venerdì 27 settembre 2019

Giampiero Calabrò, “L’alba del nuovo ordine – Temi rapsodici sul medioevo giuridico: fatti e valori”




Del suo più recente lavoro il Prof. Giampiero Calabrò dice che è breve, che ha carattere ‘rapsodico’ e che potrebbe anche essere l’ultima sua fatica accademica.
Forse perché, come diceva la mia severa suocera, io sono un po' bastian contrario, ma più probabilmente perché conosco bene l’Autore, come persona oltre che come pensatore, mi permetto di muovere rispettosamente qualche lieve obiezione a tutte e tre le asserzioni.
Circa la brevità, dirò che il Vangelo di Matteo e il Manifesto di Marx, sono molto più brevi. Di fronte a certi temi scolastici, i vecchi prof talvolta rimproveravano l’alunno di aver ‘allungato troppo il brodo’. E avevano ragione a usare questa metafora: un libro, come il brodo, può essere ristretto e saporoso oppure lungo e insipido.
Sul carattere rapsodico del saggio, dirò che, per quanto io ne sappia, nulla è più lontano dalle ‘corde’ dell’Autore. So che fin dall’adolescenza ha sempre avuto una inguaribile e ossessiva tendenza a spaccare il capello in quattro, ad analizzare il tutto per poi poterlo ricomporre in 'ordine sistematico'.
Che questa poi possa essere l’ultima sua fatica, mi azzardo a profetizzare che – dopo un breve riposo dalla scrittura, impreziosito probabilmente dalle moine delle nipotine – fra un mese o due, mentre cenerà o passeggerà per le strade di Rossano o Passignano o si sdraierà per un breve pisolino, non potrà fare a meno di pensare, e dunque di ritessere nuove trame filosofiche e di scrivere altre e altre pagine ancora.

“L’alba del nuovo ordine” ha per oggetto le riflessioni filosofiche e giuridiche relative a un arco di tempo abbastanza preciso, dalla fine del 1200 (Tommaso d’Aquino) alla prima metà del 1300 (Guglielmo d’Ockham), con l’intento di proiettare luci e ombre di quel mezzo secolo – o, se vogliamo, ‘secolo di mezzo’ – sulle problematiche giuridiche che, quasi in movimento circolare, tornano a occuparci e preoccuparci nei tempi attuali.
Luci e ombre, occupazioni e preoccupazioni, dicevo, perché sia in Tommaso che in Guglielmo, come pure in tutti gli autori coevi citati dall’Autore, il saggio trova il filo conduttore che sempre li unisce pur in una apparente discontinuità. E, di ciascuno di essi, segnala il contributo evolutivo e i limiti.
Il pregio più importante di questa ricerca va dunque visto innanzitutto nella rivalutazione di un periodo storico ingiustamente messo in ombra dal pensiero successivo. E non è il caso di sottolineare ciò che è noto anche al liceale meno brillante: a iniziare dal Rinascimento, empirismo e razionalismo, criticismo e illuminismo, positivismo e materialismo, anche se ognuno a modo proprio, si sono tutti collegati alla filosofia greca e al diritto romano, saltando a piè pari il pensiero medioevale.

Giampiero Calabrò è uno di quegli studiosi che questo pensiero vogliono riportare alla luce. Perché non meritano l’oblio né l’opera sistematica di Tommaso d’Aquino, né tanto meno gli scossoni antintellettualistici del francescanesimo, né tutti quegli autori che - partendo da Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi, terre d’elezione spirituale dell’Autore – ne hanno affinato gli strumenti intellettuali: Duns Scoto (1265–1308), Bartolo da Sassoferrato (1314–1357), Marsilio da Padova (1275–1342, col suo Defensor Pacis del 1324) e infine Guglielmo d’Ockham (1288–1347). Tre filosofi e un giurista che, nel tentativo di superamento del tomismo, vanno alla ricerca di un nuovo mondo di valori, quello dei ‘diritti soggettivi’.
Arrivati a Guglielmo d’Ockham, sembra che il problema sia felicemente risolto, e invece, giunti alle ultime pagine, il saggio ne paventa i rischi:

<< Le nozioni di sicurezza e ordine hanno segnato nel loro significato assiologico il progresso giuridico dell’Occidente fino a quando […] siamo entrati ufficialmente nel secolo dell’insicurezza. Mentre scrivo, il dibattito politico si è riacceso su questi temi e viene vissuto, com’è forse fisiologico, secondo le divisioni proprie del discorso ideologico e acritico. D'altronde la stessa giurisprudenza e l'azione repressiva dell'ordine giudiziario oscillano in un giuoco pirotecnico di disposizioni e di interpretazione, che lasciano sconcerto ed aumentano il senso di insicurezza e di paura. Il ritorno alla fattualità, alle radici identitarie del territorio e del sangue conducono ad una condizione pre-moderna e alimentano i fantasmi inquietanti di un passato, che ogni volta si presenta sotto "velate" spoglie. In questo quadro prende corpo una visione c.d. assiologica dell'ordine e della nozione di sicurezza, a condizione che allorché si parli di valori, non si dimentichi che essi, una volta incardinati nella carta costituzionale, siano da considerarsi norme positive assiologicamente orientate. >> (pagg. 131-132)
Che avesse ragione l’Aquinate?

Nota.
L’autore, in alcuni spunti autobiografici, accenna al suo lavoro come racconto "senza alcuna pretesa rigorosamente scientifica [che] si muove ad un livello meramente didattico" (pag. 81). Evidentemente, rispetto ai suoi precedenti e numerosi saggi, questo è stato forse scritto con spirito più libero e sereno, ma io ho l’obbligo di avvertire il lettore che si tratta comunque di pagine asciutte e dense, che richiedono e meritano una o più attente letture e successive meditazioni.
Il mondo accademico ne sarà arricchito. I libri più belli dei miei studi universitari sono quelli che ho dovuto leggere due o più volte!