lunedì 18 novembre 2019

Charles L. Allen e i comandamenti




Nel 1971, a Roma, ascolto per la prima volta “La buona novella” di Fabrizio De Andrè e… mi commuovo. Mentre ascoltiamo in religioso silenzio, si commuovono anche la mia compagna e due care amiche. A questo nostro comune sentimento pone fine solo il coro del “Laudate hominem” che, dalla storia di una vita umana tormentata, ci riporta al sacro.
Giuseppe, Maria e Gesù rivivono fra gli strumenti antichi e la voce vellutata di Fabrizio. Quell’atmosfera fiabesca persiste ancora oggi nella mia memoria, leggermente turbata solo da un brano, “Il testamento di Tito”, perché in quel brano la fiaba devìa bruscamente verso un tono quasi intellettualistico: il controcanto sistematico di Tito - uno dei due ladroni crocefissi insieme a Gesù - ai comandamenti ebraici, i quali vengono demoliti uno per uno, sia pur col nobile intento di Fabrizio di esaltare infine la specificità del messaggio cristiano: “Io nel vedere quest'uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore”.

Passano quasi cinquant’anni e trovo sul web un libro scritto nel 1953 da un pastore americano metodista, Charles L. Allen. Subito lo salvo, lo stampo e lo leggo per via del titolo “La Psichiatria di Dio” (God’s Psychiatry). Pur non frequentando alcuna organizzazione religiosa, sono attirato dal libro per il mio interesse verso la psichiatria e la religione, che qui trovo accostate in modo originale. Il libro è diviso in quattro capitoli, che hanno il tono di quattro lunghi sermoni aventi per oggetto: il Salmo 23, i comandamenti così come esposti in Esodo, la preghiera del ‘Padre nostro’ e, infine, le Beatitudini.
Non penso che i principi religiosi dei Protestanti siano migliori di quelli Cattolici o ortodossi, ma devo dire che il linguaggio chiaro e coinvolgente dei primi mi affascina più degli altri. Perciò leggo e rileggo tutto con attenzione, in particolare il capitolo sui comandamenti che inizia con questa suggestiva… visione:

<< Poco dopo aver liberato i figliuoli d'Israele dalla schiavitù in Egitto e iniziato il viaggio verso la terra promessa, Mosè fu chiamato da Dio sul monte Sinai. Lassù deve avergli detto qualcosa di simile a questo: “Mosè, la tua gente è ora in marcia verso la prosperità. La terra che vi ho promessa è ricca e fertile e il frutto sarà molto più abbondante di quanto non abbiate bisogno. Quello è infatti il paese ove scorre il latte e il miele. Ma, Mosè, la gente non è felice e soddisfatta col solo possesso di beni. Il modo di vivere è molto più importante di quello che si ha. Per questo sto per darti alcune regole di vita. Voglio che tu insegni queste regole al popolo. Se vivranno secondo queste regole, io prometto di benedirli, ma, attento, se violeranno queste leggi saranno penalizzati molto severamente. Un'altra cosa, Mosè: queste regole di vita sono per tutte le genti di tutti i tempi. Non saranno mai fuori moda, non potranno mai essere abrogate o modificate.” >>

Il primo comandamento

Spero di poter fare in seguito un breve un raffronto fra le ‘accuse’ di Tito e la ‘difesa’ del dott. Allen agli altri comandamenti, iniziando ora dal primo: << [3] Non avrai altro Dio all'infuori di me. [4] Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. [5] Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. […] >> ( Esodo 20 ).
Ebrei e chiese evangeliche dividono questi versetti in due comandamenti: - il riconoscimento di un unico dio; - la proibizione di farsi immagini di idoli e di prostrarsi ad essi.
I cattolici, invece, forse per dare più ampio spazio all’iconografia che caratterizza la loro storia, mettendo in ombra i versetti 4 e 5,  vi ravvedono un solo divieto ("Non avrai altro dio...).

Avverrà il contrario per il versetto 17 << Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo [...] nè alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo >>). Qui i cattolici distinguono nettamente la concupiscenza verso le mogli degli altri da quella verso i beni economici altrui, mentre sono le chiese evangeliche a farne, credo giustamente, un unico divieto.
Accettando per i primi tre versetti l’interpretazione dei cattolici e per il versetto 17 l'interpretazione degli evangelici, i comandamenti non sarebbero però dieci ma nove.
Accettando per i primi tre versetti l'interpretazione degli evangelici e per il versetto 17 l'interpretazione dei cattolici, i comandamenti sarebbero invece undici.
Strano ma vero, perchè tanto i cattolici quanto gli evangelici al numero dieci tengono molto! Il sistema decimale su di esso si fonda!

Ma torniamo al confronto fra le disperate contestazioni suggerite da De Andrè al ladrone crocefisso e le ispirate argomentazioni di Allen.
Per De Andrè non c’è alcuna differenza fra il dio del mondo cristiano e il dio di altri popoli: "Non avrai altro Dio all'infuori di me, spesso mi ha fatto pensare: genti diverse venute dall'est dicevan che in fondo era uguale. Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male.
Trattandosi di testi poetici, De Andrè non poteva soffermarsi sui diversi aspetti dei comandamenti e si è limitato, in questo caso, alla necessità di combattere le discriminazioni religiose e le guerre che ne conseguono. Nel suo lungo sermone invece Allen ha avuto modo di mettere in evidenza il fatto che a fare da contraltare al dio degli ebrei non ci sono solo i totem, gli dei del politeismo antico e il dio del fondamentalismo islamico, ma anche qualcosa che produciamo all’interno del mondo occidentale, generato dalle stesse chiese cristiane e dal sistema economico capitalistico.
Allen denuncia l’idolatria per cinque ‘valori’, presenti da secoli nella società occidentale ma oggi assolutamente dilaganti e inarrestabili: la ricchezza, la fama, il piacere, il potere e il sapere. Quanti uomini e donne europee e americane sono guidati da sani principi spirituali e quanti quelli che invece, deificando uno o più di questi cinque valori, ne hanno fatto il fine o i fini ultimi della propria vita?
Dal punto di vista sociologico, e ricordando al riguardo qualche bella pagina di Eric Fromm, non posso non dar ragione al reverendo, il quale, dopo la simpatica e ‘immaginifica’ introduzione di Mosè a tutti i comandamenti, dieci o nove che siano, passa al commento del primo comandamento, mettendo in luce i moderni pericoli di idolatria:

