lunedì 21 dicembre 2015

Lidia Grimaldi: “Letterina di Natale al Padreterno”




Caro Padreterno, ho in mente da tempo di dirti un paio cose a proposito di Natale e poiché sono divenuta un po’… grandicella per scrivere la solita letterina a Gesù Bambino, che oltretutto non mi risponde mai, quest’anno ho deciso di scrivere a Te, giusto per togliermi qualche sassolino dalle scarpe che si fanno via via più strette.

Qui sul pianeta terra, come tu sai, ogni anno, all’avvicinarsi del venticinque dicembre, prepariamo il presepe, ognuno a modo proprio, cercando di ricostruire la scena della nascita di tuo figlio per filo e per segno come ce la raccontano da duemila e passa anni. Ora non sto a tediarti con gli ultimi dibattiti che hanno animato questa coda del 2015 intorno all’opportunità o meno della preparazione di questa sorta di teatrino, nel senso più sacro del termine eh!, anche perché dovresti conoscere bene le questioni dell’intercultura, delle emigrazioni, delle lingue e delle religioni che ora ci affliggono, avendoci messo proprio tu nei guai quando ti venne il ghiribizzo della torre di babele, ormai di ben misera altezza al confronto di certi grattacieli multilingue contro cui vanno a schiantarsi alcuni aerei, comunque non divaghiamo. E’ che prima ti trastulli a dividere - pure le acque, ti ricordi? - e poi ti dimentichi, e ora fra globalizzazione e internet le acque si richiudono su milioni di uomini donne e bambini in cerca della terra promessa ma senza la guida di quel Mosè che ben conosci e ti assicuro che la babele che avevi fatto tu è niente al confronto di quella che ci stiamo costruendo con le nostre mani.

Ma non stiamo ora a parlare di questioni utili solo a chi tira la solita acqua al suo mulino prendendo le solite posizioni da guerre stellari, la questione che mi preme è un’altra: la neve, ovvero il freddo che attanaglia molti popoli del pianeta terra in questo preciso periodo dell’anno in cui ricorre il genetliaco del tuo figliolo ultramillenario.

Ogni volta mi dico: ma è possibile che doveva farlo nascere in pieno inverno? Quando si dice che uno ce la mette tutta per rendere difficile la vita a un figlio sin dall’inizio!

Volevi farlo nascere povero, lo posso capire. Faceva parte del piano, ché si doveva essere chiari da subito con i fatti e non solo a chiacchiere su quella cosa che gli ultimi saranno i primi. E pure su quell’altra che anche se non si nasce re uno poi lo può diventare, sia pure con molti sacrifici e sofferenza (che poi ti posso garantire che non è mica vera per tutti questa cosa dei sacrifici e della sofferenza per diventare qualcuno, ci siamo fatti furbi e abbiamo scoperto che basta una raccomandazione e qualche bustarella per passare da sotto a sopra, e infatti è tutto sottosopra).

Ma non divaghiamo, torniamo a tuo figlio. Sai dirmi perché ci hai messo il carico del freddo di dicembre? Come ha fatto a non prendersi una polmonite è un vero miracolo. Uno di quelli di cui nessun vangelo parla. Avevano voglia a fiatare i due poveri animali della stalla! Il freddo è freddo, non si scappa. E non c’erano nemmeno gli antibiotici.

Insomma, diciamocelo, come padre non sei stato un granché. Lo hai messo in difficoltà sin da prima che nascesse. A lui e a quei poveri genitori terrestri. Cominciando dalla storia dello spirito santo che nessuno si voleva bere neanche a quel tempo che pure i miracoli erano all’ordine del giorno, come quello della manna che cadde dal cielo.

A proposito di questa manna, perché non ne fai piovere più da nessuna parte? Guarda che ce n’è ancora molto bisogno in moltissimi posti di questo pianeta. Terra. Te lo ricordi? E che, non lo so che ce ne sono tanti che devi controllare? E’ per questo che ci tengo a darti qualche coordinata specifica. Mi sa che ti sei messo a guardare troppa televisione e hai perso il senso della realtà. Lo sai o no che in televisione è tutto finto? Ti fanno credere che va tutto bene, dalle ragazze con la sesta misura ai panettoni sotto i camini, dal grande fratello al politico di turno che sistema le cose a chiacchiere. Spegni la tv e guarda quaggiù, qui dove nasce l’erba e aumenta la spazzatura.

Vedi quante cose ti stanno sfuggendo di mano? E quante te ne sono sfuggite negli ultimi duemila anni di storia? Su quelli prima, non stiamo a rivangare. Torniamo a tuo figlio.

Non ti sei accontentato di farlo nascere in povertà né di aver messo in difficoltà quel povero falegname di Nazareth. Hai voluto strafare e l’hai fatto nascere pure al freddo e al gelo di dicembre. Un vero e proprio accanimento. E non solo verso quel povero innocente del bambino Gesù, che non ne aveva affatto bisogno, considerato quel po’ po’ di programmino che avevi in serbo per lui, povero figlio. Ma anche verso l’intera umanità che a tuo dire amavi così tanto al punto da voler sacrificare per lei la vita del tuo stesso figlio.

Che poi questa storia del sacrificio dei figli tu ce l’avevi per vizio, diciamocelo francamente, e ci avevi pure provato diverso tempo prima col povero Isacco. Pensa se l’angelo fosse arrivato in ritardo per un improvviso guasto all’ala. Comunque non ti sei dato una calmata, nemmeno dopo Gesù. Li vedi o no tutti questi bambini che muoiono sulla terra ogni giorno e nemmeno un angelo a fermare la mano del boia prima che sia troppo tardi? Che cosa è successo agli angeli? Sono entrati in sciopero?

Tornando a questa cosa d’aver fatto nascere tuo figlio a dicembre, ti rendi conto che per festeggiare la ricorrenza della sua nascita tutti gli uomini di questo pianeta - la terra, guarda di qua, non ti distrarre, ci sei? - allora dicevo la gran parte degli uomini della terra sono costretti a festeggiare la ricorrenza della nascita del bambinello nei giorni più freddi dell’anno? Questo significa che se vogliono andare alla messa di mezzanotte minimo minimo devono avere un cappotto. E secondo te tutti hanno un cappotto?

Prendi poi i mercatini di natale. Lo sai il freddo che avevano domenica scorsa quei poveri diavoli degli ambulanti sotto i loro gazebo a vendere tutta quella mercanzia di angeli, pastori e cianfrusaglie varie?

Tu pensa se lo facevi nascere a luglio. Ce ne andavamo tutti al mare e i mercatini si facevano sulla spiaggia. Le vendite si sarebbero raddoppiate e se ne sarebbero avvantaggiati anche i migranti che invece di essere rispediti a casa loro o rinchiusi nei campi di Lampedusa avrebbero avuto spiagge affollatissime in cui sistemare banchetti per la vendita delle più inutili chincaglierie che riusciamo a inventarci in questo periodo dell’anno.

E comunque il discorso è anche più ampio. Tu considera che col caldo si mangia meno, anche perché la gente deve indossare i costumi da bagno e quaggiù ci tengono quasi tutti a mostrarsi magri e belli. E infatti ti risulta che per la festa di San Pietro e Paolo o per l’Assunzione qualcuno si abbuffi di abbacchio? Pensa quanti agnelli e capretti risparmiati, come quello che lo stesso Gesù non ebbe il coraggio di portare al tempio, stando alla testimonianza del vangelo di Saramago che secondo me è uno dei più belli in circolazione.

E poi secondo me l’estate è la stagione del massimo grado di uguaglianza: si va tutti svestiti allo stesso modo, ricchi e poveri, le collane d’oro si lasciano a casa perché col caldo ti lascerebbero ustioni intorno al collo e le pellicce non servono così pure le volpi i visoni e tutte le creature amiche di quella grande anima di San Francesco sarebbero più felici.

Dammi retta, sarebbe stato meglio per tutti se tu avessi fatto nascere il Bambin Gesù col caldo. D’estate certe diversità si notano di meno.

E poi, padreterno, che ti devo dire? a me l’estate piace più di più. Vedessi che tristezza è l’inverno! Hai voglia a mettere luminarie! Alle quattro del pomeriggio quaggiù da noi - pianeta terra, ricordati! - è già buio e le riserve per la produzione di energia elettrica sono in esaurimento. Voglio vedere come faranno fra altri duemila anni. Anzi, toglimi una curiosità, tu che sai tutto, ci sarà ancora questo pianeta fra duemila anni?

Dici che sono tanti e non si può fare un pronostico, e quindi mi sto ponendo un problema inutile?

No, padreterno, non è un problema per me. Pensi che non lo sappia che il massimo che mi riguarda è un arco di tempo variabile fra la prossima ora e un paio di decenni?

Me lo domandavo così, per curiosità.

Lidia Grimaldi

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Di Lidia Grimaldi su questo blog c’è già un breve profilo, da me scritto in occasione della pubblicazione di “Ritorno”, un ‘racconto poetico’ – non so e non voglio definirlo diversamente – in cui ricorda la sua mamma e la sua bellissima città d’origine, Cefalù. *
Oggi, in prossimità delle feste natalizie, ho avuto il piacere di poter pubblicare una sua speciale “Letterina di Natale al Padreterno”, fatta di rimproveri insidiosi, ma così ragionevoli che forse persino l’attuale Papa Francesco la sottoscriverebbe. Almeno in parte.
Poiché una lettera non contempla delle risposte immediate, questa pagina letteraria, venata di pungente ironia, si configura come un monologo. Un monologo del quale mi è venuto spontaneo immaginare una possibile interpretazione, nel tono e nella mimica, da parte di un attore - Troisi - che ha, anche lui, osato rivolgersi al Padreterno col tono confidenziale che un figlio moderno potrebbe usare verso il suo papà.

Le domande poste sono di carattere etico, non bisogna leggere il testo con pretese storiche o esegetiche. Che Gesù sia nato a dicembre o in primavera, non è in fondo importante; l’ipotesi tradizionale di dicembre, qui accolta, serve solo da filo conduttore per poter porre altre, più importanti questioni, molte delle quali di estrema attualità.
Lidia Grimaldi è poeta e narratrice e i riferimenti particolari al testo sacro sono dunque solo lo spunto per mettere in discussione alcune scelte che nel corso della storia i rappresentanti ufficiali della cristianità hanno operato in aperta contraddizione con i principi ispiratori della Buona Novella.

Dell’autrice ho letto vari racconti scritti alcuni anni fa e devo dire che, confrontandoli con quelli più recenti, trovo una qualche discontinuità di stile, direi una evoluzione. Da forme quasi architettoniche, in cui la logica e la punteggiatura fanno rispettivamente da pilastri e muri separatori, si passa a forme quasi scultoree in cui a prevalere è la libertà espressiva, e il fluire dei pensieri non tollera pastoie formali di alcun genere.
Ci sono esempi illustri di questo genere di scrittura: al vertice James Joyce e, a livello nazionale, il nostro Giuseppe Berto.
Lidia è ancora nel sottobosco degli inediti, ma in quel sottobosco… emerge di parecchie spanne.

Cataldo Marino

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Altri scritti di Lidia Grimaldi su questo blog:

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martedì 8 dicembre 2015

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti: “La gioia e la legge”


La gioia e la legge

Quando salì in autobus infastidì tutti. La cartella stipata di fogli altrui, l'enorme involto che gli faceva arcuare il braccio sinistro, il fasciacollo di felpa grigia, il parapioggia sul punto di sbocciare, tutto gli rendeva difficile l'esibizione del biglietto di ritorno; fu costretto a poggiare il paccone sul deschetto del bigliettaio, provocò una frana di monetine imponderabili, tentò di chinarsi per raccattarle, suscitò le proteste di coloro che stavano dietro di lui e cui le sue more incutevano il panico di aver la falde dei cappotti attanagliate dallo sportello automatico. Riuscì ad inserirsi nella fila di gente aggrappata alle passatoie; era esile di corporatura ma l'affardellamento suo gli conferiva la cubatura di una suora rigonfia di sette sottane. Mentre si slittava sulla fanghiglia attraverso il caos miserabile del traffico, l'inopportunità della sua mole propagò il malcontento dalla coda alla testa del carrozzone: pestò piedi, gliene pestarono, suscitò rimproveri e quando udì perfino dietro di sé tre sillabe che alludevano a suoi presunti infortuni coniugali, l'onore gl'ingiunse di voltare la testa e s'illuse di aver posto una minaccia nell'espressione sfinita degli occhi.
Si percorrevano intanto strade nelle quali facciate di un rustico barocco nascondevano un retroterra abbietto che per altro riusciva a saltar fuori ad ogni cantone; si sfilò davanti alle luci giallognole di negozi ottuagenari.
Giunto alla sua fermata suonò il campanello, discese, incespicò nel parapioggia, si ritrovò finalmente isolato sul suo metro quadrato di marciapiede sconnesso; si affrettò a constatare la presenza del portafoglio di plastica. E fu libero di assaporare la propria felicità.

