletté a lungo. “L’amore ci protegge dalla solitudine – pensò - ma ci lascia piccoli e inermi, non soddisfa il nostro orgoglio. D’altra parte il successo, ci fa sentire importanti, ma gli uomini importanti spesso soffrono la solitudine più di chiunque altro”.
Altalenando fra un pensiero e l’altro, ebbe una folgorazione: bisognerebbe poter percorrere insieme tutte e due le strade! In quel momento al centro del bivio apparve del fumo, un fumo grigio che prendeva forme diverse in un gioco quasi diabolico. Pian piano quelle forme diverse e indefinite tendevano a diventare una forma precisa: quella di un vecchio calvo dall’occhio ammiccante.
Incuriosito si avvicinò e sentì una voce: “Io ho la soluzione del tuo dilemma.”
“E qual è questa soluzione ?
“Il denaro… Col denaro puoi diventare importante e stimato fra una grande moltitudine di genti diverse e insieme avere l’amore delle persone che ti stanno più a cuore. Se riuscirai ad avere il denaro, avrai tutto.”
Decise di dar retta al vecchio. Incominciò a comprare e vendere, usando la massima scaltrezza. Imparò ad imbrogliare, rubare e ricattare; minacciare, picchiare e uccidere. Tutto fece, finché non ebbe una montagnola di banconote, che depositò in banca affinché con l’interesse si moltiplicassero.
Adesso avrebbe potuto percorrere le due strade contemporaneamente e trovare così il successo e l’amore. E così fu all’inizio. Comprò una grande villa frequentata da mille amici e sposò una donna adorabile. Quando usciva, tutti lo guardavano con ammirazione per la sua bellezza, per la sua eleganza, per il suo incedere maestoso, per quel cappotto e quel cappello di pelle che gli conferivano un aspetto quasi regale.
Non dovette passare molto tempo per accorgersi però che qualcosa non andava. Le sue ricchezze diventarono oggetto di eccessive attenzioni da parte degli amici. E anche la moglie adorata cominciò a staccarsi da lui: quanto più desiderava l’agiatezza, tanto più diventava fredda nei suoi confronti. Le strade tornavano a dividersi. Si mise a correre inseguendo un po’ il successo e un po’ l’amore, ma, mentre inseguiva l’uno, l’altro si allontanava. Le distanze da entrambi, anziché accorciarsi, aumentavano e, dopo alcuni anni, erano tutti e due così lontani che la speranza di raggiungere uno qualunque di essi era ormai un’impresa impossibile.
Tornò allora al bivio per aver consigli e vide di nuovo del fumo che, come la volta precedente, lentamente prendeva le forme di un uomo, che ridendo diceva: “Ci sei cascato. Il Denaro è tutto e nulla. Il denaro può trasformarsi in qualunque altra cosa, ma tutte le cose possono trasformarsi in niente.”






La scuola

Addormentandosi, volse gli occhi all’indietro, e in tre minuti ripercorse trent’anni. La folle corsa lo fece ritrovare sulle rive del fiume, dove provò a volte da bambino la pienezza rotonda della felicità. L’aria pulita, il verde e il silenzio non avevano infatti nulla in comune con l’andirivieni del papà e della mamma in casa, né col clima di freddo sudore che provocava l’entrata a scuola con il gracchiare insistente del campanello elettrico. La riva del fiume era stata nella sua infanzia l’oasi che cercava ansiosamente dopo i deserti aridi di casa e scuola, coi loro invalicabili labirinti di muri.
Nel sonno volse allora gli occhi a sinistra e, oltre i rami di un grande albero, vide muoversi lentamente due figure. Guardò un po’ meglio. Erano figure umane. Si turbò. Guardò con più attenzione. Rassomigliavano sempre più a Franco e Luisa, i suoi insegnanti. Sentì un nodo in gola. “Loro ancora qui, di nuovo qui, dopo tanti anni a perseguitarmi! Se mi vedranno mi faranno le loro assurde domande e tornerà il sudore freddo”.
Le due figure si avvicinavano lentamente. Erano proprio loro, ma i loro volti erano diversi da come li ricordava. Adesso li vide sereni, distesi, sorridenti, caldi, affettuosi e questo lo trattenne dal fuggire.
“Non aver paura, siamo cambiati!” dicevano. “Ci siano immersi in questo fiume ed abbiamo capito che avevamo sbagliato con i nostri figli come con i nostri alunni, e quindi anche con te. Qui non c’è nessuno che ci obbliga ad essere troppo esigenti. Qui vogliamo riscattarci del nostro passato. Vorremmo farla qui, una scuola come piace a noi, con al centro una casa di legno circondata da fiori. Però non abbiamo più la forza per scavare fondamenta e piantare i pali. Ti aspettavamo da anni per chiederti aiuto”.
Scavò quattro solchi lunghi sei metri l’uno, vi piantò molti pali robusti legati fra loro da altrettanti pali messi in orizzontale e coprì il tutto con assi di legno. Poi disse loro “Ecco ora avete una nuova scuola per insegnare in modo nuovo”.
“Si, ma questo è solo il posto dove ci rifugeremo quando piove e tira vento.” dissero Franco e Luisa “Per le lezioni è meglio il bosco. E’ da lì che bisogna partire per imparare bene e con facilità.”
Un grande numero di scimmie parlanti si sparsero nelle quattro direzioni per diffondere il felice progetto. Nessuno di questi titubò un istante: ognuno corse sulle rive del fiume per sognare insieme a lui.