<< A Vicksburg, nello stato del Mississippi, un ingegnere mi mostrò un canale quasi secco e mi disse che una volta un braccio del grande fiume Mississippi scorreva lì, ma il suo corso era stato spostato scavando un canale. Il corso del braccio del fiume non poteva essere fermato, ma poteva essere deviato. Così è per quando riguarda il nostro adorare Dio. 
 Senza un oggetto di adorazione l'uomo è incompiuto. Lo struggimento della sua anima deve essere soddisfatto. Ma può accadere che l'uomo smetta di adorare Dio per farsene un altro. C'è stata gente che ha adorato il sole o una stella o un monte. In alcuni paesi la gente adora una mucca o un fiume o qualcos'altro. Noi pensiamo che questi popoli siano primitivi. E lo sono, ma non più di quanto non lo siano moltitudini di persone in quel paese illuminato che chiamiamo America. […] 
Ci sono almeno cinque oggetti di adorazione che moltitudini di persone hanno oggi "nel cospetto" di Dio: ricchezza, fama, piacere, potere, sapere. 
La ricchezza. Per quanto molti di noi non pensino di diventare mai veramente ricchi, non siamo però mai soddisfatti di quello che possiamo ragionevolmente arrivare ad avere. Forse è una cosa buona, eccetto quando questa smania ci fa deviare dalla nostra ricerca di Dio. Può capitare che diventi così interessato a quello che ho, da dimenticare i bisogni della mia anima. 
La fama. Molti di noi non si aspettano certo di diventare famosi, eppure c'è il bambino che dice: "Guardate che salto alto che faccio", oppure: "Guardate come corro bene". Fin dalla nascita portiamo con noi il desiderio di essere notati. Non c'è nulla di male, Dio ha dato a ciascuno di noi un'identità separata e desideriamo essere notati. Come pastore ho parlato con molte persone la cui vita è un naufragio e non conoscono felicità solo perchè non hanno ricevuto l'attenzione che desideravano. Ci sono persone che si offendono moltissimo per un nonnulla. In America si spende più denaro per cosmetici di quanto non se ne spenda per l'avanzamento del Regno di Dio. Non c'è nulla di male a desiderare di avere un bell'aspetto. Ma c'è tutto il male quando il desiderio di mettersi in mostra diventa il nostro primo desiderio, e così il nostro dio. 
Il piacere. Tutti gli uomini desiderano essere felici, ma si commette errore pensando che il piacere è il mezzo per ottenere la felicità. Col piacere si dimentica la monotonia della vita di tutti i giorni, ma non si soddisfa l'anima. Il piacere è come la droga; per avere più eccitazioni, più emozioni, più sensazioni, è necessario aumentare sempre di più la dose, finchè ci si trova a brancolare fra le tombe delle nostre passioni ormai morte. […] 
Il Potere e il Sapere. Nel potere e nel sapere non c'è nulla di male. In America l'energia elettrica a disposizione di ciascun cittadino è equivalente all'energia prodotta da 150 schiavi. Ma quando il potere viene ricercato per se stesso, quando il potere viene adorato, trasforma le persone in tanti piccoli Hitler. Il sapere di per sè è cosa buona, ma l'adorazione del sapere distrugge l'obbedienza, proprio come l'adorazione del potere distrugge il carattere. >>

Sul ‘potere’ si poteva dire certamente qualcosa di più e sul ‘sapere’ c’è forse molto da obiettare. Qui il dott. Allen… ha tagliato corto, troppo corto! Nessuno è perfetto.


Note:

1) Charles Livingstone Allen (1915-2005) fu un importante ministro metodista unito che servì come pastore della Grace Methodist Church ad Atlanta dal 1948 al 1960 e come pastore della First United Methodist Church a Houston, in Texas, dal 1960 al 1983. Le sue colonne nell'Atlanta Journal e sulla Houston Chronicle, il suo ministero radiotelevisivo e i suoi numerosi libri gli hanno portato il riconoscimento nazionale.
Cresciuto in una devota casa metodista, seguì suo padre nel ministero e fu educato al Young Harris College (1930-32), al Wofford College di Spartanburg nella Carolina del Sud (1932-34) e alla Candler School of Theology alla Emory University di Atlanta (1933-37).
I suoi articoli furono un preludio alla rubrica che scrisse per l'Atlanta Journal, a partire dal 1949. Alla Grace Methodist Church di Atlanta, una trasmissione radiofonica fu avviata nel 1949, e WSB iniziò a trasmettere i suoi servizi domenicali nel 1951. Alla First United Methodist Church di Houston, il suo ministero radiofonico e le sue apparizioni televisive continuarono fino al 1983. "Radiant Living" era il titolo della sua rubrica su Houston Chronicle.
Roads to Radiant Living (1951), il suo primo libro, fu seguito da God’s Psychiatry (1953), che divenne un best-seller, e poi da The Touch of the Master's Hand (1956), All Things Are Possible Through Prayer (1958), The Miracle of Love (1972) e Meet the Methodists (1986)

2) Chi volesse leggere “La psichiatria di Dio” di C. Allen può trovare il libro alla pagina:
https://esteri.uilpa.it/attachments/article/2/la_psichiatria_di_Dio.pdf

venerdì 27 settembre 2019

Giampiero Calabrò, “L’alba del nuovo ordine – Temi rapsodici sul medioevo giuridico: fatti e valori”




Del suo più recente lavoro il Prof. Giampiero Calabrò dice che è breve, che ha carattere ‘rapsodico’ e che potrebbe anche essere l’ultima sua fatica accademica.
Forse perché, come diceva la mia severa suocera, io sono un po' bastian contrario, ma più probabilmente perché conosco bene l’Autore, come persona oltre che come pensatore, mi permetto di muovere rispettosamente qualche lieve obiezione a tutte e tre le asserzioni.
Circa la brevità, dirò che il Vangelo di Matteo e il Manifesto di Marx, sono molto più brevi. Di fronte a certi temi scolastici, i vecchi prof talvolta rimproveravano l’alunno di aver ‘allungato troppo il brodo’. E avevano ragione a usare questa metafora: un libro, come il brodo, può essere ristretto e saporoso oppure lungo e insipido.
Sul carattere rapsodico del saggio, dirò che, per quanto io ne sappia, nulla è più lontano dalle ‘corde’ dell’Autore. So che fin dall’adolescenza ha sempre avuto una inguaribile e ossessiva tendenza a spaccare il capello in quattro, ad analizzare il tutto per poi poterlo ricomporre in 'ordine sistematico'.
Che questa poi possa essere l’ultima sua fatica, mi azzardo a profetizzare che – dopo un breve riposo dalla scrittura, impreziosito probabilmente dalle moine delle nipotine – fra un mese o due, mentre cenerà o passeggerà per le strade di Rossano o Passignano o si sdraierà per un breve pisolino, non potrà fare a meno di pensare, e dunque di ritessere nuove trame filosofiche e di scrivere altre e altre pagine ancora.

“L’alba del nuovo ordine” ha per oggetto le riflessioni filosofiche e giuridiche relative a un arco di tempo abbastanza preciso, dalla fine del 1200 (Tommaso d’Aquino) alla prima metà del 1300 (Guglielmo d’Ockham), con l’intento di proiettare luci e ombre di quel mezzo secolo – o, se vogliamo, ‘secolo di mezzo’ – sulle problematiche giuridiche che, quasi in movimento circolare, tornano a occuparci e preoccuparci nei tempi attuali.
Luci e ombre, occupazioni e preoccupazioni, dicevo, perché sia in Tommaso che in Guglielmo, come pure in tutti gli autori coevi citati dall’Autore, il saggio trova il filo conduttore che sempre li unisce pur in una apparente discontinuità. E, di ciascuno di essi, segnala il contributo evolutivo e i limiti.
Il pregio più importante di questa ricerca va dunque visto innanzitutto nella rivalutazione di un periodo storico ingiustamente messo in ombra dal pensiero successivo. E non è il caso di sottolineare ciò che è noto anche al liceale meno brillante: a iniziare dal Rinascimento, empirismo e razionalismo, criticismo e illuminismo, positivismo e materialismo, anche se ognuno a modo proprio, si sono tutti collegati alla filosofia greca e al diritto romano, saltando a piè pari il pensiero medioevale.

