domenica 29 agosto 2010

Film da rivedere: Rocco e i suoi fratelli, 1960

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Negli anni Sessanta, in treno, ne ho viste tante di famiglie simili alla famiglia Parondi, protagonista del film di Visconti. Donne forti e di costumi castigati e giovanotti spaesati ma con gli occhi sognanti, lanciati verso un nord, italiano o europeo, alla ricerca di un lavoro più dignitoso e desiderosi di rapporti sociali meno rigidi. Le ho viste, queste famiglie, scendere dal treno e salire in autobus, chiedendo al bigliettaio come fare per giungere a un certo indirizzo, e meravigliarsi delle mille luci delle vetrine. Speranze e meraviglia spesso destinate a disfarsi nel giro di pochi anni, per chiedersi poi se quel viaggio era stato di salvezza o di insospettata condanna a cose peggiori di quelle lasciate alle spalle.

Il percorso della famiglia Parondi a Milano non sarà lineare: cinque fratelli e una madre, tutti uniti dal sangue e da una comune matrice culturale, ma ognuno col proprio carattere e ognuno, a un certo punto, per il suo sentiero. Vincenzo vuole una vita tranquilla, senza lode né infamia; Simone si scopre ambizioso e sregolato; Rocco è, come un Cristo, pronto ad ogni generosità e privo di qualunque risentimento; Ciro coglie nell’esperienza cittadina la superiorità delle norme civili rispetto a quelle dettate dalle tradizioni; Luca, ancora adolescente, nel dipanarsi delle storie dei fratelli più grandi rimarrà solo spettatore e testimone.

Quando quattro dei fratelli, guidati dalla coraggiosa (o incosciente?) madre, giungono a Milano, si verifica il primo scontro culturale. Vincenzo, il primogenito, che già da alcuni anni vive in città, festeggia il suo fidanzamento a casa della ragazza insieme a tutti i parenti di lei. Vuole farsi una propria famiglia, sganciata da quella d’origine, mentre sua madre trova doveroso, e lo impone, che lui prima aiuti i suoi fratelli. Ne nascono una lite furibonda fra le suocere e la rottura del fidanzamento.

Il secondo motivo di scontro si ha con la conoscenza di Nadia, introdotta nella modesta abitazione dei Parondi perché inseguita da qualcuno. I figli si limitano ad ammirare la sua fascinosa bellezza e i suoi atteggiamenti spregiudicati, mentre la madre ha subito intuito che si tratta di una prostituta. Nadia è scappata in sottoveste, ma parla e si muove con strana disinvoltura, scruta i giovanotti con curiosità, annusa ed è annusata, va a curiosare fra le foto attaccate al muro e, quando vede Vincenzo coi guantoni, dice di conoscere una persona importante nell’ambiente del pugilato.
A salire sul ring però non sarà più Vincenzo ma Simone, che in palestra viene subito notato e promosso da un impresario gay, per la sua bravura e per il suo aspetto fisico. Alla fine del primo incontro vinto per knockout, ad aspettarlo fuori dal palazzetto ritrova Nadia, della quale si innamorerà pazzamente. Ma lui non saprà gestire il rapporto: per vincolare più saldamente a sé l’affascinante prostituta, spende molto di più di quanto guadagna, salta gli allenamenti, fuma e beve, tutte cose che gli faranno perdere la fiducia dell’allenatore e pregiudicheranno la sua carriera sportiva.

E veniamo al terzo motivo di scontro culturale. Nadia per un po’ ha approfittato della prodigalità di Simone e goduto della sua galanteria, ma, quando si accorge che per mantenere un certo livello di vita lui ricorre anche agli imbrogli e al furto, finisce per disprezzarlo. Le diverse e contrapposte visioni della vita presto indurranno Nadia a rompere il rapporto; una rottura che Simone, passionale ed eccessivo in ogni cosa, non tollererà e che lo porterà a una incontrollata gelosia, al fallimento professionale, all’abuso di alcol e quindi all’abbrutimento nell’aspetto e nei costumi. La sua storia avrà termine, come vedremo, nel modo più drammatico: con l’uccisione di Nadia e con il carcere.