Il pescatore

La pelle imbrunita dal sole, il vecchio pescatore scrutava l’orizzonte piatto del mare, rincorrendo i solchi invisibili delle sue rotte. Erano tanti i pesci raccolti in cinquanta anni nelle sue povere reti sempre ricucite e tanti quelli portati al mercato per pochi soldi. Ora sulla riva non restava che la vecchia barca con su scritto il nome d’un santo e, alle sue spalle, una minuscola casa bianca nella quale si agitava quasi inutilmente l’ormai secca donnina, per la quale la partenza e l’arrivo della barca avevano scandito il tempo più che il vecchio orologio fermo sul comò.
I figli erano andati altrove e tornavano a volte, d’estate, con bimbi e donne dalla pelle chiara e delicata. Lui e la sua donnina li abbracciavano teneramente e li guardavano come un contadino può guardare grossi alberi piantati in gioventù, tenuti dritti per anni con rinforzi per il vento, e protetti con teli per il freddo, e rinvigoriti con abbondante acqua nelle stagioni aride.
L’estate però era ancora lontana, quest’anno, e lontani erano i figli.
- Quanti, quanti anni ancora ? disse alla donnina, che, seduta un po’ più indietro, ripuliva e tagliava a pezzetti gli ortaggi per la sera.
- Quanti anni per cosa ?
- Non capisci o fai finta di non capire ?
- Faccio finta di non capire…Se cominci ad aver paura della morte, è certo che gli anni che restano, pochi o molti che siano, saranno un inferno.
- Non ho paura. Mi dispiace solo che i nostri ragazzi, quando accadrà, verranno qui e non troveranno più nessuno. Loro girano girano, come i marinai delle grandi navi, ma questo è il porto dove tornano a fermarsi, a riposare, a riprendere energia per i giri successivi.
- Oh, gli uomini ! Prima sono indispensabili perché producono e, quando non producono più, sono importanti per il semplice fatto di esistere. Pensi che i nostri figli non sappiano che, quando Dio vorrà, questa casetta resterà vuota ? Pensa piuttosto a farglici trovare qualche traccia buona di te. Questo è il massimo che puoi fare, se hai un poco di buonsenso.
A cena le melanzane e le patate erano buone. La moglie in cucina era brava e attentissima, e lui, il pescatore, apprezzava molto quei piatti dai sapori forti che ben si accompagnavano alla sua mezza bottiglietta di vino rosso della collina.
La notte però fu inquieta. La mente ripeteva in continuazione quelle parole “Faglici trovare qualche traccia buona di te”. Si chiedeva quale potesse essere questa “buona traccia”, ma non trovava risposta. Pensò che, come si diceva un tempo, l’esempio di una vita onesta, laboriosa e morigerata fosse più che sufficiente. Ora che era vecchio, cos’altro poteva fare? E postosi ripetutamente quella domanda, a un tratto si accorse che, da quando aveva smesso di andare a pesca, aveva lasciato scorrere le giornate senza scopi da raggiungere. Con quella frase, lei, di scopi gliene aveva suggeriti almeno mille.
La mattina si alzò di buon’ora, guardò la vecchia barca corrosa e stinta. “Per intanto, quella sarà la prima cosa da mettere a posto” pensò. Andò in paese a comprare attrezzi, colla e vernice e, tornato in riva al mare, iniziò un lavoro lento e minuzioso.