Racchiuse nel portafoglio erano trentasettemiladuecentoquarantacinque lire, la "tredicesima" riscossa un'ora fa, e cioè l'assenza di parecchie spine: quella del padrone di casa, tanto più insistente in quanto bloccato ed al quale doveva due trimestri di pigione; quella del puntualissimo esattore delle rate per la giacca di "lapin" della moglie ("Ti sta molto meglio di un mantello lungo, cara, ti snellisce"); quella delle occhiatacce del pescivendolo e del verduraio. Quei quattro biglietti di grosso taglio eliminavano anche il timore per la prossima bolletta della luce, gli sguardi affannosi alle scarpette dei bambini, l'osservazione ansiosa del tremolare delle fiammelle del gas liquido; non rappresentavano l'opulenza certo, no davvero, ma promettevano una pausa dell'angoscia, il che è la vera gioia dei poveri; e magari un paio di migliaia di lire sarebbe sopravvissuto un attimo per consumarsi poi nel fulgore del pranzo di Natale.
Ma di "tredicesime" ne aveva avute troppe perché potesse attribuire all'esilarazione fugace che esse producevano l'euforia che adesso lo lievitava, rosea. Rosea, sì, rosea come l'involucro del peso soave che gli indolenziva il braccio sinistro. Essa germogliava proprio fuori del panettone di sette chili che aveva riportato dall'ufficio. Non che egli andasse pazzo per quel miscuglio quanto mai garentito e quanto mai dubbio di farina, zucchero, uova in polvere e uva passa. Anzi, in fondo in fondo, non gli piaceva. Ma sette chili di roba di lusso in una volta sola! una circoscritta ma vasta abbondanza in una casa nella quale i cibi entravano a etti e mezzi litri! un prodotto illustre in una dispensa votata alle etichette di terz'ordine! Che gioia per Maria! che schiamazzi per i bambini che durante due settimane avrebbero percorso quel Far-West inesplorato, una merenda!
Queste però erano le gioie degli altri, gioie materiali fatte di vaniglina e di cartone colorato, panettoni insomma. La sua felicità personale era ben diversa, una felicità spirituale, mista di orgoglio e di tenerezza; sissignori, spirituale.

Quando poco prima il Commendatore che dirigeva il suo ufficio aveva distribuito buste-paga e auguri natalizi con l'altezzosa bonomia di quel vecchio gerarca che era, aveva anche detto che il panettone di sette chili che la Grande Ditta Produttrice aveva inviato in omaggio all'ufficio sarebbe stato assegnato all'impiegato più meritevole, e che quindi pregava i cari collaboratori di voler democraticamente (proprio così disse) designare il fortunato, seduta stante.
Il panettone intanto stava lì, al centro della scrivania, greve, ermeticamente chiuso, "onusto di presagi" come lo stesso Commendatore avrebbe detto venti anni fa, in orbace. Fra i colleghi erano corse risatine e mormorii; poi tutti, e il Direttore per il primo, avevano gridato il suo nome. Una grande soddisfazione, un'assicurazione della continuità dell'impiego, un trionfo, per dirlo in breve; e nulla poi era valso a scuotere quella tonificante sensazione, né le trecento lire che aveva dovuto pagare al "bar" di sotto, nel duplice lividume del tramonto burrascoso e del "neon" a bassa tensione, quando aveva offerto il caffè agli amici, né il peso del bottino, né le parolacce intese in autobus; nulla, neppure il balenare nelle profondità della sua coscienza che si era trattato di un attimo di sdegnosa pietà per il più bisognoso fra gli impiegati; era davvero troppo povero per permettere che l'erbaccia della fierezza spuntasse dove non doveva.
Si diresse verso casa sua attraverso una strada decrepita cui i bombardamenti quindici anni prima avevano dato le ultime rifiniture. Giunse alla piazzetta spettrale in fondo alla quale stava rannicchiato l'edificio fantomale. Salutò gagliardamente il portinaio Cosimo che lo disprezzava perché sapeva che percepiva uno stipendio inferiore al proprio. Nove scalini, tre scalini, nove scalini: il piano dove abitava il cavaliere Tizio. Puah! Aveva la millecento, è vero, ma anche una moglie brutta, vecchia e scostumata. Nove scalini, tre scalini, uno sdrucciolone, nove scalini: l'alloggio del dottor Sempronio: peggio che mai! Un figlio scioperato che ammattiva per Lambrette e Vespe, e poi l'anticamera sempre vuota. Nove scalini, tre scalini, nove scalini: l'appartamento suo, l'alloggetto di un uomo benvoluto, onesto, onorato, premiato, di un ragioniere fuoriclasse.

Aprì la porta, penetrò nell'ingresso esiguo già ingombro dell'odore di cipolla soffritta; su di una cassapanchina grande come un cesto depose il pesantissimo pacco, la cartella gravida d'interessi altrui, il fasciacollo ingombrante. La sua voce squillò: "Maria! vieni presto! Vieni a vedere che bellezza!"
La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste segnata dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti. I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento roseo, e squittivano senza ardire toccarlo.
"Bravo! e lo stipendio lo hai portato? Non ho più una lira, io." "Eccolo, cara; tengo per me soltanto gli spiccioli, duecento quarantacinque lire. Ma guarda che grazia di Dio!"
Era stata carina, Maria, e fino a qualche anno fa aveva avuto un musetto arguto, illuminato dagli occhi capricciosi. Adesso le beghe con i bottegai avevano arrochito la sua voce, i cattivi cibi guastato la sua carnagione, lo scrutare incessante di un avvenire carico di nebbie e di scogli spento il lustro degli occhi. In lei sopravviveva soltanto un'anima santa, quindi inflessibile e priva di tenerezza, una bontà profonda costretta ad esprimersi con rimbrotti e divieti; ed anche un orgoglio di casta mortificato ma tenace, perché essa era nipote di un grande cappellaio di via Indipendenza e disprezzava le non omologhe origini del suo Girolamo che poi adorava come si adora un bimbo stupido ma caro.
Lo sguardo di lei scivolò indifferente sul cartone adorno. "Molto bene. Domani lo manderemo all'avvocato Risma, al quale siamo molto obbligati."

L'avvocato, due anni fa, aveva incaricato lui di un complicato lavoro contabile, e, oltre ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta. E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente, la sua Maria, il sua Andrea, il suo Saverio, la piccola Giuseppina, lui stesso, dovevano rinunziare all'unico filone di abbondanza scavato in tanti anni!
Corse in cucina, prese il coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che un'industre operaia milanese aveva bellamente annodato attorno all'involucro; ma una mano arrossata gli toccò stancamente la spalla: "Girolamo, non fare il bambino. Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma."
Parlava la Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati.
"Ma cara, questo è un premio, un attestato di merito, una prova di considerazione!"
"Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti delicati! Una elemosina, Girì, nient'altro che un'elemosina." Lo chiamava col vecchio nome di affetto, gli sorrideva con gli occhi nei quali lui solo poteva rintracciare gli antichi incanti.
"Domani comprerai un altro panettone piccolino, per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a tirabusciò che sono esposte alla Standa; così sarà festa grande."

Il giorno dopo, infatti, lui acquistò un panettoncino anonimo, non quattro ma due delle stupefacenti candele e, per mezzo di un'agenzia, mandò il mastodonte all'avvocato Risma, il che gli costò altre duecento lire.
Dopo Natale, del resto, fu costretto a comprare un terzo dolce che, mimetizzato in fette, dovette portare ai colleghi che lo avevano preso in giro perché non aveva dato loro neppure un briciolo della preda sontuosa.
Una cortina di nebbia calò poi sulla sorte del panettone primigenio.
Si recò all'agenzia "Fulmine" per reclamare. Gli venne mostrato con disprezzo il registrino delle ricevute sul quale il domestico dell'avvocato aveva firmato a rovescio. Dopo l'Epifania però arrivò un biglietto da visita "con vivissimi ringraziamenti ed auguri."
L'onore era stato salvato.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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Giuseppe Tomasi, Principe di Lampedusa, è autore conosciuto per “Il gattopardo”, suo primo ed unico romanzo, iniziato nel 1954 e portato a termine nel 1956, quando egli aveva già sessanta anni.
Nel ‘58, cioè un anno dopo la sua morte, mentre la Mondadori e l’Einaudi ne rifiutarono la pubblicazione (sic!), il libro venne pubblicato dalla Feltrinelli; nel ‘59 vinse il Premio Strega e nel ‘63, per la regia di Luchino Visconti, se ne trasse uno dei più bei film. Non infrequenti, in campo artistico, le inutili rivincite post mortem!
Tutto ciò è già ben noto agli amanti della letteratura e della cinematografia. Meno numerosi probabilmente sono invece coloro che hanno avuto occasione di leggere anche i suoi “Racconti”. Forse perché pochi! Ma, pur se pochi, quei Racconti (La gioia e la legge, La sirena* e I gattini ciechi) - pubblicati ancora dalla Feltrinelli insieme ad alcuni appunti autobiografici (Ricordi d’infanzia) - fatte le dovute proporzioni con il celebre romanzo, sono di una raffinatezza letteraria non facilmente riscontrabile. La gioia e la legge ne è una dimostrazione incontrovertibile.

Girolamo è un impiegatuccio, un Monsù Travet, impacciato e maldestro, che dedica tutta la sua vita con zelo e devozione a un modesto lavoro per un stipendio da sussistenza, con l’aspirazione di dare qualche soddisfazione alla sua famigliola.
Per attenuare lo scompenso fra quanto nel lavoro dà e quanto ne riceve in termini monetari e di considerazione sociale, egli vuole illudersi che l’assegnazione unanime di un modesto premio natalizio da parte dei colleghi sia il simbolo di un significativo riconoscimento (la gioia). Sarà compito della moglie-madre riportarlo, pur con una certa compassione, alla dura realtà, imponendogli la rinuncia al grande panettone ricevuto in regalo, per poterlo 'girare', come un assegno, a persona cui le sembrava opportuno dimostrare riconoscenza (la legge).

E’ una storia un po' triste, cucita però in modo tale che, già dall'incipit, non la si possa leggere senza accennare qualche lieve sorriso; anche a costo di sentirsi poi, per questo, un po’ in colpa col protagonista. Un delicato intreccio che spinge il lettore ad andare con curiosità al rigo e, poi, alla pagina successiva. Non era forse questo stesso tipo di intreccio che per decenni spinse intere generazioni a riempire le sale cinematografiche per assistere alle tragicomiche sequenze di Charlie Chaplin?

In questi giorni sto lavorando sul capitolo di un libro di economia in cui, esattamente due secoli fa, già si denunciavano i danni economici e ambientali prodotti delle mode effimere e dallo spreco. Ma è un lavoro lunghetto e… dall'esito incerto, e perciò, nel frattempo, mi sono voluto concedere il piacere di una pausa, per riproporre questo breve ma gustoso racconto a tre internaute amiche, che rincorro quotidianamente sui social network per via della loro intelligenza, della loro sensibilità e della loro coraggiosa franchezza. 

c.m.

lunedì 2 novembre 2015

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag. 1

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 “Andavano e sempre camminando cantavano eterna memoria, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto.
 I passanti facevano largo al corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano: "Chi è il morto?" La risposta era: "Živago." "Ah! allora si capisce."
 "Ma non lui. La moglie." "È lo stesso. Dio l'abbia in gloria. Gran bel funerale."
 Scoccarono gli ultimi minuti, scanditi, irrevocabili. "La terra del Signore e la sua creazione, l'universo e ogni cosa vivente…"
 Il prete nel gesto della benedizione gettò un pugno di terra su Màrija Nikolàevna. Fu intonato "Con gli spiriti giusti." Poi tutto prese un ritmo spaventoso. La bara fu chiusa, inchiodata, calata nella fossa. Tambureggiò la pioggia delle palate di terra, rovesciata in fretta, con quattro vanghe, sulla cassa, finché non si formò un piccolo tumulo. Sopra vi salì un ragazzo di dieci anni.
 Soltanto quello stato d'inebetito torpore, che di solito prende alla fine d'ogni imponente funerale, poté creare l'impressione che il bambino volesse tenere un discorso sulla tomba della madre.
 Lui sollevò la testa e dal tumulo abbracciò con sguardo assente i deserti spiazzi autunnali e le guglie del monastero. Il suo volto camuso si contrasse. Il collo si protese. Fosse stato un lupacchiotto a levare il capo in quell'atto, c'era da credere che avrebbe preso ad ululare. Il ragazzo si coprì la faccia con le mani e scoppiò in singhiozzi. Muovendo verso di lui, una nube cominciò a colpirlo sulle mani e sul viso con le umide sferze di un gelido scroscio. Alla tomba si avvicinò un uomo, in nero, con le maniche strette che tiravano ai gomiti. Era il fratello della morta e zio del fanciullo che piangeva, il sacerdote Nikolàj Nikolàevic Vedenjapin, ridotto allo stato laicale a propria richiesta. Si accostò al ragazzo e lo condusse via.”

Borìs Pasternàk

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Il 2 di novembre si va in cimitero: è festa. I fiori, l’abito più grigio possibile, sguardi discreti, sussurri. Si lustrano le cappelle, le croci, le statue, le foto. I nostri cari, ancora una volta, devono far bella figura.
Io che sono bastian contrario - forse ci sono nato! - non vado. Tanto, ogni giorno, sono loro – mamma, papà, nonni, cognato e amico – a venire da me. Si nascondono nel cassetto della mia scrivania sotto forma di foto. Una è di grandezza normale, sicché le altre, più piccoline, sembrano quasi accucciarsi vicino ad essa, sotto o di lato.
Vengono ogni giorno perché quello è il cassetto della scrivania su cui sta il computer, dove passo tanto tempo a leggere o scrivere. Ed è inevitabile aprirlo ogni giorno, per prendere una matita o qualcos’altro. E’ in quel momento che loro escono di soppiatto. Io li guardo uno per volta: mi sorridono, gli sorrido, mi dicono qualcosa, dico loro qualcosa, e richiudo.