Giampiero Calabrò è uno di quegli studiosi che questo pensiero vogliono riportare alla luce. Perché non meritano l’oblio né l’opera sistematica di Tommaso d’Aquino, né tanto meno gli scossoni antintellettualistici del francescanesimo, né tutti quegli autori che - partendo da Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi, terre d’elezione spirituale dell’Autore – ne hanno affinato gli strumenti intellettuali: Duns Scoto (1265–1308), Bartolo da Sassoferrato (1314–1357), Marsilio da Padova (1275–1342, col suo Defensor Pacis del 1324) e infine Guglielmo d’Ockham (1288–1347). Tre filosofi e un giurista che, nel tentativo di superamento del tomismo, vanno alla ricerca di un nuovo mondo di valori, quello dei ‘diritti soggettivi’.
Arrivati a Guglielmo d’Ockham, sembra che il problema sia felicemente risolto, e invece, giunti alle ultime pagine, il saggio ne paventa i rischi:

<< Le nozioni di sicurezza e ordine hanno segnato nel loro significato assiologico il progresso giuridico dell’Occidente fino a quando […] siamo entrati ufficialmente nel secolo dell’insicurezza. Mentre scrivo, il dibattito politico si è riacceso su questi temi e viene vissuto, com’è forse fisiologico, secondo le divisioni proprie del discorso ideologico e acritico. D'altronde la stessa giurisprudenza e l'azione repressiva dell'ordine giudiziario oscillano in un giuoco pirotecnico di disposizioni e di interpretazione, che lasciano sconcerto ed aumentano il senso di insicurezza e di paura. Il ritorno alla fattualità, alle radici identitarie del territorio e del sangue conducono ad una condizione pre-moderna e alimentano i fantasmi inquietanti di un passato, che ogni volta si presenta sotto "velate" spoglie. In questo quadro prende corpo una visione c.d. assiologica dell'ordine e della nozione di sicurezza, a condizione che allorché si parli di valori, non si dimentichi che essi, una volta incardinati nella carta costituzionale, siano da considerarsi norme positive assiologicamente orientate. >> (pagg. 131-132)
Che avesse ragione l’Aquinate?

Nota.
L’autore, in alcuni spunti autobiografici, accenna al suo lavoro come racconto "senza alcuna pretesa rigorosamente scientifica [che] si muove ad un livello meramente didattico" (pag. 81). Evidentemente, rispetto ai suoi precedenti e numerosi saggi, questo è stato forse scritto con spirito più libero e sereno, ma io ho l’obbligo di avvertire il lettore che si tratta comunque di pagine asciutte e dense, che richiedono e meritano una o più attente letture e successive meditazioni.
Il mondo accademico ne sarà arricchito. I libri più belli dei miei studi universitari sono quelli che ho dovuto leggere due o più volte!

                                                                                                                        



domenica 28 luglio 2019

L’ape regina, 1963, con Ugo Tognazzi e Marina Vlady




I motivi per cui ci si sposa sono tantissimi: impossibile una reductio ad unum. Amore e matrimonio sono i soggetti più frequenti nella letteratura, nella cinematografia, nello squallore televisivo e in quello della cronaca rosa e nera. In ogni settore e in ogni autore, c’è una versione diversa, spesso una diversa miscela delle varie componenti del sentimento amoroso e del vincolo matrimoniale. C’è la componente biologica (procreare), quella sessuale (pulsioni libidiche), quella psicologica (combattere la solitudine), quella economica (piccole economie di scala), quella sociologica (la marginalità sociale dei o delle single) e per qualcuno quella religiosa (che stranamente coincide con quella biologica: la procreazione).
Nel film di Marco Ferreri del ’63, L’ape regina, a prevalere è la prima; tutte le altre sembrano essere solo sussidiarie.

Per essere coerente con la mia impostazione culturale, dovrei rifiutare a primo acchito questa visione. Eppure, guardando e riguardando più volte con attenzione questo magnifico film, me ne lascio quasi sempre catturare. Forse è perché per dieci anni ho avuto in casa una cagnolina dal cui comportamento ho imparato diverse cose.
Da quando Pallina – questo era il nome della mia adorata piccola amica – cominciò ad avere l’estro venereo, mi era difficile portarla a spasso perché davanti al portone di casa si riunivano tutti i maschi randagi del quartiere, che avvertivano il suo stato attraverso gli odori fin dal quinto piano dove abito e l’aspettavano al varco. La cosa mi stupì molto, perché in precedenza non avevo avuto alcuna esperienza con gli amici e le amiche a quattro zampe. Ma a stupirmi non fu solo l’interesse dei maschiacci, quanto il fatto che, in quei giorni particolari dell’estro, e solo in quelli, anche Pallina, anziché abbaiare come al solito per difendere il suo territorio, tirava dal collare in direzione dei maschietti.
Infastiditi della cosa (per sottrarla a indesiderate gravidanze, ad ogni uscita bisognava tenerla in braccio) in famiglia abbiamo deciso, anche se con un certo senso di colpa, di farla sterilizzare. Dopo l’intervento nessun randagio si fece più vedere sotto casa e ad ogni incontro occasionale Pallina ricominciò a pensare solo alla difesa del territorio. Non era dunque la libido a fomentare i desideri ma l’istinto di paternità e maternità.

Facile dire che tutto ciò non ha alcun rilievo per gli esseri umani: ci sono la parola, l’educazione, gli studi, le norme sociali, i calcoli di convenienza ecc. E chi può metterlo in dubbio?
Eppure credo che nelle storie d’amore e nella vita coniugale qualcosa di primitivo sia rimasto anche nella specie più evoluta. E anche il film di Ferreri – nonostante l’incomprensibile censura da parte delle autorità ecclesiastiche dell’epoca – proprio questo voleva sottolineare. Questa è almeno la mia interpretazione.
Vediamone i passaggi fondamentali per verificare se ciò è vero.

Alfonso è un benestante commerciante di Parma, proprietario insieme al suo amico X di una concessionaria di automobili. Ha quaranta anni e, dopo aver fatto il tombeur de femmes per lunghi anni, decide di sposare Regina, una ragazza bella e di buona famiglia.
Regina ha avuto una severa educazione religiosa e fino al matrimonio resterà perciò illibata; per Alfonso solo parole dolci, carezze e qualche casto bacetto. Ma in materia lei cambierà imprevedibilmente e repentinamente subito dopo il giorno del matrimonio: vuole rapporti molto intensi e frequenti.
Di ciò, nei primi mesi, Alfonso era felice e orgoglioso, ma quando le avances di Regina diventano quasi ossessive, lui non ce la fa più fisicamente e psicologicamente. Prova a sottrarsi con l’alibi dell’eccessivo lavoro, ma lei lo insegue persino a tarda sera nell'ufficio della concessionaria, dove lui fa finta di lavorare. E anche lì, sul divano (vedi foto), non può deludere le forti aspettative della moglie.
Il comportamento di Regina cambia però improvvisamente per la seconda volta non appena si accorge di essere incinta. Adesso aspetta un bambino, frutto dei suoi focosi amplessi, e per lei i rapporti sessuali cessano di avere ogni interesse.
Deluso da questa nuova svolta, Alfonso cade in depressione, si ammala e muore. Ma in casa si festeggia la nascita del ‘nuovo Alfonso’, e Regina, oltre che mamma, diventerà una ottima amministratrice della concessionaria! Morto un fuco, se ne fa un altro!