Fortunato

Il vecchio treno correva attraversando da sud a nord la penisola, con un mutare continuo di scorci di campagne aride e di fertili valli; in lontananza paesi aggrappati a colline e gialle periferie di piccole città. In uno degli scompartimenti sedevano di fronte uno studente con gli occhialetti chiari ed un signore sulla settantina dai tratti marcati e un’espressione furba e decisa.
“Voi da dove venite?” chiese il secondo con naturale curiosità e per alleggerire la noia del lungo viaggio appena iniziato.
“Dalla provincia di Cosenza” rispose il giovane, pronto anche lui ad approfittare della socievolezza del vecchio signore per ingannare il tempo. E di rimando fece la stessa domanda “E voi?”
“Io dalla provincia di Catanzaro” rispose l’anziano signore, pronunciando il nome della città con molte vocali aspirate.
“Permettete che mi presenti?” continuò l’anziano signore, cominciando ad accompagnare le parole con una mimica alquanto teatrale “…Fortunato, di nome e di fatto!”.
“Piacere, Aldo” rispose lo studente, prevedendo senza incertezze che il dialogo stava appena per incominciare. E invece il signor Fortunato si abbandonò a un lungo monologo.
“Voi vi chiederete perché sono Fortunato di nome e di fatto. Perché ho tutto, non mi manca niente: ho ben tre pensioni. Il modo in cui ho avuto la prima già dimostra il mio invidiabile destino. Durante la seconda guerra mondiale vengo arruolato, mi spediscono al fronte e dopo tre giorni una pallottola provvidenziale mi colpisce al ginocchio. Vengo rispedito a casa, curato e dichiarato invalido, e infatti ancora zoppico un poco. E arriva la prima pensione, quella di guerra. Pochi soldi, ma arrivano”.
Fortunato si schiarì la voce e proseguì con tono pacato ma sicuro.
“Non avevo molto da fare durante il giorno e parlavo con tutti di tutto. Fu nel corso di una di queste discussioni che venni a sapere che avrei potuto chiedere la pensione di invalidità, che infatti ottenni dopo poco tempo. Con l’esperienza di tutte le pratiche necessarie per godere di questa seconda pensione, cominciai ad aiutare amici e conoscenti nell’inoltrare e seguire le domande e i documenti per questo ed altri tipi di sussidi e, pian piano, questo per me è diventato un lavoro. Qualcuno mi paga e qualcuno mi fa un regalo commisurato al vantaggio che ha tratto dalla mia consulenza. Quando ho compiuto i sessantacinque anni, poi, naturalmente, mi è arrivata la pensione di vecchiaia. E siamo a tre. Ecco dunque la mia fortuna. Tre modeste pensioni e, come passatempo, un lavoretto leggero ma abbastanza redditizio”.
L’anziano signore sembrava aver terminato e invece si trattava solo di una breve pausa per riprendere fiato e accendersi la pipa, mentre con l’occhio sinistro sbirciava il volto dello studente, forse con la speranza di leggervi qualche cenno di stupore e ammirazione. Con una chiara espressione di autocompiacimento riprese quindi la sua storia.
“Ah, ma la mia fortuna non finisce qui. Adesso tutti mi vogliono bene e si augurano che io stia in salute. Che vantaggio avrebbero infatti i numerosi figli e nipotini dalla mia morte? Io non ho case o terreni o denaro in banca. Ho le mie tre pensioncine con cui vivo bene e posso permettermi di fare anche bei regalini a tutti loro, qualche volta anche di aiutarli nei momenti di difficoltà. Se io crepo, le pensioni non ci sono più, né per me né per altri. Ogni tanto qualcuno dei nipotini, che sono informati della mia situazione, perchè io non ho mai nascosto nulla ed ho raccontato tutto anche a loro, ogni tanto, dicevo, uno di loro mi viene vicino e mi chiede: Nonno, me la dai una pensione? …Eh, mi vogliono tanto bene anche loro!”.
“Simpatico vecchietto” pensò lo studente “C’è tanta gente che incassa immeritatamente molto denaro e poi si finge povera, e si lamenta, e dice che non guadagna per quanto merita o che non riceve quello che gli spetterebbe. Prendono e sputano. Lui, almeno…! E poi, a pensarci bene, questo signor Fortunato ha veramente ragione. Quell’altra gente è ricca, ma spesso non felice come lui. Se hanno case e terreni, per quanto gli si possa volere bene, la progenie avrà sempre qualche buon motivo per sperare, sotto sotto, di ereditare… non troppo tardi! Per il signor Fortunato la cosa è diversa, con lui se ne vanno le pensioni”.
Correva l’anno 1967. Il treno, dopo una breve sosta alla stazione di Salerno, riprese il suo lento ma incessante cammino. Il paesaggio diventò sempre più piatto e sempre più verde. Fino a Bologna i due avrebbero continuato a chiacchierare, poi avrebbero proseguito su binari diversi, lo studente verso gli studi e gli esami, Fortunato verso l’ospedale di Milano. Ma non disse il perché. Forse andava a farsi curare un ginocchio ancora dolorante per una vecchia ferita.






La battuta maliziosa

Ieri sera il “commendatur”, come lo chiamano qui a Milano, s’è arrabbiato tanto. E’ un uomo dal cuore d’oro, il commendatur: ha un negozio di abbigliamento in pieno centro, con quattro belle dipendenti, ampi locali, merce ben esposta, prezzi competitivi e vetrine sempre splendenti, ma tratta i dipendenti come figli, quasi con affetto. Anche se sul rispetto delle regole non transige: ne va del buon nome della ditta oltre che della sua immagine personale.
Ieri sera il commendatur, dopo aver cenato al ristorante con un gruppetto di amici, era ritornato a casa di malumore. Prima di andare a letto, aveva provato anche a prendere una tazza di camomilla e per sicurezza cinque gocce di valeriana, ma, una volta messosi a letto, non ci fu proprio niente da fare. Il malumore si trasformò in pochi minuti in nervosismo e cominciò a rigirarsi come un pollo allo spiedo; supino, metteva un po’ la testa sul cuscino e un po’ il cuscino sopra la testa e, bocconi, di nuovo la testa sul cuscino e poi di nuovo sotto. Nelle giravolte il pigiama si trascinava il lenzuolo e i bottoni della giacca finivano dietro la schiena.
“Ma perché? Porco mondo!” diceva tra sé e sé. “Mi sa che oggi al negozio c’era qualcosa che non andava per il verso giusto, lo sento, anche se non ricordo con precisione cosa” pensò. E cominciò a passare in rassegna gli avvenimenti. Gli incassi erano stati buoni, si erano presentati nuovi clienti, le commesse erano state sollecite e gentili come al solito. Pensò allora alla cena con gli amici. Al ristorante aveva mangiato bene e s’era divertito. “Ma, ma .. però, però…” pensò, aggrottando la fronte, “Però, quella battutaccia di Alfredo non è stata per niente divertente. Cosa gliene importa a lui dei miei rapporti con Marisa? Gliela avessi raccontata io la storia, e va bene, avrebbe anche avuto il diritto di metterci il naso. Ma è stato lui che, col suo continuo scrutare, indagare, ipotizzare, ha finito per capire.”
Ormai s’erano fatte le due di notte e, di minuto in minuto, il letto sembrava rimpicciolirsi, mentre alle gambe e sulla schiena avvertiva un leggero prurito che, via via che il tempo passava, diventava quasi orticaria. “Meglio alzarsi, allora!”, pensò.
Andò in cucina, prese un caffè e senza accorgersene si ritrovò bell’e vestito alla guida della sua auto. Strade buie, negozi e bar chiusi. Dove andare? Gli balenò l’idea di mettere a posto qualcosa nel negozio.
Mettere a posto qualcosa? Quella notte il commendatiur, una volta entrato nel suo negozio e richiusa la saracinesca, si trasformò in una specie di vandalo. Mise sottosopra le scaffalature, spostò in malo modo i manichini, finì persino per mettere le cravatte nel reparto donne e i foulard nel reparto uomini e con una cicca procurò un grosso buco sul bel tappeto centrale.
Quando tornò a casa era così stanco che si buttò sul letto così com’era e s’addormentò di colpo.
Al mattino, al risveglio, del caos notturno non ricordava granché. In bagno compì i consueti rituali propiziatori e si avviò al lavoro. Fu quando giunse davanti al negozio che si accorse del frutto del suo furore e in un attimo rivide tutta la scena della notte.
Ma quello che metteva tutto in disordine non era lui. Era sì uno sui cinquanta come lui, alto come lui, col suo stesso vestito, ma non era lui. Stette impalato un po’ davanti al negozio, più immobile del manichino, e rivisitò meglio la scena. “Sì, ero io” concluse alla fine amaramente. “Come ho potuto combinare una cosa del genere?”. Dall’altra parte della vetrina intanto la sua bella Marisa stava già aiutando le commesse a rimettere tutto a posto e, vedendolo, gli faceva l’occhiolino.