Niente feste, niente fiori. Opere di bene, ehm, quando capita. Ho l’impressione che loro ne siano contenti. Io lo sono di sicuro, perché da quei brevi ‘contatti’ traggo nuove energie per andare incontro al giorno, se è mattino, o alla notte, quando è sera. 
Come ringraziarli? Oggi lo faccio con la prima pagina d’un vecchio libro. Niente sfoggio di letture, è un libro che, pur se impervio, conosciamo in molti. Impervio nelle lunga e complicata trama, ma non nella prima pagina, che in ogni bel romanzo deve essere la migliore, con le parole scelte ad una ad una. Dalla seconda in poi l’autore può anche permettersi il lusso di qualche divagazione, ma la prima dev’essere perfetta. E questa lo è.

Ci sono momenti in cui la vita prende una svolta definitiva: quando nasce un figlio; quando ci presentiamo a un altare o una bandiera per dire “sì”; quando gli occhi di una persona, che abbiamo guardato con amore per lungo tempo, li vediamo chiudersi per sempre. In tutti questi casi sappiamo che la nostra identità sta cambiando: non saremo più esattamente come finora siamo stati.
Sono momenti difficili, in cui la natura per fortuna ci protegge, stordendoci, rendendo la realtà quasi un sogno. E’ quello che accade al piccolo Jurij Živago di fronte al tumulo di terra che coprirà per sempre il volto della madre. E come lui tutti noi, in quei casi, ridiventiamo bambini.

Cataldo Marino
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venerdì 30 ottobre 2015

"La nuova scuola feudalizzata" - Interventi sul sito 'gildains.it' (2003)



Nel 2003 il Manifesto pubblicava un articolo a firma di Antonio Peduzzi dal titolo “La nuova scuola feudalizzata”. Qualche giorno più tardi l’associazione professionale “Gilda degli Insegnanti” lo riprendeva, aprendo un dibattito fra i frequentatori del proprio sito.

Riporto qui di seguito tutti gli interventi, eliminando solo due brevissime repliche che, a mio parere, nulla aggiungevano alla discussione. Lo faccio perché - pur essendo stati a lungo presenti sul sito nazionale della Gilda, alla pagina www.gildami.it/feudo/feudo.htm, e sui siti della Gilda di Milano e di Venezia – di quegli interventi oggi sul web non si trova più traccia.

Indice degli interventi:

1) La nuova scuola feudalizzata
Antonio Peduzzi ('Il Manifesto' 7/1/2003)
2) Nella Scuola dell'Autonomia la dimensione organizzativa e gestionale è nettamente prevalente sull'insegnamento e sulla didattica
Giuseppe Lorenzo (7/1/2003)
3) Feudatari governativi e valvassini lamentosi
Giorgio Ragazzini (22/1/2003)
4) Sempre più ridotta l'autonomia decisionale del collegio dei docenti
Alessio Alba
5) I veri problemi degli insegnanti
Gianni Mereghetti
6) Non dimentichiamo le responsabilità di tutti gli attori in gioco
Renza Bertuzzi (7/2/2003)
7) Riflessioni sulla democrazia (a scuola)
Grazia Perrone (11/2/2003)
8) Scuola feudalizzata: alla radice anche un conflitto di interessi
Cataldo Marino (14/2/2003)


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La nuova scuola feudalizzata
di Antonio Peduzzi, Il Manifesto, 7 gennaio 2003

La scuola è entrata nell'ancien régime. La riforma è stata realizzata con la trasformazione ope legis del preside in dirigente scolastico. Titolare di un incarico a tempo (tre anni), alla scadenza il dirigente può essere confermato, oppure no. E' infatti soggetto a valutazione da parte del direttore regionale (di nomina governativa). Dal momento che il direttore regionale è parte integrante dello spoil system, questo modo di funzionamento della scuola viene proiettato a cascata dalle direzioni regionali ai vertici di ogni scuola. Per essere confermato nell'incarico il direttore regionale deve essere omogeneo alla maggioranza di governo. A sua volta il dirigente scolastico deve mostrare alla valutazione risultati che contribuiscano alla carriera del direttore regionale. Conseguentemente il dirigente scolastico deve essere anch'egli governativo. E deve scegliere per sé collaboratori omogenei su questa linea.
Chi - anche in ambienti sindacali - ragiona nella vetusta ottica degli obiettivi di efficacia ed efficienza (scoperti dalla scuola italiana alcuni decenni dopo che essi erano stati teorizzati e sistematizzati dalla sociologia americana dell'organizzazione), dovrebbe rendersi conto di uno stato di cose di facile definizione: la scuola è stata feudalizzata.
Difatti alle spalle dei criteri di omogeneità tra livelli dirigenziali e tra essi e governo vige quello, assai più pratico, di fedeltà personale.
Gli aspetti, dunque, che le scienze dell'organizzazione dovrebbero porre sotto analisi sono due. Da una parte, l'introduzione di una sorta di führerprinzip. Il principio-guida non appare oggi per la prima volta negli apparati dell'istruzione. Significa che la scuola funziona grazie a un processo per cui tutto proviene dall'alto e tutto è organizzato in modo da risultare collaborativo verso l'alto.
Questo stato di cose spiega la ripugnanza sistemica della scuola nei riguardi di residui di procedura in cui sia prevista la modalità del voto. Già nei governi di centrosinistra è prevalsa la tronfia retorica della scuola come comunità. Ora la ripugnanza sistemica tra la scuola new age e le procedure democratiche è divenuta patologia. Alla procedura del voto la scuola tende a rinunziare, perché il voto divide, e in una comunità è male dividersi.
Questo spiega perché le procedure elettive sopravvissute (ma di prossima estinzione) siano state trasformate in atti di cooptazione. I collegi dei docenti non possono votare liberamente. E' invalso ormai il criterio dell'affidabilità degli eletti agli occhi del dirigente. Conseguentemente le procedure di voto si sono trasformate in atti di ratifica dei desideri del dirigente.
Altro aspetto della feudalizzazione compiuta è costituito dalla formazione degli staff scelti dal dirigente. Si tratta di collaboratori scelti dal dirigente scolastico sulla base di fedeltà personale, affidabilità, contiguità, doti la cui prestazione privatistica viene ricambiata con misure parastipendiali e la concessione di benefici.
La feudalizzazione della scuola italiana, chiesta dai dirigenti e dalla loro lobby e voluta dalle organizzazioni sindacali, ha liquidato gli ultimi residui di democrazia procedurale e edificato un insieme sistemico che per qualche aspetto richiama le corti orientali. Nelle corti orientali, eunuchi e favorite. Nella scuola italiana new age, yesmen e yeswomen.

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Nella Scuola dell'Autonomia la dimensione organizzativa e gestionale è nettamente prevalente sull'insegnamento e sulla didattica 
di Giuseppe Lorenzo

Un breve contributo in merito all' ormai dilagante fenomeno della rifeudalizzazione della scuola, ingenerata dal più incauto e sciagurato tassello della riforma (meglio sarebbe dire controriforma) dell'autonomia: la dirigenza ai presidi. Sarà perché il problema della democrazia e, con esso, la tutela della dignità personale e professionale mi sta particolarmente a cuore, ma io penso che il problema, sollevato da Peduzzi nelle pagine del Manifesto, sia una vera e propria emergenza che bisognerà affrontare con un'efficace strategia comune. Se è pur vero che questa svolta neoautoritaria nella scuola è la tragica conseguenza del qualunquismo, opportunismo e della mediocrità morale di chi ha lasciato languire i principi della democrazia partecipativa, che fu la grande conquista degli anni settanta del secolo passato, e cioè in primis gli insegnanti, oggi non possiamo cedere su questo fronte; non possiamo e non dobbiamo perché in questa assurda quanto insensata e immeritata attribuzione di poteri a questi cosiddetti dirigenti scolastici vi è il concreto rischio di una riduzione se non proprio una perdita della libertà d'insegnamento. Sono rimasto decisamente sconcertato dall'idea di scuola che è emersa dall'ultimo congresso dell'ANP che si è tenuto a Montecatini agli inizi dello scorso dicembre: sembrerebbe che siano le cosiddette "alte professionalità" e cioè quelli che Peduzzi definisce yesmen e yeswomen i veri pilastri della scuola dell'avvenire a cui si riserva accoglienza nell'associazione e un prospero e ricco futuro. Che cosa vuol dire tutto ciò? Ma che naturalmente la dimensione organizzativa e gestionale è nettamente prevalente sull'insegnamento e sulla didattica. Se una tale sciagurata idea di scuola dovesse affermarsi (e la scuola dell'autonomia solo questo è riuscita a fare finora) il definitivo funerale della scuola pubblica sarà quindi celebrato.
Che fare? Tutti noi della GILDA sappiamo che fare e già lo facciamo da sempre, come si capisce dai resoconti delle battaglie che si combattono quotidianamente nelle province. Occorre tuttavia una strategia comune, un buon coordinamento e tanta determinazione: ma tutto ciò non basterà se non avverrà il miracolo di un risveglio (o forse una rinascita?) a breve della categoria e, con esso, uno scatto di orgoglio professionale e morale e una forte presa di coscienza.

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Feudatari governativi e valvassini lamentosi
di Giorgio Ragazzini

Ancien regime e bel tempo che fu: in filigrana, è questa la filosofia dell'intervento di Antonio Peduzzi sul "Manifesto", che evidentemente rimpiange il buon vecchio preside inamovibile anche se inetto, con il corollario dell'elezione dei collaboratori, di cui nessuno, però, ricorda epiche battaglie in difesa del Collegio Docenti. Ma se lo spoil system frattiniano è senz'altro criticabile, i collegi non sembrano, nel complesso, esenti da pesanti responsabilità, quando accettano per quieto vivere (ma sono una minoranza secondo un'indagine condotta dal collega padovano Lino Giove) di essere espropriati delle loro prerogative, come quella di eleggere commissioni e coordinatori di area, nonché di bocciare inesorabilmente progetti e progettini che prevedono imponenti emorragie di denaro pubblico per paracadutare nelle scuole i mille esperti delle cento educazioni. E inoltre: quanti hanno proposto e deliberato un regolamento dei propri lavori che imbrigli l'eventuale tendenza a straripare del signore feudale? Quanti colleghi appoggiano - iscrivendosi, però, non a chiacchiere - la proposta della Gilda di affidare a un docente la presidenza del Collegio, secondo la logica della divisione dei poteri? E quanti hanno capito che l'autonomia ha un senso solo se intesa come dimensione organizzata della libertà di insegnamento? Organizzata, dico: e cioè incardinata sull'elezione di fiduciari del Collegio scelti per coordinare e promuovere la ricerca didattica e l'aggiornamento su base seminariale, nel presupposto che i docenti abbiano, guarda caso, un'esperienza da comunicare e discutere. E ancora: commissioni non aperte a tutti coloro che vogliono solo lucrare qualche gettone di presenza, ma votate a scrutinio segreto, e sulla base di una rigorosa analisi delle necessità didattiche effettive.
La democrazia non deve essere un paralizzante sistema di veti incrociati, ma chiara definizione e distinzione di poteri, assunzione di responsabilità, trasparenza, controlli efficaci. Difficilmente un collegio in cui figuri un certo numero di insegnanti forniti di adeguata coscienza e fierezza professionale si farà manipolare senza obbiezioni da un dirigente autoritario.
Smettiamola quindi di piangerci addosso, abbandonando (direbbe la Klein) l'infantile modalità schizoparanoide (quella che addita sempre e soltanto le responsabilità altrui) e cominciando a costruire, anche con comportamenti un po' più coraggiosi, l'alternativa al vassallaggio.