* * *

Il film del 1963 – ottima annata per Italia e Francia - è interpretato da Ugo Tognazzi, sulla cui bravura è superfluo spendere qualunque parola, e da una brava e bellissima Marina Vlady. Premiato, il primo, col Nastro d’Argento nel 1964 come migliore attore protagonista e la seconda al XVI Festival di Cannes per la migliore interpretazione femminile.
Ho una copia quasi perfetta del film su CD. Ho provato a caricarlo su YouTube ma è stato bloccato per violazione del copyright. La cosa mi ha fatto molto arrabbiare perché, a 56 anni di distanza dalla sua produzione, credo che il film possa essere difficilmente sfruttato (i gusti del pubblico giovanile sono troppo cambiati e i film di qualità, soprattutto in bianco e nero, possono al massimo ottenere qualche raro passaggio sulle tv). Ma sono ancora più deluso dalla sciocca rivendicazione del copyright, perché la libera condivisione delle opere culturali è, a mio avviso, a fondamento di una società civile. “Tenetevi pure case, terreni e fabbriche – direi a coloro che oggi coi loro mezzi finanziari stanno conquistando l’economia e condizionando la politica – ma almeno fate circolare le idee!”
Tuttavia, se su YouTube ci sono strumenti sofisticatissimi per bloccare la libera circolazione dei video, non altrettanto avviene per canali informatici di secondo piano. Lì ho trovato un discreto video del film di cui ho parlato (diviso in primo e secondo tempo) e poi tramite Google ho trovato il PDF di un libro edito nello stesso anno, che dopo una esposizione ampia dei temi trattati nel film (60 pagine) ne riporta la sceneggiatura integrale (senza tagli dovuti alla parziale censura cui il film fu sottoposto) e una serie di fotogrammi.
Per gli amici interessati riporto qui di seguito i link:

https://www.dailymotion.com/video/x6fgfm7 (1° tempo)

https://www.dailymotion.com/video/x6fg8nf (2° tempo)

https://it.scribd.com/doc/210006534/Matrimonio-in-Bianco-e-Nero-l-Ape-Regina-pdf (sceneggiatura)
Per scaricare il pdf è necessario iscriversi a www.scribd.com. Se ciò fosse difficoltoso o sgradito lo si può chiedere al mio indirizzo email presente sul blog.

venerdì 24 maggio 2019

Jeremy Rifkin: "Produttività e Fine del lavoro" (2004)

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Da circa un paio d'anni seguo, soprattutto su You Tube, conferenze e interviste dell'acuto e simpatico sociologo del lavoro Prof. Domenico De Masi, dalle cui ricerche il M5S ha tratto le più serie motivazioni per far approvare la legge sul reddito di cittadinanza.
Da qualche settimana ho invece intercettato su internet due libri del Prof. Jeremy Rifkin, economista e consulente di vari capi di governo (Germania, Italia, Cina ecc.), il quale già nel 1995 sosteneva che la robotica e l'informatica, utilizzate sempre più dalle imprese per comprimere velocemente e inesorabilmente i costi di produzione, segneranno la riduzione del lavoro - sia manuale che intellettuale! - a percentuali prossime allo zero.
Tutti sappiamo che un allarmismo simile ci fu all'inizio della prima rivoluzione industriale e che tale allarmismo risultò poi ingiustificato. C'è oggi però qualcosa di nuovo, che rende più realistico il pericolo di una "disoccupazione di massa", e ciò dovrebbe risultare abbastanza chiaro da due paragrafi della Introduzione, che Rifkin fece per la riedizione del suo "The End of Work" del 2004 e che riporto qui di seguito.
Il libro di 574 pagine, edito in Italia dalla Mondadori, è attualmente disponibile sul mercato solo in formato e-book al prezzo di € 7,99, ma se ne può effettuare il download integrale dal sito www.scribd.com
C.M.

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Il rebus della produttività (pagg. XVIII-XXIV)

Nonostante una crescita dell’economia pari al 2,8% nel 2002 e una rapida crescita del 4,7% della produttività del lavoro, più di un milione di lavoratori è fuoriuscito dal mercato occupazionale nell’ultimo anno (l'autore si riferisce al 2003). Essi, semplicemente, hanno smesso di cercare lavoro e non sono più conteggiati, perciò, come disoccupati.
Perché questi posti di lavoro sono scomparsi? Alcuni imputano l’aumento della disoccupazione al costo del lavoro più basso e alle importazioni a più buon mercato, e se la prendono con le aziende statunitensi per aver trasferito la produzione e i servizi a sud del confine o oltremare.
Per quanto ci sia del vero in questo, la causa più profonda della diffusione della disoccupazione in America e nel resto del mondo consiste nel vertiginoso aumento della produttività. La vecchia logica secondo la quale le acquisizioni e i conseguenti vantaggi della tecnologia fanno scomparire vecchie occupazioni ma ne creano a loro volta altrettante di nuove non è più vera. Si è sempre guardato alla produttività come al motore che genera occupazione e prosperità.

Gli economisti sostengono da tempo che la produttività permette alle aziende di fabbricare una maggiore quantità di beni a costi inferiori; che beni meno costosi, a loro volta, stimolano la domanda; che l’aumento della domanda porta a produzione e produttività maggiori, i quali, a loro volta, aumentano ancor più la domanda, in un ciclo senza fine. E così, anche se le innovazioni tecnologiche nel breve periodo eliminano parte della forza lavoro, il picco della domanda di prodotti meno costosi assicurerà più posti di lavoro di bassa specializzazione per venire incontro ai cicli di produzione in espansione. E anche se i progressi tecnologici hanno come conseguenza massicci licenziamenti, le schiere dei disoccupati cresceranno fino a deprimere i salari a un punto tale che sarà meno costoso riassumere i lavoratori piuttosto che investire in nuove tecnologie laborsaving.
 
Il problema è che questo principio cardine della teoria economica capitalistica non sembra più applicabile. La produttività cresce rapidamente negli USA e, a ogni aumento, un numero maggiore di lavoratori perde il posto. Secondo un rapporto sulla produttività delle prime cento aziende del Paese appena reso noto, ora ci vogliono solo nove lavoratori per produrre quello che producevano dieci lavoratori nel marzo del 2001. William V. Sullivan, senior economist della Morgan Stanley, afferma che «i cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro››, in particolare i progressi nella crescita della produttività e l’introduzione di nuova tecnologia laborsaving, potrebbero «essere di ostacolo a nuove assunzioni». Richard D. Rippe, chief economist della Prudential Securities, concorda, asserendo che «possiamo produrre di più senza aggiungere molta manodopera».

Edmund Andrews, del «New York Times», riassume la crisi dell’occupazione che gli USA e tutti gli altri Paesi hanno di fronte, osservando che la continua diminuzione dell'ammontare delle retribuzioni, nonostante la rapida crescita economica, «è dovuta in primo luogo a uno straordinario aumento della produttività, che ha consentito alle aziende di produrre una quantità molto superiore di beni con l'apporto di molte meno persone››.
Nel novembre 2003 Alliance Capital Management ha pubblicato uno studio rivelatore sul lavoro manifatturiero nelle venti maggiori economie mondiali che ha reso evidente la correlazione tra gli aumenti di produttività e la spaventosa scomparsa dell’impiego in fabbrica. Secondo lo studio, 31 milioni di posti di lavoro in questo campo sono stati eliminati tra 1995 e 2002. L'occupazione nel comparto manifatturiero è diminuita anno dopo anno in ogni regione del mondo. Il calo dell'occupazione è avvenuto nel periodo in cui la produttività del comparto è cresciuta del 4,3% e la produzione industriale globale di oltre il 30%. L’incredibile aumento della produttività ha consentito alle aziende di produrre molti più beni con molta meno manodopera. L'occupazione nel comparto manifatturiero, in tutto il mondo, è diminuita di circa il 16%. Gli USA hanno perso più dell'11% dei loro posti.

La maggior parte degli americani e molti europei imputano la diminuzione dei posti di lavoro nel comparto manifatturiero alla crescita impetuosa dell’economia della Cina. Mentre la Cina produce ed esporta una percentuale molto più alta di beni, lo studio ha scoperto che la manodopera cinese del manifatturiero viene eliminata in massa. Tra 1995 e 2002, la Cina ha perso più di 15 milioni di posti di lavoro nel settore, pari al 15% della sua forza lavoro totale nel comparto. Come in ogni altra regione del mondo, le aziende manifatturiere cinesi stanno aumentando la produzione, e così hanno bisogno di molta meno manodopera. Se il tasso attuale di decremento è destinato a durare - ed è più che probabile una sua accelerazione - l’occupazione globale nel comparto manifatturiero diminuirà dagli attuali 163 milioni di posti di lavoro a solo qualche milione nel 2040, mettendo virtualmente fine nel mondo all'era del lavoro di massa in fabbrica.