Complicità estive

Altro non c’era da vedere al mare, d’estate, se non una lunga distesa di sabbia e di sassi, donne disinvoltamente coperte di minuscoli indumenti e l’infrangersi sempre uguale delle onde sulla riva, e poi caldo e noia. E neppure era più come tanti anni prima, con un ombrellone ogni venti metri e nessuno dietro e nessuno davanti. Adesso cinque file, dieci per fila, cento persone, fra le quali almeno venti pronte a interrompere la lettura del libro che avete faticosamente scelto fra i tanti, prima di infilarvi le ciabatte di gomma.
Urla di bambini viziati penetrano nelle orecchie e nell’anima. Pingui signore si spalmano creme per scurire la pelle e quando passa l’amica dalla pelle olivastra arricciano il naso e riprendono a parlare di parrucchieri e gonne. I giovanotti sollevano la testa e roteano gli occhi verso la ragazza dalla chioma fluente e con la catenina alla caviglia, salvo accorgersi un attimo dopo, con disappunto, che il tutto poggia su esili gambe sbilenche.
Odiava il mare, ci andava solo perché doveva fare compagnia ad Adriana e intrattenere le amiche di lei ed i loro mariti in conversazioni sul nulla. Ad Adriana piaceva immergersi in acqua di frequente, era un continuo andare e venire fra spiaggia e onde. Nuotava bene e, mentre dava eleganti bracciate, anche a distanza le si poteva leggere sul viso un’aria soddisfatta e quasi compiaciuta. La sua eleganza si perdeva, è vero, nell’incedere maldestro non appena uscita dall’acqua, per via della sabbia abbagliante e quasi fumante. Ma, sdraiata sull’asciugamani a guardare il sole filtrato dalle goccioline fermatesi sulle ciglia, il suo corpo si ricomponeva. Prima si metteva supina, tutte e due le gambe allungate, poi con civetteria una delle due gambe si sollevava evidenziandone meglio la forma. Dopo qualche minuto Adriana si voltava, rotolandosi un po’, per l’abbronzatura.
Seguiva questi movimenti del corpo con un certo interesse. Adriana diventava in quei momenti più attraente, tanto che il profumo della salsedine sembrava venire da lei, e non dal mare. Se fosse stato pazzo, avrebbe in qualche modo allontanato tutti dalla spiaggia e si sarebbe sdraiato lì, al suo fianco. Ma pazzo non era, e allora seguitava a sbirciarla oltre l’angolo del giornale, sentendosi un po’ un dongiovanni e un po’ un odioso vecchio morso da una punta di gelosia. Gli dava infatti fastidio che quel viso e quel corpo, che nel calore del sole e della spiaggia stimolavano in lui desideri inconfessabili, fossero raggiungibili anche dagli sguardi indiscreti di altri. “E’ una stupidità” diceva poi, però, fra sé e sé, ravvedendosi. “Ma chi vuoi che guardi una signora fra tante giovani donne dalle labbra turgide e belle gambe elastiche? Solo un matto potrebbe. Oppure un giovane ancora imberbe, che ancora nasconde in sé l’amore per il seno materno. Oppure un vecchio barbagianni rimasto vedovo, per il quale ormai le suggestioni per una donna non sono più molto distinguibili da quelle per un’altra. E allora, via questi pensieri inutili, che non fanno altro che aumentare il disagio di questo caldo infernale, di questa luce accecante, di questa folla che brancola fra una sdraio e un asciugamani, di questo vocio di vecchie matrone e di giovinette in vetrina, di questi strepiti di neonati e di urli risonanti di bimbi ingenuamente festosi. Via!”.
Adriana adesso è di nuovo supina e, quasi assopita, piega ritmicamente all’ingiù le dita del piede destro. Lo fa da un bel po’. E’ un movimento sensuale, perché sembra che strusci contro qualcosa, anche se lì vicino non c’è proprio nulla. “E’ ora di pranzo, - dice lui - non sarebbe il caso di tornare in albergo? C’è giusto il tempo di cambiarci i vestiti prima di andare a mangiare”. La sua voce è gentile come al solito, ma stavolta ha un tono un po’ diverso, le sue parole sono sembrate un invito più che una domanda. E’ una voce calda e suadente per un verso e un po’ preoccupata per un altro, strana insomma. Adriana si asciuga, indossa un ampio copricostume azzurro sul quale si adagiano i suoi lunghi capelli e, attaccata al suo braccio, sembra farsi trascinare pigramente lungo la spiaggia.
La camera dell’albergo è in penombra, un grande ventilatore appeso al soffitto dispensa gradevoli folate d’aria fresca. “Lasciami riposare cinque minuti prima di cambiarmi” dice Adriana sdraiandosi sul letto. Lui si assenta per poco per una sigaretta e, quando rientra, nota che il piede di Adriana si muove di nuovo e le dita sembrano voler inutilmente sfiorare qualcosa. Nel movimento un piccolo muscolo della gamba si tende come prima sulla spiaggia. Vorrebbe accarezzarla, ma esita. Lei respira piano, ha gli occhi socchiusi, il viso è disteso ma percorso sotto pelle da impercettibili pulsazioni. “Ti dispiace se anch’io mi metto un po’ giù?” le chiede. “Ma, no… - risponde Adriana con un sorrisetto malizioso – in fondo è ancora presto per pranzare”. Lo guarda dalle sottili fessure delle palpebre e stringe ancora lentamente all’ingiù le dita del piede destro.