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Sempre più ridotta l'autonomia decisionale del collegio dei docenti
di Alessio Alba

Condivido le pessimistiche considerazioni di Peduzzi, quello che succede in contrattazione ci sta dando ragione.
Trovo molto centrata questa riflessione che probabilmente farà inorridire tanti convinti assertori della bontà del vecchio o del nuovo 'corso'.
Il fenomeno della regressione verso l'Alto Medio Evo […] è incominciato già negli anni '90 e sta continuando, facendo registrare una certa accelerazione negli ultimi tempi. Avevo già segnalato i sintomi di questo andazzo nel breve articolo (cfr. Professione Docente, settembre 2001) dedicato alla denuncia dei meccanismi cooptativi di funzionamento del sistema delle SSIS rimasto intatto nel passaggio dal vecchio al nuovo sistema governativo.
Di nuovo c'è solo un po' più di approssimazione e di rozzezza.
Certo, la questione ruota proprio intorno alla sempre più ridotta autonomia decisionale del collegio dei docenti, che è invece, per l'importanza delle ricadute sulla scuola, ben più rilevante dell'autonomia decisionale del D.S. a cui invece è stata consegnata una centralità politica determinante e soffocante per i "dipendenti".
Prima dal "centrosinistra" poi dal "centrodestra": non dimentichiamolo!
È vero che il collegio può individuare docenti con incarichi funzionali specifici, ma se costoro non sono graditi al capo hanno vita difficile.
Ogni giorno dobbiamo combattere contro decisioni di Dirigenti che ignorano, molto spesso deliberatamente, le norme contrattuali e il rispetto per il ruolo dei docenti, abbandonandosi a nefandezze di ogni tipo (si comincia di solito con l'estromissione da ogni attività, per poi procedere con una qualsiasi "contestazione degli addebiti", che fa tanto - vediamo intanto chi comanda qui! hai cinque giorni per giustificarti! - e così via).
Il D.S., comunque, può sempre avvalersi, e si avvale, del fatto che le sue decisioni sono definitive e il malcapitato di turno per difendersi non ha altra via che quella giurisdizionale, lunga, onerosa e incerta.
Capita anche, diciamolo pure, che i colleghi lascino detto malcapitato da solo perché temono ritorsioni. È una esagerazione? ... ne avrei di esempi concreti da raccontare!
Le RSU vengono messe nella condizione di non funzionare perché i dirigenti sanno di non aver alcun obbligo di firmare i contratti e quando pure li firmassero sanno che possono tranquillamente non rispettarli. Sarà poco onorevole, ma non succede nulla, non ci sono norme.
E il veterosindacato tradizionale in questi casi di solito non interviene perché vincolato dal ruolo contraddittorio di difendere gli interessi dell'Uno e degli altri.
Accade così che, tranne casi eccezionali, Confederali e Snals ignorino queste contrapposizioni ma, dovendo scegliere, optino per la tutela di coloro che hanno maggior peso politico.
E così i docenti sono condannati alla sottomissione.
Sarà chiaro per tutti? o, almeno, per molti?

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I veri problemi degli insegnanti
Gianni Mereghetti

L'interessante botta e risposta tra Giorgio Ragazzini e Antonio Peduzzi, riapre la questione seria della scuola, ma mi pare che non ci vada al cuore!
Per farlo occorre avere il coraggio di non fermarsi alle questioni strutturali e organizzative che condizionano, e pesantemente, la vita di noi insegnanti, per far emergere i problemi veri.
Tra questi ve ne sono due che mi dispiacerebbe rimanessero ancora una volta in ombra, per lasciare spazio a questioni di potere o di sindacalismo spiccio.
Il primo è la vera piaga dei collegi docenti e in genere di ogni organismo scolastico, ma purtroppo anche della normale vita quotidiana della scuola. Questa piaga è una vera e propria cospirazione a tacere di istruzione e di educazione! Di tutto si parla, ma raramente di ciò che c’entra con il far scuola, delle domande che un insegnante vive quotidianamente in classe, delle esigenze che emergono dall’affronto del suo lavoro, del cammino degli studenti che si hanno di fronte.
Finchè questo non diventerà l’oggetto privilegiato del dialogo tra gli insegnanti, non ci sarà nulla di nuovo dentro la scuola, se non apparentemente.
Il secondo problema riguarda il punto da cui si possa avviare un cambiamento reale. Non è il Collegio dei Docenti, né se sia meglio che a guidarlo sia il Preside o un insegnante, ma che esistano degli insegnanti che si assumano la responsabilità di educare e di istruire in condizioni di libertà.
Per questo se non si può prescrivere che un insegnante abbia i connotati specifici della professione, si possono però garantire le condizioni perché chi li ha possa insegnare e chi non li ha possa cambiare mestiere. Allora c’è un’unica cosa da fare, quella di realizzare l’autonomia scolastica e la parità! Infatti è solo in una condizione di reale libertà che un insegnante può far valere tutte le sue capacità, sia di tipo didattico sia di tipo educativo.
In conclusione non soffermiamoci su questioni secondarie, ma battiamoci perché nella scuola ci sia una reale libertà per i soggetti che la fanno quotidianamente. (28 gennaio 2003)

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Non dimentichiamo le responsabilità di tutti gli attori in gioco.
di Renza Bertuzzi

L’articolo di Antonio Peduzzi, prontamente pubblicato dal sito della Gilda Lombardia, ha proficuamente innescato un bel dibattito. Sarà perché ha agito da cartina di tornasole, attribuendo un nome ed una mappa al disagio quotidiano del nostro vivere a scuola.
Nell’ intervista che Peduzzi ha rilasciato ad Angelo Scebba per “Professione docente” on line (www.gildaprofessionedocente.it) il giornalista ribadisce i termini del suo teorema: la scuola sta ritornando al Medio Evo. Al principio della cooptazione, contro quello dell’elezione, all’idea di un vertice che decide, contro un gruppo, sempre più vasto, che deve eseguire.
Giustamente molti colleghi vedono in questo progetto un attacco alla libertà di insegnamento – cuore del sistema pubblico di istruzione, come sostiene Carlo Marzuoli, nell’ intervista rilasciata a Professione docente di Gennaio 2003. Ma, altrettanto giustamente, altri colleghi rilevano che questa situazione rischia di non essere nemmeno percepita in un contesto in cui la libertà di scelta, di fatto, non è mai esistita poiché i detentori di quella stessa libertà spesso hanno abdicato ad essa, in cambio di ben poche e modeste cose.
In sostanza, Peduzzi descriverebbe uno scenario già esistente, anche se non ancora di diritto. Su questo (apparente) contrasto vorrei soffermarmi.
Non vi è dubbio che l’analisi di Peduzzi è ineccepibile. L’eliminazione degli strumenti elettivi, l’assunzione a rango giuridico della cooptazione: questi sono tutti elementi che disegnano un sistema personalistico.
Così aveva anticipato Alessio Alba, in un intervento apparso su Professione docente, nel Settembre 2002 (“La scelta”). Negli stessi termini, Tommaso De Grandis, in un suo studio, presentato a Bari e a Foggia, nell’ ambito di due convegni della Gilda, aveva sottolineato come – nella vicenda delle RSU- “il ruolo elettivo, cardine del nostro sistema democratico- fosse stato sottomesso al prevalente ruolo del sindacato”. ( Cfr. C Biadene, Del Mostriciattolo chiamato RSU, in Professione docente, Gennaio 2003).
Come si vede, la tendenza è in atto. Che fare, dunque? Quale intervento politico potrebbe essere efficace?
Il principio di realtà ci comunica un dato di fatto: la democrazia nella scuola non ha avuto un buon successo. Gli strumenti elettivi, nella maggior parte dei casi, sono stati malamente inutilizzati.
Se il giornalista ci racconta come, nelle scuole, molti dirigenti riescono a manovrare i Collegi, non possiamo tacere di come essi abbiano buon gioco, di come non gli costi nemmeno troppa fatica.
Poiché essi non si servono né di mezzi coercitivi (a meno che per coercizione intendiamo i ricatti sulla distribuzione dell’orario di servizio ecc.) né dispongono di poteri sulla carriera o sulla vita, come mai riescono ad ottenere ciò che non si dovrebbe ottenere?
Io credo che un franco riconoscimento del clima di accondiscendenza alla tirannide e di noncuranza verso i sistemi democratici, presente in forma massiccia nelle nostre scuole, sarebbe salutare.
Penso, infatti, - consapevole di esprimere un giudizio morale e non politico - che siano più o meno sullo stesso piano sia i tiranni che chi permette al tiranno di essere tale.
Per questo trovo alcune difficoltà a condividere analisi che, descrivendo situazioni di illegittimità, trascurino di sottolineare le responsabilità di tutti gli attori in gioco.
Di chi attua sistematicamente le illegalità e di chi le subisce bellamente.
Rino Di Meglio, in un intervento al Convegno di Bari nell’ottobre di quest’ anno, ha affermato una bella verità: “Gli insegnanti dovrebbero essere più cittadini degli altri.” Se questo accade non troppo frequentemente, quale successo possono avere sistemi di controllo per difendere una cittadinanza che non è percepita come tale? E’ ragionevole pensare che la difesa dei propri diritti avvenga per imposizione?
E, ancora […] l’intervento di pochi “in nome di” molti ha speranza di modificare la situazione?
Per una risposta a questi quesiti, rimando all’articolo di Gaetano Bonaccorso, che apparirà sul numero di Febbraio di Professione docente, intitolato La spigolatrice di Sapri. E’ sufficiente qualche reminiscenza storica per capire quale sia la direzione del suo argomentare.
In conclusione, ritengo necessarie tutte le analisi che aiutino a comprendere la complessità che ci schiaccia (come cittadini e come docenti), purché si tratti proprio di tutte le analisi. Senza dimenticarne nessuna: non è tempo né di oblii, né di occultamenti. E’ tempo di occhi aperti.

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Riflessioni sulla democrazia (a scuola)
di Grazia Perrone

La bella intervista rilasciata a Professione Docente dal Prof. Antonio Peduzzi mi induce a formulare alcune considerazioni sullo “stato” della democrazia ovvero, sulle reali condizioni di agibilità democratica esistenti nelle scuole con l’avvento dell’autonomia gestionale e con il conferimento – de facto – di ampi poteri decisionali (e discrezionali) nelle mani di un singolo soggetto. Individuato – ope legis – nel dirigente scolastico.
Per esplicitare meglio il mio pensiero in merito credo sia necessario esplicitare in premessa il concetto sociologico di democrazia prevalente in dottrina.

La definizione di Karl Popper
Secondo il noto sociologico la democrazia è un sistema (…) “che rende possibile liberarsi di un governo senza spargimenti di sangue (…)” [1]. Questa espressione – indubbiamente laconica e restrittiva che poteva adattarsi nel contesto storico in cui fu formulata – mal si adatta ad una società complessa (o globale) come quella nella quale ci troviamo ad operare. Ragione per la quale a questa originaria definizione è possibile aggiungere altre tre definizioni che scaturiscono dalla risposta a tre quesiti:
· In che modo i voleri e le aspirazioni dei popoli (nel nostro caso del Collegio docenti) possono essere tradotti in azioni?
· Qual è il metodo corretto per consentire una efficace rappresentazione delle opinioni “in campo” consentendo – contestualmente – una corretta discussione ed una efficace diffusione di idee… ”controcorrente”?
· In che modo si garantisce in concreto – a tutti i soggetti interessati – il libero accesso all’informazione (ovvero, nel caso specifico della scuola, alla documentazione) necessaria alla acquisizione di una opinione propria?. [2]

La realtà scolastica
Dalla lettura dell’intervista citata in premessa e dalle conoscenze dirette che ciascuno ha della propria realtà scolastica si evince molto chiaramente che nessuna delle tre condizioni necessarie (secondo la definizione di Dahrendorf) ad una corretta esplicitazione delle prerogative democratiche viene applicata nella stragrande maggioranza delle scuole.
1. per quanto attiene il primo punto troppe testimonianze (e lo stesso Peduzzi) concordano nel riferire che le “aspirazioni del Collegio” nella stragrande maggioranza dei casi corrispondono a quelle del… manager;
2. nel secondo caso la libertà di espressione – principio costituzionale tutelato dalla legge – è un optional del quale si fa volentieri a meno e che non trova – quasi mai – riscontro nei verbali collegiali. In moltissimi casi la tutela di questo diritto e la reiterata richiesta di verbalizzazione integrale, puntuale e corretta costituisce motivo sufficiente per suscitare aggressioni verbali da parte degli stessi colleghi e vessazioni “padronali” assimilabili a tipologie mobbistiche;
3. stesso discorso per il terzo punto. Tutte le scuole “autonome” hanno adottato nei rispettivi regolamenti interni e nella Carta dei Servizi consegnata agli utenti le norme relative alla trasparenza e all’accesso degli atti amministrativi utili alla tutela di diritti soggettivi giuridicamente rilevanti. Sempre più spesso – però – questo diritto soggettivo bisogna reclamarlo nelle … sedi giudiziarie! Con tutte le conseguenze - in termini di peggioramento delle condizioni psicologiche in cui ci si trova ad operare e lavorare – che questa scelta implica.

