mercoledì 28 luglio 2010

Università(1): reddito, merito e residenza

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Il Corriere online dell’11 luglio dava notizia del fatto che il governo tedesco ha deciso di dare sostegno economico agli studenti universitari unicamente secondo il principio del merito e non anche delle condizioni economiche familiari. La notizia mi ha riportato alla mente due episodi.

Primo. Nel 1976 – ero al sesto anno di insegnamento e al secondo nella scuola dove avrei lavorato ancora per altri ventinove anni – mi venne dato l’incarico di formare le graduatorie per l’assegnazione dei buoni libro. Dovetti analizzare circa duecento domande, assegnando un punteggio in base al reddito e un altro in base al numero dei familiari a carico; se ben ricordo, non si faceva alcun cenno ai voti ottenuti dagli alunni. Da giovane insegnante mi trasformai in zelante burocrate e, per i dati sul reddito, dovetti esaminare le copie dei modelli presentati al fisco. Risultato: poiché commercianti, artigiani e imprenditori agricoli dichiaravano redditi bassissimi, furono queste categorie a fare la parte del leone. A impiegati e operai, niente buoni libro.


Secondo. Siamo nel 1998. Un ragazzo è al secondo anno di università e nell’anno precedente ha dato i primi esami con ottimi risultati. Telefona in segreteria per sapere se ha ottenuto l’assegno di studio in base a un mix fra merito e coefficiente reddituale e si sente rispondere che per i voti ne avrebbe avuto diritto, ma era stato poi escluso per il reddito. Ma come, i suoi genitori, due impiegati, senza altre proprietà se non quella del modesto appartamento in cui abitavano e con due figli all’università, erano da considerare “benestanti”?

Morale delle due favolette: il principio della solidarietà è sacrosanto, però in Italia non funziona.
Funzionerà allora quello del solo merito, come proposto in Germania dal governo conservatore? Ribaltando il giudizio precedente direi che, come unico criterio, quello del merito non è accettabile, perché dare cinque o seimila euro a chi, pur se bravissimo, ha già tanto denaro, non è moralmente corretto. Tuttavia, se tale criterio non è giusto, ha almeno il pregio di basarsi su dati meno manipolabili di quello del reddito: anche all’università ci saranno i raccomandati, ma voglio credere che un accademico si lasci corrompere meno facilmente e frequentemente di quanto non accada per altre categorie.
Visti i grossi difetti di entrambi i criteri esaminati, ne esiste qualcun altro che sia, nel contempo, giusto e seriamente applicabile? Per dare una risposta, partiamo dal ragionamento su quanto costi alle famiglie mantenere un figlio agli studi.

In Italia ci sono grosso modo cinquanta città che sono anche sedi universitarie, e non tutte con tutte le facoltà, e non tutte ben organizzate e con un valido corpo docente (molte sono di recentissima istituzione, e la storia anche in questo caso conta molto!).
Per gli studenti che già risiedono in queste città il costo degli studi è rappresentato unicamente dalle tasse e dall’acquisto dei libri. Per quelli che abitano in centri dai quali queste sedi universitarie sono facilmente raggiungibili con i mezzi pubblici o con l’auto, c’è il costo aggiuntivo del trasporto. Infine, per quelli che abitano nei centri dai quali non è possibile spostarsi quotidianamente – per la lontananza o la mancanza di rapidi collegamenti – ai precedenti costi si sommano quelli dell’alloggio, dei pasti fuori casa, lavanderia, telefono ecc. Per questi ultimi il costo complessivo è almeno il quadruplo rispetto a quello delle prime due categorie.

Quanti sono questi ragazzi, che per studiare devono fittarsi una stanza e farsi da mangiare o andare in una modesta tavola calda? Da alcune tabelle, pubblicate sul sito del miur, si possono ricavare elementi quasi certi in relazione ai flussi da una regione all’altra – argomento su cui mi riservo di indagare più minuziosamente in seguito – ma è difficile poi avere i dati relativi agli spostamenti all’interno della stessa regione. Credo comunque che questi “emigranti della cultura” siano in numero ragguardevole: ci sono intere città, e non solo in Italia, che su questo fenomeno fondano buona parte della loro economia. Basti pensare a Padova, Pavia, Bologna, Pisa, Siena, Perugia, Urbino, Salerno, ed ora anche Lecce e Cosenza, dove statisticamente si riscontra la presenza di uno studente universitario ogni quattro o cinque abitanti! Per altre città l’apporto economico dei fuori sede è forse meno determinante, ma per nulla irrilevante.

Bene, cosa ne direbbero i nostri politici, tanto quelli al governo quanto quelli dell’opposizione, di dare - in omaggio al principio di solidarietà - un aiutino prima di tutto a questi ragazzi che partono con uno “svantaggio consistente e dimostrabile”, sempre a patto che - in omaggio al principio del merito - ogni anno essi dimostrino anche di essere in regola con gli esami? A me sembra una buona idea. Si può discutere di questo, anziché dei capelli di Berlusconi? Mettiamo da parte le questioni di lana caprina.
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