Il rituale

Nella prima stanza a destra, appena entrati, c’era lo studiolo. Una scrivania, una sedia imbottita e tutt’intorno, lungo le pareti, gli scaffali dove erano conservati i tomi del liceo e i saggi acquistati negli ultimi vent’anni. La casa non era molto grande, ma per le poche esigenze familiari la si poteva considerare abbastanza comoda. I bambini avevano la loro cameretta ben arredata, il soggiorno ospitava un tavolo con le sedie e la credenza. All’inizio del corridoio c’era la solita stanza inutile, il salotto, che assolveva all’unica funzione di accogliere come si deve i pochi parenti e amici che, non più di dodici volte all’anno, in media una volta al mese, venivano a far visita. Tutto era sempre pulito e in ordine.
Lo studio era il rifugio del professor Francesco Gerasi, insegnante del locale liceo. Un rifugio non del tutto sicuro, a dire il vero, perché frequenti quanto inopportuni erano i “sopralluoghi” della moglie e le incursioni piratesche dei bambini, che nei momenti meno adatti, quando era necessario concentrarsi, entravano per i più disparati motivi e toglievano al loro papà la capacità, forse la voglia, di continuare a lavorare. Francesco voleva loro molto bene e non era capace di farli allontanare subito, perciò rispondeva alle loro domande ed esaudiva le loro richieste, riuscendo sempre a non far trasparire il nervosismo causato dalle sistematiche interruzioni. Insomma, occorreva pazienza di mattina con gli alunni e pazienza di pomeriggio coi figli.
Quando il professore si rinchiudeva per mettere a punto le lezioni da impartire il giorno successivo oppure si dedicava alla lettura per un qualche approfondimento, le visitine dei bambini non avevano conseguenze tanto gravi. La cosa peggiore avveniva invece quando doveva correggere i compiti. Per quel lavoro occorreva un certo rituale preparatorio, un rituale piuttosto lungo e minuzioso, che ad un occhio esterno sarebbe potuto sembrare un indizio sufficiente per spedirlo dallo specialista, mentre esso in realtà assolveva a una precisa funzione, quella di prepararsi mentalmente ad entrare nell’animo di chi aveva svolto il tema o la versione.
Provo a descrivere sommariamente i passi di questo rituale. Per dieci minuti andava su e giù per la stanza cercando di allontanare tutti i pensieri personali, che avrebbero sicuramente impedito di comprendere appieno il senso degli elaborati e di giudicarne lo stile. Poi si sedeva alla scrivania, metteva i ventiquattro fogli degli allievi secondo un certo ordine, che a volte era quello alfabetico dei loro nomi e altre volte quello della posizione occupata in classe, tipo compagni di banco o per fila. Infine c’era il momento di predisporre gli strumenti della correzione, la matita rossa e blu e il temperamatite. Fatta bene la punta su entrambi i lati della matita, tirava un bel respiro e prendeva il foglio più in alto della pila. A volte, dopo tutto questo, Francesco notava che gli occhiali non erano puliti a dovere, perché iniziando la lettura vedeva dei puntini che in realtà sulla carta non c’erano, e allora, per non andare in bagno e fare un’accurata pulizia con acqua e sapone, si limitava a togliere con un fazzoletto di stoffa il pulviscolo, che si era accumulato sulle lenti mentre le aveva lasciate poggiate sul comodino durante il riposino pomeridiano, il dolce momento di discontinuità fra mattina e tardo pomeriggio.