Considerazioni finali
In che modo allora è possibile – in questo contesto degradato - preservare e affermare spazi di agibilità democratica nelle scuole? Qual è la maniera professionalmente ed eticamente corretta per opporsi al processo di “feudalizzazione” in atto nelle scuole e che si traduce nelle nuove parole d’ordine (fatte proprie anche dal centro-sinistra) di flessibilità, efficienza, produttività, competitività? Indubbiamente efficace potrebbe essere la sottrazione (nelle mani di un unico soggetto) dello strumento economico con il quale “il Principe” – utilizzando fondi pubblici – costruisce e consolida la corte di… “famigli” che – attraverso una fitta rete di connivenze e di controllo capillare del “territorio/scuola - avalla ogni sua decisione. Altrettanto valida l’ipotesi di nominare (eleggere!) un docente alla guida del Collegio al fine di farne un “contrappeso” di potere reale. Questa scelta non garantisce – automaticamente - la possibilità che questa carica possa essere “fagocitata” da una dirigenza particolarmente autoritaria ma è indubbio che il controllo (e la possibilità di revoca del mandato) esercitato dal Collegio avrebbe una propria esplicitazione reale.
Queste potrebbero essere delle proposte operative che – per concretarsi in azione politica – avrebbero bisogno di un soggetto sociale che se ne faccia promotore. Ma …esiste, oggi, un simile soggetto politico? Le proposte legislative fin qui formulate dal centro-sinistra non sono, forse, speculari a quelle del centro-destra? Dovremmo forse – per dirla con Righetti [3] – riconoscere mestamente che il moderno (…) equivalente del movimento socialista di fine Ottocento non esiste più (dal momento che) (…) si è spezzato il legame solidaristico tra le persone e i gruppi sociali?
Che ognuno naviga a vista in un mare di incertezze e l’orizzonte non è solo lontano ma, soprattutto, frantumato in un proliferare di individualismi, piccoli egoismi, frustrazioni che generano chiusura in un privato più o meno vivibile? (…)”.
In questo contesto la … scuola delle venti regioni autonome con potestà legislativa esclusiva insite nella modifica costituzionale del Titolo V ipotizzato dal polo di centro-destra assume una connotazione … “sinistra”!.
Note:
[1] cfr. K. Popper - La Società aperta - Armando Editore
[2] cfr. Ralf Dahrendorf - Dopo la democrazia - Laterza Editori
[3] cfr. M. Righetti - Educazione permanente e mercato globale – F. Angeli Editore

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Scuola feudalizzata: alla radice anche un conflitto di interessi
di Cataldo Marino

L’articolo del Prof. Peduzzi (Il Manifesto, 7 gennaio) ha innescato finalmente un dibattito sul problema cruciale delle riforme scolastiche di Berlinguer e della Moratti, sulla cui convergenza nutre dubbi, in mala fede, solo la cgil, artefice e sostenitrice del tentato concorsone, dell’istituzione delle funzioni-obiettivo e del passaggio della figura del preside, allora collega “primus inter pares”, a quello di Dirigente Scolastico con poteri simili a quelli di un feudatario, e non di un imprenditore come si vorrebbe far credere (l’imprenditore rischia il proprio denaro, il funzionario pubblico spesso sperpera il denaro dei cittadini).
Denunciai il tentativo di feudalizzazione della scuola nel dicembre del 2000 nel mio saggio dal titolo “Il disagio degli insegnanti. La crisi della scuola di fronte alle riforme”, pubblicato nel 2001, in cui già prevedevo come “i nuovi testi normativi (avrebbero potuto) segnare la triste transizione verso una scuola ritagliata sullo stampo di un modello organizzativo medioevale”.

Nel capitolo “Le riforme scolastiche e la sinistra” dicevo poi: “Oggi nella scuola è in atto da parte dei presidi una energica ed efficace azione di svuotamento dei poteri degli organi collegiali. La maggior parte di questi dirigenti diventa sempre più arrogante nella libera interpretazione delle poco trasparenti norme che giungono dal ministero. Spesso essi, facendo leva sulle loro nuove attribuzioni e su un diffuso timore riverenziale, riescono a far approvare dagli organi collegiali tutto ciò che ritengono opportuno. Tendono inoltre, per rinsaldare i rapporti con tutti coloro che collaborano nel processo di gerarchizzazione della scuola, a favorire… l’utilizzo delle consistenti risorse che troppo generosamente Ministero, Regioni, e persino gli ingenui e fiduciosi responsabili dell’U.E., dispensano per attività spesso inutili o inverosimili”.

E sulle funzioni-obiettivo: “In una struttura autoritaria, accanto ai capi ci devono sempre essere i capetti. Non fanno niente? Fanno cose sbagliate? Non importa. Basta che si instauri una gerarchia: presidi, collaboratori, responsabili delle funzioni-obiettivo, seimilionisti e infine un buon 75 % di marmaglia. L’organigramma, salvo forse certi diritti tipici dell’epoca, ricorda molto l’ordinamento feudale”.

Sul rapporto fiduciario fra D.S. e vicario affermavo: “Dal prossimo anno il collaboratore-vicario potrebbe non essere più scelto nella rosa di nomi indicata dal Collegio dei docenti. Finora, votando per un collega, i docenti spesso contrapponevano al capo una personalità forte, per bilanciarne le tendenze spesso prevaricatrici, per garantire una certa trasparenza nelle scelte, per difendere l’idea di una democrazia partecipativa nell’istituzione. Se davvero le nuove norme dovessero affidare unicamente ai poteri discrezionali del Preside la scelta del vicario, questo, se vorrà ancora conservare il suo incarico, dovrà per forza essere un suo alleato “fedele”, che è più e peggio di un amico leale e corretto”.

Il concorsone fu spazzato via dall’urto dell’onda breve ma impetuosa di un grande sciopero organizzato da Gilda, Cobas e Unicobas, ma l’impianto globale del progetto a mosaico di Berlinguer resistette…e sinceramente non vedo come rimproverare alla Moratti di non voler buttare giù qualcosa che è nel dna della destra, anche se a costruirlo è stato qualcuno con l’etichetta di sinistra.
Ciò che si prevedeva nel 2000, è diventato progressivamente realtà fra il 2000 e il 2003. Ci siamo. E’ la realtà denunciata da Peduzzi: una scuola fatta di rapporti di fedeltà personale da parte dei docenti (yesmen e yeswomen) verso il Dirigente Scolastico, e di questi a loro volta verso i Dirigenti Regionali, e di questi a loro volta verso il Ministro; la fedeltà personale viene ricambiata, come nei rapporti feudali, dalla concessione di benefici e dalla più ampia discrezionalità nell’applicazione delle norme nel proprio ambito.

Peduzzi, nell’intervista successivamente concessa a Professione Docente e ripresa da 'Educazione&Scuola', amplia ed approfondisce il discorso e tenta una analisi delle cause politiche che hanno trasformato gli insegnanti da uomini liberi e dignitosi in yesmen e yeswomen. Egli dice che si tratta di una “deriva…che discende dalla logica della cultura come prodotto aziendale – ormai accettata da chiunque – per cui non ci si può ribellare: è un processo, un destino più forte di chi gestisce i ministeri…E’ lo spirito del tempo”.
Mentre condivido appieno l’analisi di Peduzzi sullo stato della scuola, non ne condivido invece, almeno non completamente, l’identificazione delle cause. E’ vero che va prevalendo nella società una logica aziendalistica, ma è anche vero che nell’ambito delle aziende private le forze politiche di sinistra continuano a difendere i lavoratori. Nell’ambito della pubblica amministrazione, invece, queste stesse forze, rinnegando la propria matrice culturale, spingono verso l’aziendalismo ed in più parteggiano per i funzionari anziché per i lavoratori ad essi subordinati. E’ vero anche che, come contrappeso al potere dei manager della sanità e della scuola, hanno istituito le rsu, ma a queste hanno poi dato competenze solo simboliche: nelle scuole i Dirigenti spadroneggiano e dilapidano il denaro pubblico per avere ubbidienza più che consenso.

Perché la sinistra si è comportata in questo modo? Un primo motivo è politico: l’unico modo per scalzare Berlusconi è, secondo i “riformisti” di D’Alema (e, fino a un certo momento, anche di Cofferati), quello di seguirne le idee guida e rosicchiare consensi elettorali fra i moderati. Cinquant’anni fa questo avrebbe comportato delle “scomuniche”, oggi invece per contro viene sostenuto, con arrogante ambiguità, come saggezza, che per gli attuali riformisti italiani coincide con la “realpolitik”.
Il secondo motivo è ancora meno nobile del primo. Chi sono quelli che ieri hanno sostenuto apertamente il mostriciattolo berlingueriano ed oggi, solo a causa del cambio della guardia al Governo, fingono, e come fingono, di opporsi al mostriciattolo morattiano, fratello sputato di quello di Berlinguer? Chi ha firmato e firma contratti che danno agli insegnanti pochi spiccioli non pensionabili, mentre per i Dirigenti apre una trattativa separata, gli concede aumenti di milioni sullo stipendio e ricche prebende su progetti e progettini e gli dà completa libertà negli orari di lavoro?
Chi ha spaccato il corpo docente con i contratti integrativi di istituto? Chi ha creato le figure di sistema nella scuola, i caporaletti che fanno codazzo ai dirigenti e ne diventano amici, confidenti, organizzatori del potere o manovalanza?
La risposta è semplice: i sindacati confederali e lo Snals. Ma chi sono i Segretari Generali di questi sindacati? Eccoli: Enrico Panini, cgil, Dirigente scolastico della Scuola Media di Correggio; Fedele Ricciato, snals, Dirigente scolastico dell’IPSSAR di Potenza; Sandro D’Ambrosio, Segretario Nazionale Aggiunto della cisl, anch’egli Dirigente scolastico.

Questi signori presidi si sono auto-nominati Dirigenti con l’aiuto di Luigi Berlinguer, allora Magnifico (!) Rettore dell’Università di Siena. Cosa poteva venirne fuori, se non ciò che ne è venuto?
Se questo è lo ‘spirito dei tempi’, caro Peduzzi, hai ragione tu. Ma questo non è solo lo spirito dei tempi, questo è anche conflitto di interessi, perché Dirigenti e dipendenti sono categorie antagoniste anche nel pubblico impiego (a livello di Istituzioni scolastiche sono “controparti”) ed i primi non dovrebbero poter fare contratti in nome dei secondi.
Nell’agosto del 2001, quando ho fatto notare queste cose nel forum del sito cgil-scuola, mi si è obiettato che il loro segretario, anche se preside, era stato eletto da insegnanti e quindi li rappresentava legittimamente.
Certo, anche Berlusconi, imprenditore di grandi aziende nazionali e proprietario di tre reti televisive, è stato eletto dagli operai e governa legittimamente; però il suo conflitto di interessi, anche se lui continua a negare, è palese a livello nazionale e internazionale. Invece, nel caso dei tre Segretari Nazionali prima citati – che nel ruolo di Dirigenti Scolastici sono portati, per mentalità se non per egoismo, a firmare contratti a loro favore e contro gli insegnanti - il conflitto di interessi viene sapientemente occultato prima che contestato.
Quanti insegnanti iscritti a cgil, cisl e a snals sanno che a difenderli (!) è un preside? Diciamoglielo, e forse rimetteremo a posto una categoria che ha perso il senso del tempo e della misura. Vecchi baroni travestiti da moderni manager!

mercoledì 28 ottobre 2015

Riforme scolastiche: l'innovazione distruttiva (2000-2015)




Ripubblico qui di seguito alcuni miei articoli sulla scuola, già apparsi nel 2001 e nel 2002 su altri siti. Lo faccio 1) perché col tempo non vadano dispersi; 2) per raggrupparli, avendo essi uno stesso filo conduttore; 3) perché resi attualissimi dalla riforma scolastica del Governo Renzi, impropriamente detta ‘la buona scuola’.
Essendo passati quasi quindici anni, li faccio precedere da alcuni cenni su fatti e personaggi di cui forse col tempo si è persa la traccia.

La nuova struttura organizzativa della scuola - che Massimo Bontempelli nel 2000 definì l’innovazione distruttiva - non è da addebitare a Renzi, lui ne è solo il continuatore e il perfezionatore.
Fra il 1996 e il 2000, a capo del Ministero della Pubblica Istruzione c’era Luigi Berlinguer, rettore dell’Università di Siena, mentre a capo della Cgil Scuola (ora Flc) c’era il Preside Enrico Panini. (Forse è bene ricordare qui che l’acronimo Cgil sta per ‘Confederazione Generale Italiana del Lavoro’ e chiedersi se chi comanda sia da considerare o meno un lavoratore alla stregua di chi il lavoro lo esegue. Ma per ora lasciamo il dilemma in sospeso.)
Nel 1999, con Regolamento dell’8 marzo, Luigi Berlinguer, complice Panini, concede autonomia didattica ed organizzativa ad ogni istituzione scolastica. La parola ‘autonomia’ è bella, molto bella, e, come nel caso della cosiddetta ‘buona scuola’, crea le aspettative di un pacco dono: si scioglie il nastro, si toglie l’etichetta, si scarta e si apre con ansia per vedere cosa c’è dentro. E cosa ci trovammo dentro, noi insegnanti, nel 1999?

Il capo di ogni scuola della Repubblica italiana non si chiamava più Preside (colui che presiede un organo collegiale), ma Dirigente e, con questo nuovo ruolo, assumeva quasi gli stessi connotati del dirigente d’azienda: sceglie fra i suoi ‘dipendenti’ i più fedeli, li mette alla guida di un settore, chiude un occhio (o due) sulle loro assenze e qualità didattiche e li premia con qualche milioncino o qualche centinaia di migliaia di lire (non c’era ancora l’euro), a seconda dei meriti, cioè della frequenza e della qualità delle leccate del suo fondoschiena. Quelli che, invece, la lingua la usano anche per dissentire, in castigo! Niente compensi aggiuntivi, assegnazioni punitive di classi e orari e… controllo occhiuto sul loro operato; nei casi estremi si ricorre anche al mobbing.
Su tutte queste cose in quegli anni si sono scritti numerosi volumi e documenti e pubblicata sul web una notevole quantità di interventi. Ma a nulla essi sono valsi per arginare il torrente in piena di quella strana autonomia. Perché? E qui veniamo ad Enrico Panini.

Enrico Panini, classe 1954, consegue il diploma di ‘maestro’ nel 1972 e, in virtù di ciò, viene assunto dal ‘Convitto Rinaldo Corso’ di Correggio (1) . Nel 1979 consegue la Laurea in Pedagogia e passa all’insegnamento di Materie letterarie nella Scuola Media di Campagnola Emilia. Nel 1982 viene eletto Segretario Provinciale della CGIL Scuola di Reggio Emilia; nel 1989 ne è Segretario Regionale; nel 1992 entra nella Segreteria Nazionale della Cgil Scuola e nel 1996 ne diventa il Segretario Nazionale. Nel corso di questi anni, come numerosi dirigenti sindacali, vince il concorso di Preside; destinazione Scuola Media di Ariccia (Roma).