Il modo migliore per cogliere l”enormità di questo cambiamento del lavoro in fabbrica è guardare a una singola industria. L’industria dell'acciaio negli USA è un tipico esempio della transizione che sta ora avendo luogo. Negli ultimi venti anni, la produzione industriale americana di acciaio è cresciuta da 75 milioni di tonnellate a 102 milioni. Nello stesso arco di tempo, dal 1982 al 2002, il numero di lavoratori dell’acciaio negli USA si è ridotto da 289.000 a 74.000. Le aziende dell'acciaio, come tutte le aziende manifatturiere del mondo, stanno producendo di più con molta meno manodopera, grazie ai vertiginosi aumenti di produttività. «Anche se il comparto manifatturiero riuscirà a mantenere la sua quota nel PIL››, dice l'economista della University of Michigan Donald Grimes, «è probabile che continueremo a perdere posti di lavoro a causa della crescita della produttività». Grimes lamenta che ci sia poco da fare. «È come tentare di avanzare contro un terribile vento».

L'industria dei servizi e dei colletti bianchi sta affrontando simili fenomeni di perdita di posti di lavoro, mentre le tecnologie intelligenti aumentano la produttività e si vengono sempre più a sostituire ai lavoratori. Il sistema bancario, quello assicurativo e il commercio all'ingrosso e al dettaglio stanno introducendo tecnologie intelligenti in ogni settore delle loro operazioni, eliminando rapidamente personale di supporto nel processo.
Gli osservatori dell’industria si aspettano un calo di lavoro dei colletti bianchi che metterà in ombra quello del comparto manifatturiero nel corso dei prossimi quarant'anni, mentre aziende, interi settori industriali e l’economia mondiale saranno collegati in una rete neurale (di neuroni artificiali) globale. Sensori dai costi trascurabili - piccoli processori - stanno facendo la loro comparsa su tutto, dai prodotti di drogheria agli organi umani, mettendo in connessione il mondo intero in una rete ininterrotta di continuo scambio di idee e di informazioni. Paul Saffo, direttore dell’Institute for the Future, a Menlo Park, in California, osserva che «negli anni Ottanta si facevano affari tra persone che parlavano con altre persone - ora tra macchine che parlano con altre macchine».

Conversazioni tra macchine si accompagnano sempre più a conversazioni tra esseri umani e macchine. La tecnologia del riconoscimento vocale è già molto avanzata e continuerà a sostituire le conversazioni tra le persone. Nuovo software per computer sta perfino perfezionando l'abilità delle macchine nel tradurre conversazioni da una lingua all’altra in tempo reale. Come per il comparto manifatturiero, ci si aspetta che le tecnologie intelligenti riducano la forza lavoro dei colletti bianchi e dei servizi a una frazione delle sue attuali dimensioni, mentre la rivoluzione della comunicazione digitale collega ogni cosa sul pianeta in reti intelligenti incorporate in un’unica griglia globale.

Qui sta il rebus. Se gli straordinari progressi nella produttività, nella forma di una tecnologia meno costosa e di più efficienti metodi di organizzazione del lavoro, possono sempre più prendere il posto dell’operare dell'uomo - con la fuoriuscita di un maggior numero di persone dal mondo del lavoro come risultato - da dove verrà la domanda di beni di consumo sufficiente a comprare tutti i nuovi prodotti e i servizi potenziali resi disponibili dall’aumento della produttività?
Per un certo periodo il credito al consumo, la bolla di sapone del mercato azionario e il rifinanziamento delle ipoteche sulla casa hanno permesso ai lavoratori disoccupati o sottoccupati di continuare ad acquistare. Ora che il credito è saturo, che la bolla del mercato azionario è scoppiata e che i tassi di interesse delle ipoteche sulla casa stanno salendo, siamo costretti ad affrontare una contraddizione inerente al cuore stesso del sistema capitalistico, presente dall’inizio, ma che solo ora sta diventando inconciliabile.

Il capitalismo di mercato è in parte costruito sulla logica della riduzione dei costi del fattore produttivo, incluso il costo del lavoro, al fine di creare margini di profitto. C'è una continua ricerca di nuove tecnologie meno costose e più efficienti per abbattere i salari o eliminare del tutto la manodopera umana. Ora, le nuove tecnologie intelligenti possono sostituire buona parte del lavoro umano - sia fisico sia intellettuale. Se l'introduzione di nuove tecnologie laborsaving e timesaving ha aumentato considerevolmente la produttività, ciò è stato raggiunto solo a spese di un numero maggiore di lavoratori emarginati in impieghi part-time o a cui è stata consegnata la lettera di licenziamento. Una forza lavoro contratta, comunque, significa reddito ridotto, domanda di beni di consumo ridotta e un’economia incapace di crescere. Questa è la nuova realtà strutturale che il governo, i leader del mondo degli affari e tanti economisti sono riluttanti a riconoscere.

La fine del lavoro (XXIV-XXVI)

L'economia globale è al centro di un radicale mutamento della natura del lavoro, con grandi conseguenze per il futuro della società. Nell'Era Industriale, una forza lavoro umana di massa operava fianco a fianco con le macchine per produrre beni e servizi di base. Nell'Era dell’Accesso, macchine intelligenti, nella forma di software per computer, robotica, nanotecnologia e biotecnologia, hanno progressivamente sostituito il lavoro umano nell’agricoltura, nei comparti dell'industria e dei servizi.
Aziende agricole, fabbriche e molte ditte di colletti bianchi addetti ai servizi si sono rapidamente automatizzate. Sempre più lavoro fisico e intellettuale, dalle mansioni umili e ripetitive a quelle specializzate di alto concetto, sarà svolto nel ventunesimo secolo da macchine pensanti meno costose e più efficienti. Probabilmente i lavoratori meno costosi del mondo non saranno tanto a buon mercato come la tecnologia che verrà online a sostituirli.

Alla metà del ventunesimo secolo, la sfera degli scambi avrà i mezzi tecnologici e la capacità organizzativa per fornire beni e servizi di base a una crescente popolazione mondiale usando una frazione della forza lavoro impiegata al presente. Entro il 2050 forse si avrà bisogno solo del 5% della popolazione adulta per gestire e rendere operativa la tradizionale sfera industriale. Aziende agricole, fabbriche e uffici semivuoti saranno la norma in ogni Paese.
Pochi tra i chief executive officers con i quali parlo pensano che per produrre beni e servizi convenzionali tra cinquant’anni occorreranno quantità di lavoro umano di massa. Di fatto tutti credono che la tecnologia intelligente sarà la forza lavoro del futuro.

Naturalmente, la nuova era porterà con sé ogni genere di nuovi beni e servizi che, a loro volta, richiederanno nuove abilità occupazionali, soprattutto nell’arena della conoscenza più sofisticata. Questi nuovi posti di lavoro, tuttavia, per loro natura, saranno rari ed elitari. Non vedremo mai più migliaia di lavoratori affollarsi all’uscita dai cancelli della fabbrica e dai centri di servizi come succedeva nel ventesimo secolo.
Anche le mansioni professionali più specializzate sono sempre più vulnerabili alla sostituzione tecnologica. Una sofisticata tecnologia diagnostica sta prendendo il posto di esami clinici altamente specializzati in precedenza svolti da medici, infermieri e tecnici. La progettazione computerizzata ha eliminato molti disegnatori tecnici e ingegneri. Nuovi programmi software sono subentrati a molto lavoro standard in precedenza svolto da contabili. Mentre saranno sempre ricercati i professionisti più brillanti, quelli di livello ordinario nella maggior parte delle discipline saranno con ogni probabilità eliminati dalla forza lavoro quando la tecnologia intelligente si dimostrerà un’alternativa più adeguata, rapida ed economica. La forza lavoro in futuro sarà sempre più specializzata e ricercata.