Un freddo giorno del mese di dicembre, alle cinque di sera, seduto alla scrivania, il professor Gerasi era già pronto per leggere il primo dei compiti. Questa volta aveva deciso di ordinarli secondo le capacità riconosciute agli allievi durante i primi quattro mesi di scuola, prima quelli dei più bravini e poi, man mano, quelli degli alunni che avevano dimostrato minori attitudini. Dopo un’ora già tre dei foglietti posti a destra della scrivania erano passati a sinistra, con sua grande soddisfazione per la qualità degli scritti. Guardò l’orologio. “Se per le otto ne avrò corretti altri sei – pensò – fra domani e dopodomani saranno tutti a posto e venerdì li potrò portare a scuola, e per qualche giorno questa scrivania sarà meno pesante e le mie spalle un po’ meno curve”. Dopo i primi cinque compiti, per i quali si era potuto limitare a segnare in rosso qualche parola o qualche segno d’interpunzione, prese fra le mani il sesto foglietto. Era quello di Rosignani. Ogni due righe dovette cominciare a rigirare la matita fra le dita. Rosso, blu, blu, rosso. La stanchezza aumentava e la pazienza diminuiva, ma lui tirava avanti. Erano quasi le sette e avrebbe bevuto volentieri un caffè, ma non voleva disturbare sua moglie e pensò che non era il caso di andarselo a fare, altrimenti sarebbe stato difficile riprendere il lavoro con lo stesso ritmo. Di ripetere il rituale quella sera, d’altro canto, non era neppure il caso di pensarci. Si continuava e basta.
In quel momento Edoardo, il più piccolo dei tre figli, apriva la porta ed entrava in scena piagnucolando.
“Papà, per Natale mi compri una bicicletta come quella di Gianni?”
“Vedremo, vedremo, Edoardo. Tu però sei ancora piccolo per andare su una bici come quella.”
“Ma io vado piano.”
“Ne parleremo con la mamma. Adesso vai perché devo lavorare.”
“Io non vado, se tu non mi prometti di comprarla.”
“Elena, Elena, quante volte t’ho chiesto di non farmi lasciare il lavoro a metà? - disse Francesco a voce alta per farsi sentire dall’altra stanza - Per favore, vieni tu a parlare con Edoardo”. Silenzio. Elena non rispondeva.
“La mamma è uscita per buttare la spazzatura.” disse il piccolo.
“Ecco, lo sapevo che finiva così”. Francesco si alzò e prese in braccio il bambino.
“Ascolta, Edoardo, possiamo parlarne a cena, quando c’è pure la mamma? Bisogna chiederlo anche a lei. E poi, dimmi, dove sono i fratellini?”
“Stanno giocando nel soggiorno con i tuoi album di fotografie.”
“Oh Signore! andiamo a vedere.”
Francesco, seguito dal piccolo, si precipitò nel soggiorno e vide i suoi album per terra. Mentre li raccoglieva, Elena rientrò. Lui la pregò di occuparsi dei ragazzi e ritornò alla scrivania. Guardò il foglio lasciato lì ed ebbe una sensazione molto sgradevole. Quel foglio non era più lo stesso di prima. Non ricordava neppure più di chi fosse e di cosa vi fosse scritto fino al punto a cui era arrivato con la lettura, e in cui cessavano i segni della matita. Quel foglio, in quel momento, per lui era privo di significato, dentro non c’era più vita, era un foglio morto, un semplice pezzo di carta. Lo rigirò per un minuto fra le mani. Sull’ultima pagina c’era una firma, Rosignani. Ricordava che dieci minuti prima aveva nella mente la sua precisa fisionomia e adesso, invece, nonostante gli sforzi, non riusciva più ad associare il foglio a un viso. “Per capire quello che dici, caro Rosignani, - disse fra sé e sé - devo essere in contatto spirituale con te, capisci? Le fredde parole, da sole, ferme lì su quel foglio, cosa possono dire? Sì, posso togliere o mettere qualche virgola, correggere qualche desinenza, ma non posso comprendere veramente quello che tu vuoi dire. Non ti offendere se rimetto il tuo compito al posto di prima. Domani alle quattro sarò di nuovo qui, scioglierò i muscoli delle gambe e i nervi andando un po’ avanti e indietro per questa stanza, mi isolerò di nuovo dal resto del mondo, rifarò per benino le punte alla matita rossa e blu e, quando avrò di nuovo bene in mente il tuo viso, leggerò i tuoi pensieri.”
In quel momento entrò la moglie, che si rallegrò molto per il fatto che lui avesse finito prima del previsto. Gli disse che si sarebbe cenato alle otto e che, volendo, c’era il tempo di fare insieme una passeggiatina sotto casa.
Per strada c’erano ormai poche persone, i negozi erano tutti chiusi, non si sentivano rumori di auto. La moglie raccontava cose accadute nella giornata e diceva che per cena aveva preparato il suo piatto preferito, la “bismark”, una polpettina larga e sottile di carne macinata con sopra due uova. Lui disse che era molto contento e intanto pensava che il giorno seguente, a scuola, l’avrebbe guardato con attenzione il volto dell’alunno.
“Rosignani, - borbottò, scrutando il viale che conduceva verso casa - domani rileggerò, oggi non potevo, mi dispiace”
.“Cosa dici, Francesco?” - chiese Elena
.“Oh, nulla d’importante, Elena. Pensavo ai compiti da correggere”.