Mentre gli altri fratelli, pur rappresentando nel film delle figure emblematiche, restano in ombra, parallelamente alla storia di Simone si svolge quella di Rocco. Prima in amore e poi sul ring.
Ignaro dei sentimenti che nel fratello ancora persistono a due anni dalla fine della relazione, anche lui si innamora di Nadia, ma è attirato dalla sua segreta fragilità più che dalla sua conturbante bellezza. Mai un amore è stato raccontato dal cinema con tanta tenerezza: i volti, prestati ai personaggi da Alain Delon e Annie Girardot, e lo struggente tema musicale che sottolinea puntualmente i loro incontri segreti, smuovono i sentimenti dello spettatore più incallito.
Fra i due c’è una intesa perfetta, ma anche per loro viene il momento dello scontro culturale. Quando Simone, informato da un amico impietoso, scopre la relazione del fratello con Nadia e la violenta sotto i suoi occhi con l’aiuto di un branco di amici, Rocco fa stoltamente prevalere il familismo sull’amore e, lasciandola, sacrifica se stesso e la ragazza per la salvezza del fratello. Questa scelta dolorosa rientra nei suoi schemi, ma sfugge completamente alla mentalità della ragazza, che, persa ormai l’unica residua speranza di cambiare vita, si vendicherà punendo Simone. Lo rifiuterà e lo metterà alla berlina di fronte a tutti gli amici, ferendone sistematicamente la passione e l’orgoglio.

Storie parallele fra i due fratelli anche nel lavoro. Anche Rocco finisce sul ring, e con grande successo, ma accetta la boxe solo come soluzione per i problemi economici del fratello, che sempre più va verso il degrado: per denaro infatti egli è disposto persino a concedersi all’impresario gay ma, sbeffeggiato da questo, reagisce violentemente e per ritorsione viene denunciato di furto. Il denaro di Rocco servirà anche per far ritirare la denuncia.
Tutti i sacrifici di Rocco non basteranno però a salvare Simone. Lo stesso amico diabolico che anni prima lo aveva spinto a usare violenza sessuale su Nadia e a massacrare di botte il fratello, gli indica adesso il posto dove Nadia, ritornata alla prostituzione, incontra i clienti. Sarà lì che Simone la colpirà ripetutamente e selvaggiamente, mentre lei ancora una volta gli si rifiuta, e muore aprendo le braccia, come in croce.
Le due diverse scene dello stupro e dell’accoltellamento di Nadia sono state causa di censura per la crudezza con cui sono riprese e per l’indugiare in esse: se ne vedono infatti i particolari con un realismo sconosciuto in quel periodo in Italia, e forse nel mondo. E’ sempre inaccettabile ogni tentativo di censura, e in particolare in un’opera d’arte, ma forse, in quelle scene, il regista avrebbe potuto usare una mano più lieve.

Rocco e i suoi fratelli è un film drammatico e ciò risulta chiaramente dalla breve narrazione che precede e dalla classificazione che ne fanno i critici accreditati. Esso è però, in senso lato, da considerare anche un film storico, perché la Milano degli anni Sessanta, ed i meridionali che lì affluivano lungo le rotaie come interminabili file di formiche, non restano sullo sfondo, ma sono anch’essi protagonisti importanti. E’ una Milano che offre tante opportunità, ma di cui bisogna capire i meccanismi e nella quale occorre sapersi adattare. Una Milano abbagliante di grandi promesse, che lentamente cede però il passo alle ombre di desolanti periferie e di squallidi tipi umani: Nadia, che non trova uno spiraglio spirituale se non quello offertole dal più generoso dei fratelli lucani; l’impresario gay, che promuove sul campo solo i giovani prestanti e disponibili e che approfitta di un piccolo furto per chiedere un risarcimento spropositato; il falso amico di Simone, che contribuisce a seminare odio e violenza e cinicamente poi ne gode.
E i meridionali immigrati? Anche per loro non c’è un destino comune: c’è chi, come Ciro e Vincenzo, accetta la nuova cultura e si integra perfettamente; chi, come Rocco, pur rispettoso della società che l’accoglie, pensa sempre con nostalgia alla lontana terra d’origine; chi, come Simone e la vecchia madre, vorrebbe trarre dal nuovo ambiente tutti i vantaggi offerti e rifiutare gli obblighi che ne conseguono. Saranno questi ultimi i più disperati, vittime di un fenomeno collettivo, l’emigrazione, oltre che delle loro personali ambizioni.