L'Era Industriale mise fine al lavoro degli schiavi. L’Era dell’Accesso metterà fine al lavoro salariato di massa. Questa è l’occasione e la sfida che l’economia mondiale ha di fronte, mentre ci muoviamo nella nuova era della tecnologia intelligente. Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo Rinascimento per la razza umana o portare a una grande divisione e allo sconvolgimento sociale. La questione centrale è: che cosa facciamo dei milioni di giovani lavoratori di cui si avrà poco o nessun bisogno in un'economia globale sempre più automatizzata?
Davanti a noi ci sono diverse opzioni su come guardare al futuro dell’occupazione. Ognuna di esse richiede un certo sforzo di immaginazione: per esempio la disponibilità sia a ripensare la vera natura del lavoro, sia a esplorare modi alternativi per gli esseri umani di definire il proprio ruolo e contributo nei confronti della società nel secolo appena arrivato.

    Jeremy Rifkin
    "La Fine del Lavoro" - 2004



domenica 14 aprile 2019

"Prima che arrivi il ’68" – Raccolta di poesie di Nicola Russo

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Autoritratto

Nel “Simposio”, a Socrate, che chiede: “Ma allora chi sono i filosofi, se non sono nè i sapienti nè gli ignoranti?”, Diotima risponde: “E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza ed ignoranza”.
Certezze e incertezze, come già nella matura filosofia greca, si inseguono nel tentativo di catturare verità sempre sfuggenti; ecco in cosa intravedo il filo principale che collega le poesie giovanili di Nicola Russo, da me lette ultimamente. Probabilmente oggi, con l’età, nella vita quotidiana, gli interrogativi esistenziali sono diminuiti o addomesticati, ma in quelle poesie ritrovo lo stesso amico che ho conosciuto negli anni dei disordini spirituali giovanili, quelli nei quali è difficile stabilire confini precisi fra il sogno e la realtà. La ricerca della realtà non è, non può essere, sempre lineare. La logica ci aiuta, ma poi puntualmente finisce per abbandonarci: è quello il momento in cui ci si aggrappa all’arte e, in alcuni casi, alla fede religiosa.

Con Nicola ho condiviso le prime esperienze culturali e politiche: è solo per questo che posso sperare di introdurmi nel suo spirito labirintico, lucido ma spigoloso, senza eccessivo timore di perdermi. Io sono un inguaribile ragionatore che, purtroppo, lascia un margine troppo ridotto a quanto si può solo percepire intuitivamente con immagini fuggevoli e profonde e a quanto di misterioso avvolge la nostra vita e scombina le pretese di dare spiegazione al tutto. Mi sfuggono i salti logici del più banale testo di una canzone ascoltata cento volte, quindi non sono proprio il più adatto a commentare poesie. Quelle di Nicola però, anche nei passi in cui ho la sensazione di smarrirmi, sento bene cosa vogliono esprimere.
Negli anni della composizione di questi versi non conoscevamo ancora bene le tinte forti della poesia di Lorca e Neruda. Eppure Nicola scriveva versi con la stessa nervatura, con improvvisi scatti in avanti, seguiti da sofferta riflessione. Nei primi piani troviamo quasi sempre persone, uomini e donne; sullo sfondo, una società enigmatica pur nella sua fissità; dietro le quinte, la storia, il percorso umano collettivo dentro il quale l’individuo, quasi impotente, sprofonda, agitandosi come un naufrago in un mare in tempesta.

Sono testimone della datazione di questi versi, anni ‘65-‘67 - da cui un titolo, che vuole rimarcare il loro carattere quasi profetico rispetto agli sconvolgimenti radicali del ’68 - perché, quando da Rossano ritornò a Crotone, sua città natale, l’autore, amico di amene conversazioni ma anche di crescita culturale e di impegno sociale, mi inviò due di queste poesie. Mi rimasero tanto impresse nella mente che, quando dopo oltre quaranta anni mi telefonò dalla Germania, dove dal ‘70 vive e lavora come insegnante e traduttore, fui io stesso a tirarle fuori dal cassetto dei ricordi e a parlargliene.
Una era quella dedicata al poeta Lorenzo Calogero: “Donne brune e coperte di nero, come vuole una regola vecchia quanto la pazzia dell’uomo”: il reale non sempre coincide col razionale. Quelle donne calabresi, descritte nei loro abituali vestimenti castigati, erano quasi un dipinto. E non è dunque un caso che la vena artistica di Nicola si sia poi riversata anche nella pittura, che possiamo oggi apprezzare sul suo blog http://www.russoscript2011.blogspot.com : come protagonisti i paesaggi, anche umani, della sua terra d’origine, con la presenza costante, quasi una firma, di alberi che rinviano al pensiero dell’eternità.
La seconda poesia è di appena otto versi ma, con una “visione” racchiude, quasi in un pugno, la sconcertante storia dell’uomo, intravedendone la liberazione dai mille vincoli sociali in un ritorno alle origini: “E vedrò i morti arrampicarsi sulle cime degli alberi e ridiventare scimmie. Parleranno il loro linguaggio scorretto. Chiameranno a raduno le altre bestie, ma invano”.

Ora, dopo tanti anni, ho avuto la possibilità di leggere anche le altre poesie. E ci ritrovo gli stessi colori e la stessa prorompente ansia - di rompere schemi mentali e argini espressivi - che caratterizzava le prime due allora inviatemi. Riprendo solo alcuni versi di alcune di esse.

“Si liberò della vita con un lungo sospiro./ Una stanza piena di libri e / con poche persone. /Parenti che avevano finito di / fare la spesa. / Il morto fu portato al cimitero! / già si pensava a quel po' di roba da / spartire. / La zia volle il comò, la sorella il tavolo / grande: erano troppi in famiglia. / Nessuno cercò i libri,/ non sapevano dove / metterli” (Morte di un saggio) . L’evento tragico della morte, saggiamente vissuto con distacco, viene riportato ai problemi concreti, denunciando il prevalere dei bisogni materiali su quelli spirituali.

“Storti ulivi nuotanti in un / ferruginoso mare di terra!.../ più vicino vi sento / nella notte profonda e / sciacquata dalla miseria del / giorno… Tremolio d'argento al riflesso/ lunare… / Amici ulivi, che parlate / al battito del vento, di idee / nuove, aiutatemi!” (Storti ulivi). Le naturali contorsioni degli ulivi, che imploranti tendono i rami verso il cielo, sembrano lo specchio di nature umane complesse e desiderose di pace interiore e di giustizia.

Note
Per la lettura degli scritti giovanili di Nicola Russo rinvio alla pagina web http://russoscripti.blogspot.com/2011_01_01_archive.html , in cui si trova anche un suggestivo e commovente racconto, “Adolfo”.
Molte poesie sono nate prive di titolo e così, giustamente, l’autore ha voluto lasciarle. Per identificarle basterà tuttavia il richiamo al primo verso, che, al pari del titolo, spesso ne indica una prima, approssimativa, chiave di lettura; l’ultima spettando, come sappiamo, a ciascun lettore, mediante il filtro del proprio vissuto.