In questo breve profilo professionale ci sono due punti poco chiari.
1) Mentre nel curriculum del Miur (2) si afferma che egli ottiene il ‘distacco’ dall’insegnamento a partire dall’anno 1992, nel profilo pubblicato da ‘aracneeditrice.it’ (3), è scritto che “dal 1979 si dedica a tempo pieno all’attività sindacale”. Sapere esattamente la verità non è di secondaria importanza, perché ci fa capire in quale misura egli abbia svolto effettivamente il lavoro di insegnante.
2) A partire dal 1979 è, contemporaneamente, dipendente dello Stato e, a livelli via via superiori, in una sorta di escalation al potere, dirigente sindacale. Non so se, per questa seconda carica, percepisse una ulteriore retribuzione cumulabile con la prima. Anche questo non è di secondaria importanza, perché ci segnala il suo status economico e la sua propensione a monetizzare, in forma giuridicamente lecita ma forse moralmente discutibile, la sua passione per la difesa dei lavoratori, cioè degli insegnanti che stanno in classe e non di chi siede sul velluto!


Quando il Ministro Luigi Berlinguer si accinge a decretare l’autonomia scolastica, a rappresentare gli insegnanti della Cgil c’è proprio il Preside Panini. E presidi sono, in quel momento, anche i segretari generali della Cisl e della Uil.
Quale motivazione abbia spinto Berlinguer ad affidare gli istituti scolastici italiani a piccoli feudatari, è cosa che non so spiegarmi bene, se non con l’insulsaggine che in lui ho trovato ogni volta che l’ho sentito parlare in televisione. Quale motivo abbia spinto invece il Preside Panini a consegnare mani e piedi gli insegnanti al piccolo feudatario di ogni scuola, è cosa facilmente intuibile.
Esaminiamo, ad esempio, l’evoluzione della retribuzione dei Presidi dopo la riforma. Dal Cud 2011 gentilmente fornitomi da un insegnante che in quell’anno aveva 29 anni di servizio, risulta un reddito annuo lordo di € 28.000 (netti 22.000, divisi in 13 mensilità da circa 1.700 euro), mentre da uno studio pubblicato dal DISAL (4) (Dirigenti Scuole Autonome e Libere), associazione non sospettabile di parzialità contro i Dirigenti, risulta che la retribuzione annua lorda di un Dirigente scolastico di prima fascia giungeva, sempre nel 2011, a € 65.000 (più del doppio). Si dirà che queste sono sempre state le proporzioni, ma non è così: mio padre diventò Direttore Didattico nel 1972, e ricordo bene che l’incremento stipendiale determinato dal passaggio di qualifica non fu superiore al 20%.

Oggi giornali, tv e siti internet hanno messo in sordina la Riforma di Renzi, mostruosa in quanto concede ai capi di istituto persino di assumere parte del personale insegnante e quindi, per il noto familismo amorale italiano (P. Ginsborg “L’Italia del tempo presente”), di assumere, col sistema dei favori incrociati, figli, nipoti e rampolli degli amici.
Fra il 2000 e il 2003, invece, come già detto in precedenza, si versarono fiumi di inchiostro e di file word, che davano una precisa radiografia di ciò che avveniva in quegli anni nella scuola italiana. Per una bibliografia essenziale segnalo:
1) “L’agonia della scuola italiana”, saggio di Massimo Bontempelli, CRT Editore, 2000;
2) Le numerose e approfondite analisi del Prof. Roberto Renzetti pubblicate sul suo sito, a cui si aggiunge il suo più recente saggio “Educazione, Istruzione e Scuola”, Tempesta Editore, 2015. (5)
3) Anche se trattasi di più modesto contributo, aggiungo la mia indagine “Il disagio degli insegnanti (La crisi della scuola di fronte alle riforme)”, pubblicata in proprio nel 2000 e disponibile sul web in pdf (6).

Accanto a questi lavori, di diversa natura e portata, sono da segnalare i tanti interventi pubblicati su vari siti e forum scolastici. Fra questi alcuni miei articoli, che il lettore troverà qui di seguito.
Mi riservo inoltre, non appena possibile, di riproporre i contributi di alcuni insegnanti, pubblicati sul sito della Associazione professionale ‘Gilda degli insegnanti’, a commento di un articolo di Antonio Peduzzi (7), dal significativo titolo “La nuova scuola feudalizzata”.
Valuterò più in avanti se, e con quali modalità, mettere infine a disposizione anche i vari interventi del 2001 sul Forum della Cgil Scuola, dal quale emerge la difesa a oltranza dell’autonomia scolastica da parte di questo sindacato. Dopo due mesi di accesa discussione fra insegnanti e sindacalisti, quel forum venne chiuso e pertanto quegli interventi non sono più reperibili sul web; ma, fiutando tale pericolo, ne ho conservato una copia cartacea, che con un po’ di buona volontà può essere… rispolverata.
Sarebbe interessante sapere cosa pensa di tutto ciò l’attuale ‘team’ della Cgil. Pare che alla signora Camusso la riforma di Renzi non vada proprio giù. Ma, allora, resta da spiegare perché la riforma di Berlinguer, con la quale quest’ultima è perfettamente in linea, andasse così tanto a genio a Guglielmo Epifani (allora Segretario Generale della Cgil) e ad Enrico Panini (allora Segretario Nazionale della Cgil Scuola).

* Una doverosa precisazione. Il tratteggio del nuovo ‘ruolo’ di dirigente scolastico, fatto in questo e negli articoli che seguono, non si riferisce ai tanti presidi conosciuti fino al ’99, tutte persone con le quali ho avuto un rapporto di stima reciproca e delle quali ricordo ancora con piacere i nomi; come pure non si riferisce ad alcuni presidi di altre scuole (penso in questo caso a persone ben precise), che, anche dopo il ’99 e nonostante le riforme, sono sicuro abbiano saputo interpretare quel nuovo ruolo con la sensibilità e la delicatezza che caratterizza la loro personalità.

(1) Dal sito di tale convitto risulta che la retta per la frequenza nell’anno scol. 2013/2014 ammontava a € 3.240; dalla qual cosa si deduce che si trattava di una scuola con gestione… autonoma.
(2) http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/491e862b-85dc-4546-bd43-917ee7b5a368/PANINI%20Enrico%20CV.pdf
(3) http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/autori.html?auth-id=377571
(4) http://disal.it/Objects/Pagina.asp?ID=19106&Titolo=Pubblico%20impiego:%20lo%20stipendio%20dei%20dirigenti%20scolastici
(5) http://www.fisicamente.net/portale/modules/news2/article.php?storyid=2706
(6) http://www.scribd.com/doc/105408342/Il-Disagio-Degli-Insegnanti
(7) Il Manifesto, 7 gennaio 2003



ELENCO DEGLI ARTICOLI

1) Continuità, altro che controriforma. Lettera aperta ad Enrico Panini (2001)
2) Letizia e il Professore (Prof. Giuseppe Bertagna vs Prof. Benedetto Vertecchi ) (2001)
3) L’impegno di lavoro dei dirigenti scolastici (2001)
4) Ai Presidi aumenti mensili netti di due milioni (2001)
5) Il momento della verità. Appunti sul Congresso della Cgil Scuola (2002)
6) Per chi vota l’insegnante? Elezioni RSU 2002

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CONTINUITA’, ALTRO CHE CONTRORIFORMA.
LETTERA APERTA AD ENRICO PANINI
di Cataldo Marino (2001)
(In risposta ad un articolo, in cui Panini qualificava come ‘controriforma’ le nuove linee guida del Ministro Gelmini. In corsivo i passi dell’articolo di Panini, da me commentati)

Non nascondo un certo disappunto nella lettura dell’articolo apparso sul quotidiano ItaliaOggi del 10 luglio, a firma del segretario nazionale della cgil scuola Enrico Panini. Ci vuole infatti una grinta speciale e una buona dose di ipocrisia per riuscire con disinvoltura ad accusare altri di cose che lo stesso accusatore ha fatto per primo. Ma procediamo con ordine nel commentare le considerazioni contenute nell’articolo suddetto.

1) "Dai primi atti del governo (Berlusconi) sulla scuola emerge un evidente accanimento controriformatore".
Non mi pare che ciò corrisponda alla realtà, perché le linee guida del nuovo governo non vanno affatto contro la scuola disegnata, e in parte realizzata, dal duo Berlinguer-Panini. Il centrodestra di sicuro non vuole smantellare i piccoli feudi, con a capo i presidi-manager, inventati dal centrosinistra col pieno appoggio della cgil; semmai vuole rafforzarli. Fra i propositi della destra e della sinistra c’è continuità, altro che controriforma!

2) "L’autonomia scolastica (per il centrodestra) è affidamento di incombenze burocratiche e non riconoscimento di maggiori e più forti responsabilità sulla didattica".
Insegno dal 1970 e in trentuno anni non ho mai visto una politica scolastica così burocratica come quella praticata da lei e dal Ministro Berlinguer. Siete arrivati a regolamentare, con leggi, decreti e contratti, anche la didattica!

3) "La sistematica demolizione dei processi in atto (da parte del centrodestra) avviene di nascosto, senza che si renda nota un’ipotesi, senza informarne né il parlamento, né i sindacati, né l’opinione pubblica".
Ma, signor Preside, le riforme che vanno dal 1997 al 2001 voi le avete sottoposte al vaglio dell’opinione pubblica? Ed avete chiesto il parere degli insegnanti? Ricordo un suo articolo sull’Unità del 29/3/2000 in cui, di fronte alla massiccia protesta contro il concorsone, lei s’impegnava ad effettuare "una consultazione formale di tutti gli insegnanti". Può gentilmente dire in quale data è stata fatta questa consultazione? Non dica che non ce n’è stato il tempo. Per molti anni lei è stato a capo della scuola italiana, perché a capo dell’unico sindacato con cui il governo di centrosinistra ha interloquito; Uil e Cisl, le sono venute a rimorchio; lo Snals fino a febbraio 2000 è stato anch’esso sulle posizioni dei confederali. Gilda, Cobas ed Unicobas sono state ghettizzate, anche se avevano portato in piazza una categoria che è difficile anche far solo scioperare.
Adesso che c’è il governo di centrodestra lei invita all’unità dei lavoratori, ma, quando la Cgil era l’unico sindacato che decideva sulla sorte della scuola, lei la categoria degli insegnanti l’ha spaccata, frantumata, come nessun altro era mai riuscito a fare.

4) "Il progetto che avanza veramente è la privatizzazione, la riduzione dell’istruzione a una merce".
Sbalorditivo. L’accusa di mercificazione dell’istruzione le è stata rimproverata per cinque anni dagli intellettuali di sinistra ed ora lei ha il coraggio di accusare della stessa cosa il centrodestra. Ma lei leggeva, all’epoca della diarchia Berlinguer-Panini (mi riferisco ovviamente al settore scolastico), ciò che si andava dicendo sui giornali e sui siti internet? Chi ha parlato per primo di "offerta formativa" e traslato abbondantemente il linguaggio dell’economia aziendale nel campo dell’istruzione?

5) "I docenti…ora potrebbero essere le vittime di un attacco senza precedenti".
Docenti vittime! Lei di ciò dovrebbe sapere qualcosa. Chi ha tolto ai docenti il diritto di eleggere i collaboratori del Preside? Chi ha aumentato il loro carico di lavoro con compiti diversi da quelli didattici? Chi ha 'inventato' la figura del preside manager che decide o al massimo "contratta" modi di lavoro e compensi accessori? Chi ha quasi azzerato gli organi collegiali istituiti nel ’74? Chi ha introdotto il caporalato delle funzioni-obiettivo?
Visto che ha siglato il contratto che prevede queste figure, mi sa dire se possono esistere funzioni senza obiettivi o obiettivi raggiungibili senza funzioni? Quando si conia un neologismo, bisogna ragionarci almeno un poco.

6) "In discussione c’è la libertà di insegnamento dei docenti come patrimonio democratico del nostro sistema".
Esiste ancora il pudore? Sembra di no, se proprio l’artefice della "collegializzazione" delle scelte culturali e metodologiche nella scuola si mette a difendere la libertà di insegnamento dei docenti. Per me la libertà di insegnamento prevista dalla Costituzione è una libertà individuale e non collegiale.

7) In quanto al problema dei cicli scolastici, messo al centro dell’azione sindacale dalla Cgil per far dimenticare quello dell’autonomia e sul quale lei vorrebbe ricompattare sindacati e associazioni professionali, certo si tratta di una battaglia già persa, perché la Cgil ormai da molti mesi si trova in stato di totale isolamento, fatta eccezione per l’Associazione Nazionale Presidi, con la quale il Preside Panini ha avuto una ambigua ma continua ed appassionata convergenza di vedute.

8) Il Preside Panini parla di "furore iconoclasta" della destra.
Signor Preside, questa le è proprio sfuggita. Chi raffigurerebbe l’icona che la destra vuole rompere? Per caso si tratta di lei? Se è così, confesso di continuare a preferire, alla sua icona, quella di San Francesco d’Assisi.