Questa era l’Italia del 1960, cioè di cinquant’anni fa, così come l’ho conosciuta e così come emerge dal film. Da allora molte cose sono cambiate. Come col suo linguaggio scarno Ciro preconizzava nel film - e più elegantemente Pasolini constatava sulla stampa quindici anni dopo - il processo di “omologazione antropologica” è andato sempre più avanti. Nonostante il persistere di economie diverse.
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In foto: Simone (Renato Salvatori) e Rocco (Alain Delon) all'arrivo in città
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sabato 7 agosto 2010

Università (3): correlazione fra reddito e istruzione


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Ieri, riguardando la tabella sui flussi fra le varie regioni, mi è venuta la curiosità di raffrontare il numero di studenti universitari residenti in ogni regione (col. 3) col numero di abitanti (col. 2). Ne è emerso un dato, che avevo ipotizzato varie volte, ma di cui non ero finora certo: al sud si studia più che al nord.
Ho pensato allora di vedere più precisamente quale fosse la correlazione fra reddito (col. 1) e percentuale degli studenti iscritti all’università (col. 4), e ne è venuta fuori la tabella posta qui in alto, dalla quale mi sembra che emergano dei dati interessanti.

Nelle regioni in cui il reddito pro-capite è superiore a quello medio nazionale (in rosso nella prima colonna), i giovani iscritti all’università sono percentualmente inferiori alla media nazionale del 2,75%; nelle regioni con reddito pro-capite inferiore a quello medio nazionale, gli studenti universitari sono invece più numerosi (in rosso nella quarta colonna).

Succede a volte che la verità venga a galla per caso. Pur senza l’intenzione di indagare in questa direzione, è balzata agli occhi una precisa correlazione sociologica fra reddito e propensione agli studi accademici, che ribalta lo stereotipo secondo il quale la ricchezza favorisce la cultura.

In Lombardia, dove c’è un reddito pro-capite di 31.618 euro, solo due abitanti su cento frequentano l’università, mentre in Calabria, dove il reddito pro-capite è meno della metà (euro 15.641), ogni cento abitanti ci sono quasi quattro studenti universitari, circa il doppio di quelli lombardi. E questo è solo l’esempio più vistoso: dalla tabella si può facilmente constatare come la percentuale degli studenti cresca, progressivamente e con regolarità, al decrescere del reddito. A questo andamento lineare fa eccezione solo il Lazio.

Note:
I dati relativi al reddito pro-capite sono dell’Istat e si riferiscono all’anno 2005 (fonte Wikipedia).
Per la Regione Trentino A. Adige disponiamo separatamente del reddito delle due province, mentre per quanto riguarda il rapporto percentuale fra studenti universitari e abitanti (fonte Miur) disponiamo di un unico valore sintetico.
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giovedì 5 agosto 2010

Università(2): flussi migratori fra le regioni



Nel precedente articolo sull’università ho cercato di mettere in evidenza gli svantaggi economici (e, qui ora aggiungo, anche organizzativi e psicologici) degli studenti che, per frequentare le lezioni, si iscrivono all’università in una regione diversa da quella in cui essi risiedono con la propria famiglia.
Quanti sono? Difficile stabilirlo con esattezza (dovremmo sapere dalle singole università il luogo di provenienza degli studenti iscritti), però con l’aiuto di alcuni dati ufficiali possiamo almeno desumere quali sono i flussi fra le varie regioni italiane e fare delle interessanti considerazioni.

Per fare ciò ho riunito in un’unica tabella i dati forniti separatamente dal sito del miur. In essa la prima colonna indica il numero di studenti universitari “residenti” in una certa regione (a prescindere dal fatto che essi studino nella stessa regione o in un’altra), mentre la seconda indica gli studenti “iscritti” negli atenei di una certa regione (a prescindere dalla loro provenienza geografica). Lo scarto fra studenti residenti e iscritti è indicativo di come vanno le cose in ogni regione.
Ad esempio, cosa significa che gli "iscritti" negli atenei lombardi sono più numerosi dei “residenti”? Significa che il flusso in entrata è maggiore di quello in uscita: abbiamo una prevalenza di “immigrati” rispetto agli “emigrati”. Esattamente il contrario di quello che avviene per la regione Puglia, dove il probabile afflusso dalla Basilicata e dalla Calabria è inferiore al deflusso verso il Lazio e altre regioni del centro e del nord.