Cataldo Marino







venerdì 22 marzo 2019

Vitaliano Brancati, un racconto breve

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Trampolini si imbatte in una donna alle soglie del giardino Bellini

Nei meriggi di luglio, quando Catania, coi suoi arsi palazzi, pare un immenso gregge assetato che scenda verso il mare, il professor Trampolini suole passeggiare su quel tratto di via Etnea che corre lungo i cancelli del giardino Bellini.
Il marciapiede, tutto scuro nell'ombra degli alberi, è come una riva di vento e di frescura sull'immensità dell'abbaglio solare.
La città cuoce nel sole. L'acqua bolle dentro gli aerei canali di acciaio. La luce sulla lava pare fermenti.
In uno di questi meriggi, Trampolini, come al solito, passeggiava sul marciapiede inombrato.
Tutti sanno che il mio maestro è vecchio, e che i suoi occhi, da sessanta anni aperti sul mondo, sono ora deboli e chiedono l'aiuto di fortissime lenti. Pochi sanno che, anche attraverso le lenti, il mio maestro non riesce a distinguere bene le cose lontane. Egli ha rinunziato, con molta eleganza, alle stelle, alle nuvole, ai campanili. Il mondo s'è fatto così più raccolto e più piccolo intorno a lui.
«Del resto,» egli dice «è inutile guardare le cose inafferrabili. La sproporzione fra la portata della nostra vista e quella della nostra mano fa nascere le chimere e provoca le grandi disillusioni. Con l'accorciarsi della mia vista, io ho ristabilito l'equilibrio nei miei desideri e circoscritto il campo della mia inquietudine.»
Ad ogni modo, in quel meriggio di luglio, Trampolini passeggiava col cappello fra le mani e l'anima piena di idee così alate e inconsistenti che sembravano bei sogni.
Ed ecco, sullo sfondo della via, apparire un che di bianco e di morbido: un sorriso di donna più che una donna sorridente.
«S'avanza una divina fanciulla» mormorò Trampolini.
A quella distanza, il mio maestro non suole mai vedere. Ma egli dice che noi possediamo un sesto senso, che ci fa cogliere la bellezza femminile. Noi avvertiamo spesso, anche senza voltarci, che una bella donna si appressa. Noi sentiamo, attraverso una sorda parete, che la nostra vicina è una bella vicina.
Con questo organo, Trampolini notò la presenza della divina fanciulla. E quanto stava per nascere, lentamente, di sogni, di pensieri, di armonie, nella sua anima, nacque di colpo, con bocci e scoppi violenti. La giovanetta si appressava rapida... Egli abbassò gli occhi, come un timido poeta, e fu avvolto in un'onda di profumo e di amore, in cui perdette uno dei sensi (quello della direzione) e sbatté contro la passante.
Chiese scusa, con molta galanteria, curvandosi per raccogliere le lenti cadute. Udì, nell'ombra confusa in cui s'erano oscurate tutte le cose, un largo riso impertinente.
Egli tornò a chiedere scusa, brancolando per ritrovare lo spettacolo di quella bellezza, smarrito con gli occhiali.
«È inutile che facciate tanti inchini» disse la donna. «Vi ho già perdonato.»
«Signorina, io vi ringrazio, ma non mi sono ancora perdonato io...»
E giù inchini, che erano in verità tentativi inutili per rintracciare le lenti.
«Io comincio a sospettare che voi siate un furbo...»
«Qualsiasi sospetto io merito, o divina giovinetta.»
«... e che voi restiate così curvo per guardarmi le gambe.»
Vibrò nella sua anima, il professor Trampolini, e sentì già di amare quella fanciulla invisibile, di cui sentiva la voce e il riso vicini.
«Signorina,» egli disse «io non dimenticherò mai questo incontro e benedico l'urto che vi ha fermata.»
«Fatevi coraggio, amico mio: voi potrete rivedermi.»
Il sangue gli cadde dal volto. Dei sessanta anni, che aveva, non gliene rimasero che venti, nel cuore tremante.
«Voi dite la verità?» e trovò gli occhiali.
«Abito in via Gazometro, numero...»
Trampolini finì di inchinarsi. Inforcò gli occhiali e... tornò vecchio, sfiduciato, coi suoi mille acciacchi: si trovava dinanzi a una cinquantenne cortigiana, sul cui letto era salita più gente nuda di quanta non ne scendesse, in quel momento, nel Jonio.
«Sì!» disse con un fil di voce. «Verrò a visitarvi.»
E continuò a passeggiare finché non si imbatté in me, suo discepolo.
Lo vidi triste, mi condusse nel giardino Bellini e mi narrò l'accaduto.
Il sole trapassava l'albero, sotto il quale eravamo seduti, con violente lame di luce.
«Gli occhiali,» disse il mio maestro «hanno ucciso il mio sogno.»
«Vi hanno, però, salvato da un inganno, illuminando la verità.»
«Ci sono due verità, caro figliolo; una del sogno e una della scienza. Quest'ultima ha sulla prima la superiorità innegabile di essere crudele e di farsi cercare, prima di rivelarsi...»
«Ma voi, perdonatemi, non sognavate in quel momento: soltanto vedevate male, creando dei malintesi fra le cose e la vostra coscienza.»
«Malintesi? E non sono tutte le nostre gioie basate su dei malintesi e su degli errori? La bellezza di questo paesaggio, che digrada verso il lido, è fondata sopra un errore ottico, che mi fa vedere le cose lontane più piccole, mentre, in verità, esse non lo sono. La donna, questo divino argomento, è un malinteso. Noi non abbiamo mai potuto giudicarla serenamente. Nessuno, neppure il misogeno più accanito, l'ha contemplata con serenità scientifica. Lo sguardo, il tatto, l'olfatto, l'udito, che sono i mezzi dell'esperienza e i tentacoli del pensiero, sono stati sempre alterati dalla sensualità, nell'attimo in cui ella passava dinnanzi all'uomo.»
«Maestro, voi siete molto malinconico. Ma io ringrazio Iddio, che vi ha fatto ritrovare gli occhiali.»
«Io non lo ringrazio. Ho perduto per sempre una giovinetta, che avevo creato con un po' di abbaglio solare, con un confuso ammasso di linee e con il bisogno di una bella fanciulla, che avevo nell'anima.»
«Occorre che i nostri sensi siano imprecisi e deboli, perché si intensifichi la nostra vita interiore. Noi abbiamo dei sogni che cercano di concretarsi in fatti. Quando la realtà è troppo precisa, essi sono costretti a perire. È bene, dunque, che noi siamo un po' sordi e un po' ciechi, per vedere e per sentire quello che vorremmo. Tutti gli inganni sono a nostro favore.»
«Non per nulla, disinganno è una triste parola.»
«La scienza, coi suoi strumenti che rafforzano i nostri sensi e sostituiscono le illusioni con le cognizioni, non fa che disingannarci; uccidere, cioè, la nostra vita inferiore e liberare il mondo dal nostro dominio.»
Il mio maestro s'era alzato e pareva torreggiare il paesaggio.
«Più nobile e più grande di colui che precisa i sensi è colui che li offusca; più umanitario di Galilei, che trovò le lenti, è il Centauro, che trovò l'inebriante succo della vite, che fa vedere doppio.»
«Maestro, voi avete messo le dita in una piaga dell'umanità.»
«Piaga, figliolo, vera piaga. Nei tempi in cui ero miope e non portavo gli occhiali, vedevo sui balconi magiche figure e credevo che tutte le donne mi sorridessero. Il nostro pensiero è ottimista, quando può giudicare indipendentemente dai sensi.»
«È vero! È vero!»
«Io veggo già un'epoca di felicità, in cui gli uomini avranno spezzato tutti gli strumenti della scienza e indebolito il loro sguardo, il loro udito, il loro olfatto. Nel crepuscolo soave di tutte le cose, nel "pianissimo" di tutte le voci, quando nulla avrà contorni e certezza, e l'anima sarà libera di vedere una fanciulla in una vecchia, il mondo diverrà sereno e pieno di incantesimi.»
«O maestro, o divino maestro!»
«Ed io, come precursore dell'epoca di cui sono stato il profeta, comincio col darne l'esempio.»
E spezzò gli occhiali con ira, e se ne andò pei viali, urtando contro gli alberi e calpestando il piede a un tenente di cavalleria, che poi lo attese in un luogo solitario, e lo schiaffeggiò.