Se le idee del Preside Panini, qui velocemente e superficialmente chiosate, fossero state espresse qualche mese prima delle elezioni, il cambiamento di rotta poteva godere di un minimo di credibilità. Adesso è tardi. Negli ultimi cinque anni la Cgil ha devastato l’ordinamento scolastico e, attraverso una falsa meritocrazia, ha incentivato lo spirito mercenario di alcuni insegnanti e frustrato lo spirito di abnegazione di altri. Così facendo, essa ha spianato la strada a quella signora Moratti contro la quale finge invece di battersi.
Per la Cgil questo è il momento di tacere e di riflettere sui propri errori.

Sito Unicobas, Archivio 2001

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LETIZIA E IL PROFESSORE
di Cataldo Marino (2001)

(Nell’articolo si evidenzia lo strano incrocio fra Berlinguer e Gelmini e gli studiosi, da essi rispettivamente prescelti, per dare una base teorica alle loro scelte politiche. Strano perché il Prof. Vertecchi, consulente di Berlinguer, sostiene l’aziendalizzazione della scuola, mentre il Prof. Bertagna, consulente della Gelmini, ne parla come di qualcosa di odioso. Tutto faceva supporre il contrario ma, con la caduta delle ideologie e di ogni riferimento culturale, il principio di non contraddizione diventa… un optional!)

Quando un ministro della (pubblica) Istruzione appena insediatosi nomina un gruppo di lavoro per elaborare una proposta organica sull’intero sistema educativo e ne affida la presidenza ad un eminente studioso, si presuppone che con quest’ultimo condivida una visione di fondo dei problemi.
Per conoscere le reali intenzioni della signora Letizia Moratti, sono andato perciò ad indagare quale fosse il pensiero del prof. Giuseppe Bertagna.
Non nascondo che, pur partendo io da una visione laica della scuola e della società, sono rimasto favorevolmente sorpreso da "alcune" idee espresse dallo studioso, in ciò aiutato dalla delusione provata per la precedente azione del consigliere del Ministro Berlinguer, prof. Vertecchi.
Analizzando quel poco di materiale che mi è stato possibile reperire su Internet, si ritrova, è vero, un Bertagna propugnatore della scuola privata in perfetta concorrenza con la scuola pubblica, ma si scopre anche un Bertagna che su molti punti sembra aver poco a che fare con la mentalità quantificatrice propria della Moratti come, del resto, purtroppo anche dell’ex Ministro Berliguer.
Riporto qui di seguito gli stralci di un suo scritto e di due interviste, sperando che il professore, per coerenza, trovi la volontà e la forza di dissociarsi dai provvedimenti del ministro quando in essi sia chiaramente ravvisabile una impostazione diametralmente opposta alla sua.
1) Nel saggio "Scuola e organizzazione" (www.sced.it/pdgen/genpag0.htm) è possibile leggere qualcosa che dovrebbe mettere in subitanea crisi tanto l’insipiente Berlinguer quanto la manager Letizia:
"Un’attività come quella dell’insegnamento che ha sempre mal sopportato la quantificazione del lavoro, proprio perché intellettuale e qualitativa, è (oggi) sottoposta ad un’operazione di scomposizione dei carichi di lavoro e di misurazione oraria delle mansioni che produce addirittura incentivi economici (il cottimo contro cui hanno lottato almeno quattro generazioni di operai). Da parte di qualcuno, si è giunti perfino alla vertigine di proporre differenziazioni salariali collegate al grado di apprendimento degli alunni, stabilito attraverso test e prove oggettive, come se il rapporto apprendimento-insegnamento fosse paragonabile a quello esistente tra processo e prodotto meccanico.
Inoltre, sul piano delle prestazioni professionali, una realtà nella quale, per tradizione, i ruoli sono sempre stati intercambiabili e reciprocamente integrati, si sta, invece, a poco a poco irrigidendo. Non solo si tende alla separazione quasi impermeabile tra le carriere dirigenti, amministrative e docenti, ma all’interno della stessa carriera di docente si desidera introdurre differenziazioni tra ruoli di gestione e di educazione/istruzione che, alla fine, si riveleranno irreversibili. Accanto al docente che insegna, abbiamo così visto la nascita di quello che orienta, che gestisce il Pof, che realizza i progetti formativi d’intesa con enti e istituzioni esterne, che è delegato ai servizi per gli studenti, che è incaricato di sostenere il lavoro dei colleghi, che organizza i servizi di documentazione o la biblioteca ecc.: ma è possibile «insegnare» senza essere in grado, almeno in parte, di impiegare, quando e per quanto servono, in maniera integrata, queste diverse competenze al servizio di tutti i colleghi e, soprattutto, al servizio di un apprendimento significativo da parte degli allievi?
In realtà, queste proposte sono anacronistiche. Giungono quando ormai sono in via di superamento nello stesso modello organizzativo aziendale che le ha viste nascere. Se non creano ordine e armonia nelle aziende postfordiste, tanto meno si può presumere che riescano a farlo in una scuola… I problemi non seguono la logica dei ministeri: divisibili per direzioni generali e dipartimenti. Sono sempre trasversali. Li vince, perciò la flessibilità, non la rigidità delle funzioni; la capacità di affrontare l’imprevisto anche con strumenti tecnici originali, inventati all’impronta, non l’abilità di applicare regole e repertori prestabiliti; la disponibilità libera e reale di confrontarsi con gli altri, non l’obbligo formale di collaborazioni di gruppo; il desiderio di variazione, non di uniformità e di omologazione; l’assunzione di responsabilità, non il loro scarico o la loro comoda delega a ‘persone competenti’; la maturazione umana complessiva, non l’esasperazione di una sua componente particolare. Responsabilità, libertà, senso estetico, ricchezza relazionale, equilibrio emotivo, creatività, consapevolezza dei propri limiti, ma insieme coraggio, prudenza, saggezza: sono tutti elementi decisivi per la scuola, elementi che, però, si sottraggono tutti alla rigidità dei mansionari e della divisione delle competenze".

2) In una intervista alla Gilda degli Insegnanti (www.gildains/cs/CICLI/20001120Bertagna.htm) il prof. Bertagna ribadisce questi concetti in modo ancora più netto e categorico:
"Non si è bravi docenti perché si sta a scuola 30 o 36 ore, firmando il cartellino o quante altre carte si voglia: lo si è, se si è scelti dagli allievi e se si è capaci di instaurare con loro i rapporti educativi necessari per il tempo necessario. Altro che mansionari e funzioni-obiettivo! Dobbiamo mirare ad una scuola nella quale torni ad essere importante non progettare l’educazione sulla carta, ma praticarla, facendo provare la gioia dell’apprendimento agli allievi; non incontrare tecnici di qualche moda didattica più o meno lunare, ma veri ‘maestri’ e mentori della crescita. È ovvio che persone del genere vadano pagate e premiate, non lasciate a stipendi di sopravvivenza. E che vadano formate e riqualificate come si deve".

3) Il 21 aprile 1998 Giuseppe Bertagna afferma in una trasmissione della RAI (www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=223) qualcosa della quale non potrà non discutere con la Signora Moratti in relazione all’articolo 13 della legge finanziaria per il 2002:
"Sul fatto che l'orario di servizio dei docenti sia considerato un partime, io mi sono sempre stupito e meravigliato, perché non è partime per legge, è partime di fatto. Perché Giovanni Gentile, quando disse, nel 1923, che bisognava avere diciotto ore di insegnamento, non pensava che l'insegnante dovesse lavorare diciotto ore, pensava che le altre diciotto ore le dedicasse alla scuola, allo studio e all'aggiornamento. Ed è per questo che ai professori universitari dava l'incarico di insegnare tre ore, perché le altre trentatré ore, per giungere alle trentasei dell'orario di servizio degli impiegati dello Stato, le dedicassero allo studio".

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L'IMPEGNO DI LAVORO DEI DIRIGENTI SCOLASTICI
di Cataldo Marino (2001)

Nelle News del sito cgilscuola (con data 18/10) è riportato il testo del pre-accordo per il contratto dei dirigenti scolastici. L’art. 16 recita come segue: "In relazione alla complessiva responsabilità per i risultati, il dirigente scolastico organizza autonomamente i tempi ed i modi della propria attività, correlandola in modo flessibile alle esigenze della istituzione cui è preposto e all'espletamento dell'incarico affidatogli".
Come intendere queste parole ce lo dice la stessa cgilscuola (stesso sito, stessa data) nel commento alla Parte normativa del nuovo contratto dei Dirigenti: "Non c’è alcun riferimento ad un orario definito, potendo, il dirigente scolastico, organizzare autonomamente i tempi e i modi della propria attività".
Ma cosa diceva il CCNL 1998-2001 all’art. 19, comma 3? "Il capo d’istituto assicura comunque una presenza ordinaria di 36 ore settimanali, anche su base plurisettimanale".

I Dirigenti scolastici, dunque, dopo essersi 'aggiustati' lo stipendio con aumenti considerevoli, si sono 'aggiustati' anche l’orario di lavoro, potenzialmente azzerandolo. D’ora in avanti, infatti, venire a scuola per essi sarà un optional: verranno quando vogliono e per il tempo che 'riterranno' necessario… tanto, a far tutto per conto loro ci sono i vicari, ad essi completamente assoggettati perché destituibili nell’anno successivo. E’ così, o no?

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AI PRESIDI AUMENTI MENSILI NETTI DI 2 MILIONI
di Cataldo Marino (2001)

Su IlSole24Ore del 25 luglio, articolo a firma di Marco Ludovico, si legge: "400 miliardi per il 2001 destinati ai 10.000 presidi e direttori didattici, vale a dire un aumento annuo lordo di circa 40 milioni a testa... Aumenti così consistenti per i neo dirigenti scolastici rischiano di creare una situazione imbarazzante per le sigle confederali. E la soluzione più facile all'imbarazzo potrebbe essere rivendicare incrementi altrettanto cospicui per gli insegnanti."
Fra le news del sito cgil dello stesso giorno, la cgil invece non dimostra alcun imbarazzo affermando quanto segue. "Apprendiamo da organi di stampa che verranno stanziate ulteriori risorse per il contratto dei Dirigenti Scolastici. E' una buona notizia. Da sempre la CGIL scuola ha fatto richiesta di risorse necessarie per l'equiparazione economica alle altre dirigenze pubbliche; richiesta ribadita recentemente dal Segretario Generale della nostra organizzazione, Enrico Panini."

Il forum della cgil "La nuova scuola di Moratti" è ‘protetto’ (lo dicono loro stessi con spiegazioni assurde). Bisogna fare richiesta di iscrizione fornendo cognome, nome, recapito ed indirizzo e-mail. Ho avanzato regolare richiesta a questi burocrati sabato alle ore 12 e oggi domenica alle ore 11.30 non ho ancora avuto alcuna risposta. Sull'argomento degli aumenti ai presidi in due giorni sono arrivate quasi venti e-mail, ma quella da me preparata non può essere ancora accolta dal forum. La mando ai colleghi dell'Unicobas e a quelli del Partito per la scuola:
"Vedo che nel forum cgil il tema degli aumenti ai presidi va forte e che le voci critiche prevalgono nettamente. Provo a dire la mia, nella speranza di non essere censurato.
Perché negli ultimi cinque anni nelle scuole i presidi sono diventati dei padreterni e gli insegnanti vengono umiliati sistematicamente?
Perché ai presidi si prospetta un aumento di duemilioni mensili (cgil d’accordo: vedi news del 25 luglio sul sito) mentre agli insegnanti sono bastate duecentomila lire mensili (un decimo dell’aumento dei presidi)? Risposta: a capo della cgil scuola per cinque anni c’è stato un segretario nazionale, Enrico Panini, che è un ’preside’ ed ha fatto i suoi interessi, aiutato in ciò dal fatto di essere l’interlocutore privilegiato del governo di centrosinistra.
Egli si è costituito controparte degli insegnanti e nello stesso tempo ha continuato ad esserne il rappresentante.
Il conflitto di interessi non vale solo per Berlusconi. Panini deve andare via ed essere sostituito da un insegnante. Possibilmente da uno che non insegni nella sua scuola."


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IL MOMENTO DELLA VERITA’. APPUNTI SUL CONGRESSO DELLA CGIL SCUOLA
di Cataldo Marino (2002)

Oggi, 22 gennaio 2002, sul sito del Partito per la Scuola, al quale ho l’onore di partecipare di tanto in tanto con qualche mio contributo, ho letto i risultati di un sondaggio ancora in corso. Alla precisa domanda: "Tra Berlinguer e Moratti, chi è il peggiore secondo te?", le 153 risposte finora pervenute risultano essere le seguenti: Berlinguer 102 (66,7%), Moratti 45 (28,4%), Non so 6 (3,9%).
E’ un dato su cui i delegati, che si accingono fra il 23 e il 25 gennaio a scegliere il gruppo dirigente della cgil-scuola per i prossimi anni, dovrebbero riflettere. Per conto mio, ed a titolo strettamente personale, vorrei, con alcune considerazioni, dare un piccolo aiuto in questa riflessione.

1) Il sito del PplS, a giudicare dai contenuti, è frequentato da insegnanti con riferimenti culturali di sinistra: la bocciatura chiara di Berlinguer proviene dunque non dagli 'avversari' ma dal suo stesso campo politico.