Studiare questi flussi nei dettagli è difficile quasi come studiare quelli fra i vari partiti politici dopo ogni tornata elettorale. Tuttavia, da un breve sguardo alla tabella, alcuni dati sui movimenti complessivi saltano agli occhi con sufficiente chiarezza e immediatezza:

1) Fra le regioni del nord, eccezion fatta per la Lombardia, i movimenti sono molto modesti, sull’ordine di centinaia o poche migliaia di studenti. In queste regioni evidentemente la presenza di numerosi atenei con una certa tradizione e i facili collegamenti stradali e ferroviari fanno sì che gli spostamenti siano tendenzialmente limitati all’ambito regionale. Le lunghe distanze, d’altro canto, limitano le loro capacità attrattive nei confronti del Sud e delle isole: gli immigrati si fermano perciò a 23.389.

2) Gli atenei dell’Italia centrale sono i più gettonati: dall’Emilia al Lazio e all’Abruzzo ci sono 128.060 studenti “immigrati”. Essi esercitano un forte richiamo sui giovani del Sud e delle isole, regioni dalle quali infatti nel 2009 sono partiti 147.826 studenti, una popolazione quasi pari a quella di una città come Parma.

3) Se consideriamo il saldo positivo del centro e del nord e quello negativo del sud e delle isole (ma non i 3.623 universitari di cui mancano i dati: ultima riga della tabella), i conti tornano: 128.060 + 23.389 – 3.623 = 147.826.

Analizziamo adesso il risvolto economico di tale fenomeno.
Ogni anno 147.826 famiglie del sud e delle isole inviano il denaro occorrente per le tasse universitarie, l’alloggio e le bollette, i pasti, gli autobus, le telefonate, bar, cinema, benzina per l’auto o il motorino, qualche capo di abbigliamento ecc. ecc. Naturalmente ci sono ragazzi che per tutto ciò se la cavano anche con 600-700 euro mensili, e ci sono poi quelli provenienti da famiglie più agiate e accondiscendenti che arrivano a spendere 1.200 euro mensili o più. Facciamo dunque conto che, in media, ci vogliano 1.000 euro al mese e cioè 12.000 euro all’anno.

Ora, per meglio calcolare il costo economico delle famiglie, facciamo una precisazione sul numero degli studenti “emigrati”. Possiamo supporre che fra questi 147.826 ragazzi ce ne sia un dieci per cento, che fruisca ogni anno dell’alloggio e della mensa o di un assegno in denaro con cui coprire parzialmente le spese, e che un altro dieci per cento si aiuti con lavori sporadici o part-time. C’è dunque un venti per cento che non è completamente a carico dei genitori, ma solo in parte.
Sul totale degli studenti ce ne sarebbero, seguendo queste ipotesi, circa 118.261 che spendono 12.000 euro l’anno e circa 29.564, assegnatari di borse di studio o studenti-lavoratori, che richiedono alla famiglia uno sforzo inferiore, diciamo la metà.
Facciamo adesso un po’ di conticini: (118.261 x 12.000) + (29.564 x 6.000) = euro 1.596.516.000. Quasi unmiliardoseicentomilioni di euro ogni anno viene dunque trasferito dal sud verso l’Italia centrale e il nord con vaglia, bonifici, bancomat ecc.

Denaro ben speso? Non so. Alle industrie occorrono operai, preferibilmente con un livello culturale abbastanza basso da limitarne le possibili pretese (gli imprenditori predicano tanto contro gli immigrati ma sono quelli, i lavoratori da essi preferiti). Gli enti pubblici bloccano il turnover. Le libere professioni passano di padre in figlio o da zio a nipote, portandosi dietro la clientela e il nome. Cosa resta per i neolaureati?
A destra come a sinistra c’è grande retorica sul valore dell’istruzione, ma, in pratica, sembra che questa società non abbia bisogno di intellettuali: sono inutili e pericolosi. C’è solo da chiedersi se, a lungo andare, siano più pericolosi dentro i circuiti lavorativi, oppure fuori di essi.
Comunque, sarebbe almeno auspicabile che, d’ora in avanti, le famiglie cercassero di limitare questi flussi di studenti. Forse col denaro speso nelle proprie regioni si creerebbe qualche posto di lavoro in più.
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