Mimmo

Una delle ultime volte in cui lo vidi fu quando ebbe con sua moglie una breve discussione, in uno dei tanti giorni in cui faceva ritorno dal lavoro, nonostante la malattia e nonostante la strana forma di consapevolezza che le persone colpite da quel male sembrano avere. Il ragionamento che ricuce gli indizi e ne intravvede l'oscuro orizzonte, da un lato, e l'attaccamento alla vita e alle persone amate, che costringe invece a dimenticare il presagio del triste distacco.
Quel giorno, come tutte le mattine, si era svegliato alle quattro. Lui e la moglie dormivano nella mansarda e per fare il caffè lui percorreva, con passo lieve, lunghe e ripide rampe di scale fino al piano terra; poi risaliva quei gradini per portare il caffè alla moglie, indossava la tuta, ridiscendeva e, in macchina, ancora col buio, attraversava i boschi per trovarsi alle cinque sul luogo di lavoro. Lo si vedeva tornare verso le dodici, senza segni di stanchezza.
La moglie lo guardò quel giorno mentre riparava un arnese da lavoro e, per indurlo a smettere, finse di arrabbiarsi.
“Ma è possibile che tu proprio non riesca a star fermo un minuto? Domani viene Antonio, ha detto che ci penserà lui ad aggiustarlo e a ripulire il prato”.
“E che male c'è se lo faccio io?”.
“C'è che hai avuto due interventi e i medici hanno detto che non devi stancarti”.
“Quante storie! Quando mai il lavoro ha fatto male alla salute? Se qualcosa deve succedere, succede. Il lavoro non c'entra”. Tutti fingemmo di non capire.
“Hai la testa dura, nessuno ti convince. Dai, lascia perdere, è pronto da mangiare”.
“Va bene, - disse un po' contrariato - fra un attimo vengo”.
Teneva la testa china sull’attrezzo, non voleva vedere lo sguardo della moglie. La voce di lei era perentoria e dura, ma lui aveva già visto il suo viso compassionevole.
Lo conoscevo ormai da venticinque anni. D’estate andavamo sempre in montagna in uno degli appartamentini, che fittavano per integrare il magro e incerto reddito di un lavoro umile ma che lui svolgeva con impensabile passione e dignità. La sua era ancora la cultura del “non si butta niente” e, quando vicino ai lati dei cassonetti vedeva qualcosa che poteva essere ancora utile, la portava in montagna, la poggiava sul tavolino da lavoro e in giornata riparava l'oggetto: a qualcuno sarebbe servito, diceva. Ricordo una chitarra sfasciata ridiventare nuova, una vecchia bilancia che ricominciò a pesare, un libro ingiallito ripulito e incollato, assi di legno trasformati in palizzata, una variopinta statuetta che insieme ai fiori ornava il piccolo giardino antistante alla casa.
Quando vent'anni fa portai con me una telecamera, la provò e ne rimase affascinato. A lui non doveva sfuggire nulla della realtà, e quell'oggetto poteva fissare nel tempo le cose belle che la natura e gli uomini offrivano. Io smisi presto di utilizzarla; possedevo l'oggetto, ma tutto ciò che vedevo mi sembrava troppo scontato. Per lui tutto invece era sempre una novità, tutto degno di essere osservato e ripreso: i funghi nei boschi, i fiori del suo giardino, le gare di vela sul lago, la processione di ferragosto e i fuochi d’artificio, il viso dei nipotini, la figura austera della suocera.
Nel giardino c'erano tre cespugli di “bella di notte”, un fiore giallo che si schiude al tramonto in alcuni secondi e perciò se ne può osservare il lento movimento. La sera, le lunghe conversazioni si interrompevano per assistere sempre stupiti a quello spettacolo, e lui per anni riprese quasi in modo maniacale quei fiori nel loro improvviso sbocciare.
Abitavano, lui e la moglie, nella casetta di montagna solo nei mesi estivi. D’inverno c’era la neve ed era difficile recarsi al lavoro in automobile ancora col buio, perciò alla fine di settembre tornavano nel loro paese, poco distante.
E’ lì che lo vidi l'ultima volta. Davanti a casa sua, in un vicolo pavimentato con cemento, crocchi di amici con i volti più scuri degli abiti. Su per le scale odore di ceri e di fiori. Uno stretto corridoio gremito di donne sgomente. Una piccola stanza e una bara accoglievano, ora immobile, l'uomo che in vita non aveva saputo star fermo. Il volto era ormai esangue, scarno, lievemente deformato forse da un'ultima smorfia di dolore, gli zigomi sporgenti, il naso affilato come una lama. Poi il coperchio, il volto tragico della moglie, le spalle degli amici, il triste corteo, il rumore di passi timorosi, un'auto che lo portava definitivamente lontano dai monti. Tornammo in montagna due mesi dopo. La moglie era molto dimagrita e parlava sempre di lui.






Pezzetti di vita. Pallina.