2) Cosa c’entra la bocciatura di Berlinguer con la cgil-scuola? C’entra, e come! Fra il ’98 e il 2001, la politica scolastica del Ministro e del sindacato in questione è stata concertata fra di loro: non so bene se sia stato il ministro ad ideare le stolte riforme ed il sindacato ad andare a rimorchio o viceversa, ma di sicuro entrambi hanno difeso a spada tratta e, diciamolo con franchezza, anche con una certa arroganza, quelle riforme.

3) Ogni istituto scolastico è una organizzazione di persone e pertanto vi si devono stabilire, per ogni soggetto, le attribuzioni ed i compensi. Orbene, negli ultimi quattro anni sia le prime che i secondi si sono dilatati a dismisura a favore dei dirigenti ed a sfavore del personale insegnante. A tal proposito ho altre volte segnalato come su queste scelte potesse esserci stata l’influenza del fatto che a capo di alcuni sindacati si trovassero dei dirigenti scolastici e che per essi si poneva un problema di "conflitto di interessi". Molte volte in questi ultimi anni mi sono chiesto: ma è proprio per migliorare la scuola che si è ampliata la sfera dei poteri di discrezionalità dei presidi e sono stati concessi loro aumenti impensabili? O non si tratta piuttosto di un orientamento determinato, non dico da precisi interessi personali, ma da un 'modo di pensare da presidi' che ha portato all’approvazione della norma sulla dirigenza nel ’97 e ad un contratto capestro per gli insegnanti nel ’99? E poi, istituire un’area di contrattazione separata per la dirigenza, è o non è stata una scelta fatta anche dai sindacati confederali? Ed è vero o no che, con questa "separatezza" contrattuale, i dirigenti, agli aumenti stipendiali e di poteri hanno aggiunto il vantaggio di non aver più un preciso orario di lavoro? Adesso si scelgono un collaboratore vicario e possono impartire le direttive da casa loro, mentre prima dovevano garantire la presenza a scuola per 36 ore settimanali. Queste non sono "quisquilie"!

4) Con il contratto del ’99 si voleva introdurre nella scuola il principio della meritocrazia. A difenderla sono stati D’Alema e Cofferati, mentre Bertagna, il consigliere della Moratti, nel saggio "Scuola e organizzazione" scriveva: "Da parte di qualcuno, si è giunti perfino alla vertigine di proporre differenziazioni salariali collegate al grado di apprendimento degli alunni, stabilito attraverso test e prove oggettive, come se il rapporto apprendimento-insegnamento fosse paragonabile a quello esistente tra processo e prodotto meccanico".
Vengono le traveggole: la sinistra ruba un principio alla destra (premiare i "migliori"), mentre il prof Bertagna (!) si dichiara contrario alle "differenziazioni salariali" fra gli insegnanti, in quanto il frutto del loro lavoro non è misurabile!

5) Esaminiamo ora il modo in cui era stato concepito il "concorsone".
L’art. 29 del ccnl, comma 2 lettera a, diceva che "la procedura (concorsuale) si articola nella valutazione del curricolo professionale e culturale…e in prove riguardanti la metodologia pedagogico-didattica e le conoscenze disciplinari".
Come si sarebbe dovuta verificare la conoscenza della metodologia pedagogico-didattica? Dopo alcuni mesi dalla firma del contratto, la rivista Scuola e Didattica propone un "Esempio di prova strutturata". Si trattava di circa 20 domande a risposta chiusa; ne riporto una, che, a mio parere, per linguaggio ed impostazione, non si discosta molto dalle altre:
Intendiamo per percorso tematico:
a) un segmento del programma fornito di senso e organizzato in modo sequenziale e funzionale al raggiungimento di obiettivi generali e specifici predeterminati;
b) un settore importante di una disciplina, approfondito in sede epistemologica e organizzato secondo metodi innovativi e apprendimenti essenziali;
c) un’organizzazione dei materiali finalizzata alla progettualità, all’apprendimento autonomo dello studente e al rinforzo della motivazione;
d) il microcosmo tematizzato della disciplina che consente l’apprendimento del metodo di studio;
e) una raccolta tematizzata di materiali.
Di fronte a domande del genere si pongono alcuni problemi: 1) E’ possibile che tutte le risposte siano in qualche modo giuste?; 2) Se solo una è la risposta giusta, ciò dipende da un fatto oggettivamente verificabile o da una impostazione didattico-pedagogica soggettiva e quindi discutibile? Se ciò dipende da una particolare impostazione, come avrebbe potuto il valutatore stabilire che una impostazione 'diversa' dalla sua era da considerare errata?
Insomma, il periodo Berlinguer è stato caratterizzato, fra l’altro, dal tentativo di imporre agli insegnanti "una certa pedagogia". E se, a livello sindacale, è stata la disparità di trattamento fra dirigenti e lavoratori a creare indignazione, a livello politico e morale è stato questo tentativo di modellare l’insegnamento secondo un ben preciso progetto pedagogico a provocare la ribellione dei professionisti dell’educazione.
Anche su questo Bertagna si è rivelato un poco più serio e competente di Berlinguer. In una intervista rintracciabile su internet (www.gildains/cs/CICLI/20001120Bertagna.htm) egli infatti sostiene: "Dobbiamo mirare ad una scuola nella quale torni ad essere importante non progettare l’educazione sulla carta, ma praticarla, facendo provare la gioia dell’apprendimento agli allievi; non incontrare tecnici di qualche moda didattica più o meno lunare, ma veri ‘maestri’ e mentori della crescita.". Nuovamente vediamo, purtroppo (o per fortuna?), un professore di destra parlare un linguaggio più comprensibile e realistico rispetto ai vari esperti targati sinistra. E la cosa mette in crisi!

6) Nello scontro elettorale del 2001 la sinistra perde. Del corpo elettorale fanno parte oltre 700.000 insegnanti, i quali, secondo il sondaggista Mannheimer, hanno riconfermato la loro preferenza per il centrosinistra. I DS non hanno più le 'sezioni' per tastare il polso dell’opinione pubblica e, 'modernizzandosi' dietro Berlusconi, si fidano dei sondaggi del professore.
Io credo che la realtà sia ben diversa. Ho l’impressione che la politica scolastica punitiva, adottata nei loro confronti da Berlinguer, abbia ulteriormente spostato gli insegnanti verso posizioni politiche di centrodestra.

7) Alle elezioni per le RSU nella scuole, la cgil ottiene quasi il 30%. Non sappiamo però in quale misura a quella percentuale abbia contribuito il voto degli insegnanti. Racconto una mia esperienza personale, che potrebbe aiutare a capire cosa c’è sotto quel 30%. Nella città in cui vivo la cgil ha organizzato in modo accurato le attività pre-elettorali. Sia nella scuola in cui insegno io che in quella in cui insegna mia moglie, però, essa ha avuto difficoltà a trovare insegnanti da candidare: su circa 130 insegnanti uno soltanto, dopo lunghe insistenze (lo so perché mi è stato detto personalmente), ha accettato. E’ riuscita invece a candidare con una certa facilità, in entrambe le scuole, un dipendente Ata, categoria, a dire il vero, forse ingiustamente, snobbata dagli altri sindacati. Da molte affermazioni, colte fra il personale Ata, si è poi venuto a sapere che personale amministrativo e collaboratori scolastici hanno votato in massa per quello che essi percepivano come il 'loro' rappresentante. Se ciò fosse vero, su 130 votanti, circa 35 Ata e una manciata di insegnanti avrebbero votato per la cgil, facendole raggiungere quel 30% circa di cui si parlava.
Mi chiedo: questa esperienza particolare è generalizzabile? Io stesso credo di no: ci sono zone del centro e del nord dove gli insegnanti, pur molto critici nei confronti della politica scolastica degli ultimi anni, sono rimasti vicini alla cgil per una maggiore politicizzazione delle elezioni RSU. Ma, se nelle altre scuole italiane non è successo proprio esattamente quello che è successo nelle due scuole di cui ho avuto esperienza diretta, si può escludere che ci sia stata almeno una netta tendenza in quel senso?
Certo che c'è un modo per escluderlo. Ciò può farlo la stessa cgil, dicendoci quanti degli eletti nelle sue liste sono insegnanti e quanti provengono dal personale Ata.
Stiamo attenti, chi scrive ha una formazione di sinistra e non chiede questa scomposizione dei risultati elettorali per porre su piani diversi gli insegnanti e gli Ata, ma solo per smentire che la politica della cgil nei confronti degli insegnanti sia risultata ben accetta a questi ultimi.
Al Congresso che sta per iniziare si parlerà anche di queste cose? Cose serie, cose precise, non fiumi di parole contorte in cui annegare le verità. Saprà (e vorrà?) la cgil-scuola esprimere in questo Congresso una linea politica ed una dirigenza sindacale capaci di dare una risposta adeguata ai problemi morali e materiali degli insegnanti ?
Per via dei tanti applausi tributati a Berlinguer in una delle ultime manifestazioni dei DS, non ci spero molto. Ma glielo auguro!


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PER CHI VOTA L’INSEGNANTE?
di Cataldo Marino (2002)

Il 5 febbraio 2002 i sindacati confederali cgil, cisl e uil hanno firmato un’intesa con l’Aran, che per gli insegnanti prevede aumenti mensili di 109 euro lordi, di cui buona parte andrà assegnata secondo i meriti. Ci diranno poi con calma come verranno stabiliti questi meriti. Ci diranno anche, forse, un giorno, perché mai la cgil in questi ultimi anni abbia fatto proprio il principio liberista della meritocrazia. Oggi vorremmo una risposta più semplice sulla legittimità 'sindacale' dell’accordo firmato per conto dei docenti.
Per dare una mano nella ricerca di tale risposta, ho fatto una piccola indagine sui risultati elettorali delle rsu nelle scuole della cittadina in cui risiedo: ho telefonato nelle 14 scuole presenti sul territorio e chiesto i nominativi degli eletti e la lista elettorale in cui questi si erano candidati.
Presento prima alcune tabelle con i dati assoluti fornitimi dalle segreterie delle scuole e i dati percentuali da me ricavati dall’analisi dei dati assoluti. Seguirà un breve commento.



Dalla tabella n. 1 si ricava un dato abbastanza prevedibile ma non per questo irrilevante. Circa tre quarti dei membri rsu provengono dal corpo docente e un quarto proviene dal personale ata. E’ la stessa proporzione che si riscontra nel corpo elettorale e ciò lascia supporre che, nel complesso e con delle compensazioni fra una scuola e l’altra, ogni elettore abbia dato la propria preferenza, nell’ambito di ogni lista, al candidato appartenente alla propria categoria.

Dalla tabella n. 2 emerge che la cgil conquista quasi il 31% dei rappresentanti sindacali. Il dato locale è in linea con quello nazionale, la cui lettura ha autorizzato qual sindacato a sbandierare il proprio successo elettorale ed ha forse consentito in certa misura al suo segretario nazionale di uscire dal congresso di gennaio con una maggioranza che per un pelo non si è trasformata in unanimità (novantuno voti a favore ed uno contrario).
Scomponendo però il dato complessivo della cgil, si vede che su 13 eletti solo 8 fanno parte del corpo docente, una rappresentanza quasi uguale a quella dello snals (7 docenti) e della gilda (7 docenti).
Anche analizzando i dati degli altri due sindacati confederali, cisl e uil, si può osservare qualcosa di simile. La cisl ottiene nel complesso 9 rappresentanti, ma di essi solo 6 provengono dal corpo docente, un numero inferiore a quello ottenuto da snals e gilda e appena il doppio dell’unicobas. La uil ottiene solo 2 rappresentanti, di cui uno fra i docenti ed uno fra gli ata.
I rapporti di forza fra i tre sindacati confederali ed i tre sindacati autonomi tendono dunque a capovolgersi, quando si passa dal risultato complessivo ai risultati relativi ai soli insegnanti.

Ciò è meglio dimostrato dalla tabella n. 3, dalla quale emerge che, mentre sul totale dei rappresentanti sindacali i confederali ottengono ben 6 rappresentanti in più rispetto ai sindacati autonomi (24 contro 18), fra gli insegnanti ne ottengono 2 in meno (15 contro 17).
Se, ed io ho l’impressione che sia proprio così, anche a livello nazionale come nella zona in verità molto circoscritta in cui ho indagato, si dovesse riscontrare lo stesso fenomeno, allora sindacati confederali e governo dovrebbero trarre delle conclusioni piuttosto significative.
Se, anche a livello nazionale, cgil, cisl e uil avessero una rappresentanza degli insegnanti inferiore al 50 % (nella mia indagine esse si fermano al 46,87 %), allora, del contratto siglato il 5 febbraio, la parte riguardante i docenti non avrebbe alcun valore. E, forse, l’attuale maggioranza della cgil-scuola farebbe bene a dimettersi.
Farebbe bene anche perché sul suo segretario nazionale continua a "pesare come un macigno" (è l’espressione usata da un iscritto della cgil in un forum) il conflitto di interessi fra la sua posizione professionale di dirigente scolastico e la sua posizione sindacale di rappresentante dalla controparte.
Rappresentare la controparte! Ma, come si fa? Come se Berlusconi, oltre ad essere Presidente del Consiglio e proprietario di Mediaset, diventasse anche segretario nazionale del sindacato dei lavoratori della televisione!

22 febbraio 2002