Vitaliano Brancati  (Pachino 1907 - Torino 1954)

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Sicilia, terra di grandi scrittori.

martedì 5 marzo 2019

Distribuzione del reddito e del lavoro


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Da quando in Italia abbiamo un Governo cui partecipa il M5S – forza politica che io ho votato con una certa convinzione, ma ancor più per la mancanza di una credibile alternativa di sinistra - sento ogni giorno discutere sui media e sui social dei tre provvedimenti sui quali questo movimento politico e la Lega hanno imperniato la loro azione: il reddito di cittadinanza, l’età di pensionamento e l’immigrazione.
Sono problemi di cui ho già parlato ampiamente in precedenti articoli del blog. Solo che in quel periodo si trattava di semplici ipotesi di lavoro, mentre ora siamo chiamati a valutare precise disposizioni legislative. La qual cosa mi induce a riprenderli e a fare delle rapide puntualizzazioni.

1) Confermo la mia piena condivisione dell’idea che, oggi come nel 1929, viviamo una crisi di sovrapproduzione - così come preconizzata teoricamente da Marx già nel XIX secolo – e che per superarne gli aspetti socialmente deleteri (disoccupazione e povertà di larghi strati della popolazione) si debbano riprendere le misure keynesiane adottate da Franklin Delano Roosevelt negli Stati Uniti a partire dal 1933. (V. recensione del film “Furore”, qui pubblicato il 5 gennaio 2012).
Per uscire dalla crisi occorre che cresca la domanda globale di beni e servizi, e il reddito di cittadinanza sostenuto dal M5S va in questa precisa direzione. Anche se la Germania, in virtù delle sue esportazioni sembra per ora non risentire della stasi della domanda interna e impone a tutti i partner europei precisi limiti alla spesa pubblica, questa è la strada da percorrere.
Si sa però che ‘c’è una misura in tutte le cose’ (est modus in rebus) e, secondo questo principio, il decreto approvato dal Governo ha forse sbagliato in una cosa non di poco conto. Se gli attuali salari di larghe fasce di persone occupate si aggira sui 900-1000 euro mensili, non si possono dare 780 euro – sia pure limitatamente a 18 mesi – a coloro che non hanno lavoro.
Proprio per questo motivo nell’articolo ‘Reddito di cittadinanza’ del 15 marzo 2013 (*) avevo proposto un reddito minimo di sussistenza di 500 euro. Una maggiore prudenza nella determinazione dell’importo, pur assicurando ai disoccupati vecchi e giovani l’eliminazione della povertà assoluta, avrebbe ridotto l’impatto sui conti pubblici, avrebbe evitato contrasti troppo forti con gli altri Paesi europei e stabilito un rapporto più equo fra chi tutte le mattine va a lavorare e chi – pur cercando disperatamente un lavoro – è costretto a rimanere a casa. Con questa correzione, chi lavora disporrebbe comunque di un reddito che è il doppio di chi è in cerca di lavoro, e ciò eviterebbe la ‘convenienza’ di persone poco scrupolose ad approfittare del giusto provvedimento.
Plaudo, nonostante questo errore, all’azione del giovane capo del M5S (mi stupisce molto l’intelligenza e la lucidità di questo ragazzo di 31 anni!), perché con questo decreto passa un principio che nessuna forza politica d’ora in avanti potrà più trascurare: nelle società industrializzate e informatizzate la povertà assoluta dei disoccupati è inaccettabile sotto il profilo morale e… pericolosa sotto il profilo sociale.
Per molte delle mie considerazioni, attuali e anteriori, su questo problema sono debitore ai principi keynesiani e alle preziose indagini sociologiche del Prof. Domenico De Masi.

2) Sull’età di pensionamento avevo esposto le mie idee in un articolo pubblicato su questo blog il 7 ottobre 2012 dal titolo “Lavoro; strategie a confronto“. Riassumo, in modo grossolano: anticipando il pensionamento da 60 a 50 anni lo Stato dovrebbe annualmente rifondere all’Inps delle cifre insostenibili per i conti pubblici e, per contro, spostando il pensionamento da 60 a 70 anni, diminuisce il turn over dei lavoratori accentuando la crisi occupazionale.
Aggiungo oggi però che non si può stabilire un’età di pensionamento per tutte le categorie. Nei lavori creativi si può, e si vuole, andare avanti il più possibile - e il nostro Camilleri, pur novantenne e ormai cieco, non vorrà mai smettere di scrivere - mentre l’operaio, che sta per anni dietro una macchina, o l’insegnante, che sta per anni davanti a 25 testoline agitate dalle tempeste sentimentali e ormonali, giunto a 60 anni normalmente… non ne può più.
Cosa ancora più importante è che il passaggio dall’attività lavorativa alla quiescenza non dovrebbe essere istantaneo (fino al giorno x e poi basta) ma graduale. Se a 50 anni si lavora tranquillamente per otto ore al giorno, a 60 si potrebbe lavorare per 6 ore al giorno, a 65 per quattro ore al giorno e a 70 per due ore al giorno. Dopo i 70 anni decida lui… in base alla passione e al suo personale stato di salute.

3) Anche per l’immigrazione ho già detto che è una questione di misura: l’Italia può accogliere 20.000 immigrati l’anno e integrarli come si deve, con un lavoro dignitoso ed equamente retribuito, in modo da non incidere sul livello generale dei salari. Non ne può invece accogliere cinquecentomila l’anno, perché questi si sommerebbero ai 5.000.000 di poveri, incrementando a dismisura quello che Marx chiamava ‘l’esercito industriale di riserva’. Detto esercito è funzionale alla massimizzazione dei profitti degli imprenditori, ma non al popolo.
Sugli effetti dell’esercito industriale di riserva io ho denunciato soprattutto la delocalizzazione (l’impresa va dove il costo della manodopera è molto più bassa), mentre il Prof. Diego Fusaro ha concentrato la sua attenzione proprio sulle cause e gli effetti della immigrazione. Ma, come argomentato da entrambi - lui ad alto livello in tv e nei convegni ed io in questo modesto blog – delocalizzazione e immigrazione sono facce della stessa medaglia, che implicano lo sfruttamento cinico dei lavoratori.



(*) “Bisognerà anche affrontare il problema del ‘quantum’. Se oggi il salario medio netto di un lavoratore è di 1.000 euro e la stessa somma dovesse essere pagata dalla collettività a chi per motivi soggettivi o oggettivi resta inattivo, non ci sarebbe più alcuna spinta a cercare lavoro. Teniamo anche presente che l’elevato tenore di vita di cui si è goduto in Italia dagli anni Settanta in poi, ha abituato le nuove generazioni a una certa mollezza nei costumi e che comunque, se si può avere un dato reddito anche non lavorando, anche fra gli adulti pochi saranno quelli che sceglieranno di sacrificarsi per esso. Un amico residente in Svizzera, dove i sussidi per le categorie disagiate sono presenti, mi raccontava di un suo conoscente che ha volontariamente lasciato il lavoro per dedicarsi ad attività… più piacevoli.
Penso che un sussidio di 500 euro mensili consentirebbe di far fronte ai bisogni primari e che il suo costo per il bilancio dello Stato sarebbe pesante ma in fondo sostenibile.”