Da bambino, come tutti i bambini, ho pianto per un rimprovero o un desiderio non esaudito; diverse volte. Poi durante un’adolescenza fatta di un continuo domandarsi e rispondersi sulla natura dell’individuo e della società, su come essi sono e su come dovrebbero essere (un amico mi rimproverò, forse giustamente, di confondere i due piani, ma io ho voluto sempre, caparbiamente, continuare a tenerli legati), mi sono faticosamente costruito un mio sistema di idee. Incastonata in questo sistema, seppur con un ruolo secondario, c’era l’idea che un uomo (vir, la virilità come forza morale, e non come identità sessuale) dovesse saper sopportare ogni avversità ed ogni dolore senza bisogno di trovare sfogo nel pianto. Era una questione di dignità ed anche un indirizzo morale: di fronte alla sofferenza non bisogna mai cedere, ma trovare sempre idonei strumenti razionali per fronteggiarla.
Dai quindici anni in su sono sempre riuscito a tener fede a questo principio: non ho pianto per dolore fisico (confesso però anche di non aver avuto malattie particolarmente dolorose o aver subito aggressioni fisiche di rilievo), né per delusioni sentimentali, né di fronte alla perdita di persone care.
Questa strana “virtù” s’è sciolta come neve al sole, quando Pallina, la cagnolina che riempiva con la sua presenza ogni angolo della mia modesta abitazione, dopo tre giorni di respiro affannoso e rumoroso, da me scambiato per una banale tosse e così classificata dal veterinario telefonicamente in base alla descrizione dei sintomi, tornata dalla prima possibile visita veterinaria che diagnosticava una grave insufficienza cardiaca, ha smesso di respirare. Medicine, ghiotti bocconcini e carezze ormai non bastavano più. Gli occhi, quasi persi nel vuoto, si indirizzavano comunque verso me e mia moglie e, al sopraggiungere dell’uno o dell’altra, nonostante il venir meno delle forze, tirava su le orecchie e girava il musino dalla parte nostra. Ma più di questo ormai non poteva fare: per l’ultima volta sul suo lettino, accelerò al massimo il respiro alla ricerca di ossigeno, si alzò poi per cambiare posizione e venire più vicino a noi due. “E’ finita”, dissi a mia moglie. Si sdraiò sul fianco, irrigidì le zampette, emise in quattro brevi soffi l’ultima aria che era ancora rimasta nel corpicino ormai indifeso e non si mosse più.
Cadono allora idee e sistemi di idee e i miei occhi secchi si riempiono di lacrime, che sgorgano senza più il minimo freno. E le lacrime continuano a sgorgare anche dopo ore e giorni non appena rintraccio, in un posto o in un oggetto, qualcosa di suo. La vedo in terrazza mentre abbaia perché ha sentito arrivare l’automobile, o mentre si sdraia al primo sole primaverile, o mentre si accovaccia sui sassolini per fare pipì. La vedo sul lettino dove dormiva di pomeriggio o di notte e da dove mi guardò per l’ultima volta. La vedo sulla poltrona della cucina da dove chiedeva i croccantini e ascoltava la radio tenuta sempre accesa a basso volume da mia moglie; davanti alla stufetta elettrica o al caminetto per scaldarsi un po’ nei mesi invernali; sul lettone grande, su cui riposava quando non c’era nessuno. Ora stiamo cercando di cancellare le tracce più significative (copertine, guinzaglio, lettiera, ciotola) per piangere un po’ meno, ma non appena ci giriamo ci sembra di vederla lì, davanti a noi, dietro di noi, di fianco.
Dei cari amici mi avevano raccontato qualcosa del genere da essi sofferto e mi avevano anche avvertito del fatto che non bisognava parlarne a persone che non avevano avuto questa esperienza, perché non ci avrebbero creduto o avrebbero pensato che fosse una esagerazione. Ero preavvertito. Ma io stesso pensavo che in fondo la reazione fosse esagerata. E invece sbagliavo, è proprio così che succede.
Ma, se così è veramente per tutti coloro che hanno condiviso una parte della vita con un cagnolino, ci deve essere una ragione. Un cagnolino che vive in casa non ha una sua propria vita, vive in funzione di ciò che fanno o dicono i suoi “amici a due zampe”, ne seguono i movimenti, le attività, ne condividono le emozioni. Sentono e sono partecipi dell’allegria come della tristezza; sanno sempre se stai bene o se sei malato; capiscono se sei tranquillo o nervoso. Colgono i minimi segnali di ciò che stai per fare: metti le scarpe di un certo tipo e capiscono che li porti a passeggio. Loro vivono per te. Solo quando ti guardano negli occhi per l’ultima volta, capisci che anche tu vivevi per loro.





Indice

L’aquila…………………………………………….
Il geometra…………………………………………..
La croce……………………………………………
Intrigo………………………………………………..
Il borgomastro………………………………………….
Ricordi………………………………………………
Sul lago……………………………………………..
Tre donne…………………………………………….
Primavera……………………………………………..
Il coraggio…………………………………………..
Il nuovo partito dei lavoratori……………………….
La promozione………………………………………..
L’abbazia……………………………………………..
Il dire e il fare……………………………………….
I terroni………………………………………………
Corruzione………………………………………….
L’attrice………………………………………………
Disagio……………………………………………….
Lo spazio…………………………………………….
Il fumo……………………………………………….
Il giornale dei poveri………………………………….
Fatti e segnali…………………………………………
Femminilità……………………………………………
Leggerezza…………………………………………….
Aforismi………………………………………………
Il bivio (fiaba)…………………………………………
La scuola (fiaba)…………………………………….
Il pescatore………………………………………….
Fortunato………………………………………………
La battuta maliziosa………………………………….
Complicità estive……………………………………
Il rituale………………………………………………
Mimmo………………………………………………..
Pezzetti di vita. Pallina……………………………….

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