giovedì 5 agosto 2010

Università(2): flussi migratori fra le regioni



Nel precedente articolo sull’università ho cercato di mettere in evidenza gli svantaggi economici (e, qui ora aggiungo, anche organizzativi e psicologici) degli studenti che, per frequentare le lezioni, si iscrivono all’università in una regione diversa da quella in cui essi risiedono con la propria famiglia.
Quanti sono? Difficile stabilirlo con esattezza (dovremmo sapere dalle singole università il luogo di provenienza degli studenti iscritti), però con l’aiuto di alcuni dati ufficiali possiamo almeno desumere quali sono i flussi fra le varie regioni italiane e fare delle interessanti considerazioni.

Per fare ciò ho riunito in un’unica tabella i dati forniti separatamente dal sito del miur. In essa la prima colonna indica il numero di studenti universitari “residenti” in una certa regione (a prescindere dal fatto che essi studino nella stessa regione o in un’altra), mentre la seconda indica gli studenti “iscritti” negli atenei di una certa regione (a prescindere dalla loro provenienza geografica). Lo scarto fra studenti residenti e iscritti è indicativo di come vanno le cose in ogni regione.
Ad esempio, cosa significa che gli "iscritti" negli atenei lombardi sono più numerosi dei “residenti”? Significa che il flusso in entrata è maggiore di quello in uscita: abbiamo una prevalenza di “immigrati” rispetto agli “emigrati”. Esattamente il contrario di quello che avviene per la regione Puglia, dove il probabile afflusso dalla Basilicata e dalla Calabria è inferiore al deflusso verso il Lazio e altre regioni del centro e del nord.

Studiare questi flussi nei dettagli è difficile quasi come studiare quelli fra i vari partiti politici dopo ogni tornata elettorale. Tuttavia, da un breve sguardo alla tabella, alcuni dati sui movimenti complessivi saltano agli occhi con sufficiente chiarezza e immediatezza:

1) Fra le regioni del nord, eccezion fatta per la Lombardia, i movimenti sono molto modesti, sull’ordine di centinaia o poche migliaia di studenti. In queste regioni evidentemente la presenza di numerosi atenei con una certa tradizione e i facili collegamenti stradali e ferroviari fanno sì che gli spostamenti siano tendenzialmente limitati all’ambito regionale. Le lunghe distanze, d’altro canto, limitano le loro capacità attrattive nei confronti del Sud e delle isole: gli immigrati si fermano perciò a 23.389.

2) Gli atenei dell’Italia centrale sono i più gettonati: dall’Emilia al Lazio e all’Abruzzo ci sono 128.060 studenti “immigrati”. Essi esercitano un forte richiamo sui giovani del Sud e delle isole, regioni dalle quali infatti nel 2009 sono partiti 147.826 studenti, una popolazione quasi pari a quella di una città come Parma.

3) Se consideriamo il saldo positivo del centro e del nord e quello negativo del sud e delle isole (ma non i 3.623 universitari di cui mancano i dati: ultima riga della tabella), i conti tornano: 128.060 + 23.389 – 3.623 = 147.826.

Analizziamo adesso il risvolto economico di tale fenomeno.
Ogni anno 147.826 famiglie del sud e delle isole inviano il denaro occorrente per le tasse universitarie, l’alloggio e le bollette, i pasti, gli autobus, le telefonate, bar, cinema, benzina per l’auto o il motorino, qualche capo di abbigliamento ecc. ecc. Naturalmente ci sono ragazzi che per tutto ciò se la cavano anche con 600-700 euro mensili, e ci sono poi quelli provenienti da famiglie più agiate e accondiscendenti che arrivano a spendere 1.200 euro mensili o più. Facciamo dunque conto che, in media, ci vogliano 1.000 euro al mese e cioè 12.000 euro all’anno.

Ora, per meglio calcolare il costo economico delle famiglie, facciamo una precisazione sul numero degli studenti “emigrati”. Possiamo supporre che fra questi 147.826 ragazzi ce ne sia un dieci per cento, che fruisca ogni anno dell’alloggio e della mensa o di un assegno in denaro con cui coprire parzialmente le spese, e che un altro dieci per cento si aiuti con lavori sporadici o part-time. C’è dunque un venti per cento che non è completamente a carico dei genitori, ma solo in parte.
Sul totale degli studenti ce ne sarebbero, seguendo queste ipotesi, circa 118.261 che spendono 12.000 euro l’anno e circa 29.564, assegnatari di borse di studio o studenti-lavoratori, che richiedono alla famiglia uno sforzo inferiore, diciamo la metà.
Facciamo adesso un po’ di conticini: (118.261 x 12.000) + (29.564 x 6.000) = euro 1.596.516.000. Quasi unmiliardoseicentomilioni di euro ogni anno viene dunque trasferito dal sud verso l’Italia centrale e il nord con vaglia, bonifici, bancomat ecc.

Denaro ben speso? Non so. Alle industrie occorrono operai, preferibilmente con un livello culturale abbastanza basso da limitarne le possibili pretese (gli imprenditori predicano tanto contro gli immigrati ma sono quelli, i lavoratori da essi preferiti). Gli enti pubblici bloccano il turnover. Le libere professioni passano di padre in figlio o da zio a nipote, portandosi dietro la clientela e il nome. Cosa resta per i neolaureati?
A destra come a sinistra c’è grande retorica sul valore dell’istruzione, ma, in pratica, sembra che questa società non abbia bisogno di intellettuali: sono inutili e pericolosi. C’è solo da chiedersi se, a lungo andare, siano più pericolosi dentro i circuiti lavorativi, oppure fuori di essi.
Comunque, sarebbe almeno auspicabile che, d’ora in avanti, le famiglie cercassero di limitare questi flussi di studenti. Forse col denaro speso nelle proprie regioni si creerebbe qualche posto di lavoro in più.
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