Capita, capita a volte
di comprare un libro e di metterlo presto negli scaffali perché ad una prima
lettura non ci dice nulla. Magari arrivi a pagina 20 e dici ‘non ne vale la
pena’.
Capita però a volte
anche di ripescare quel libro dopo molti decenni, di rileggerne qualche pagina
e accorgersi di aver sbagliato. A me è capitato ultimamente con “Volete
andarvene anche voi?” di Luigi Santucci, comprato negli anni Settanta e
ripescato nel 2020.
Di libri e articoli sulla vita di
Gesù ce ne sono sicuramente decine o centinaia di migliaia. Alcuni cercano di
spiegare e commentare fatti e discorsi del personaggio, altri cercano di
scavare sulla storicità (o sul carattere mitologico) dei vangeli canonici,
gnostici e apocrifi. Alcuni seguono cronologicamente gli eventi esposti nei
testi, altri tentano – spesso invano – di ricavarne una dottrina unitaria, con
coerenza quasi filosofica.
Il testo in cui mi
sono imbattuto non ha nulla in comune con tutto ciò. E’ una semplice, ma bella,
riesposizione poetica dei brani più significativi dei vangeli canonici. Mentre
altri si lambiccano il cervello su ciò che è vero o falso, storico o
immaginario, giusto o ingiusto, e si inoltrano negli oscuri meandri
dell’esegesi, Luigi Santucci - sui personaggi, sulle parole e sui fatti narrati
dai quattro evangelisti - costruisce dei piccoli ma suggestivi racconti. Non va
alla ricerca di verità ‘estraendo’ dati, ma ‘aggiungendo’ ciò che il cuore e la
fantasia gli suggeriscono.
Ecco una bella pagina
su Giuseppe. I vangeli dicono poco di lui. Ma è possibile, in base ai pochi
fatti di cui è protagonista, tratteggiarne la figura semplicemente in modo
umano? Santucci ci prova!
<< Colui che c'interessa è Giuseppe. Giuseppe è casto,
nobile e falegname.
Casto. All'estuario di tanta fecondità, di tanti concepimenti,
un uomo che non feconda, che non concepisce: un uomo asciutto, la cui pelle
coincide col proprio pudore e le cui mani non hanno toccato che pane, legno,
cuoio, tessuto di vesti e cenere di focolare.
Nobile. Ma a nessuno degli antenati somiglia. La sapienza
di Salomone e l'ardimento di Davide sono colati, per le vene dei secoli, fino a
lui, ma egli li ha stemperati in una candida dimenticanza; e così la lussuria
d'Israele (quella che folgorò anche Salomone, quella che accecò anche Davide,
torva e meridiana), egli l'ha purgata in una verginità ch'è piuttosto
un'infanzia senza tramonto. Invecchierà così dentro quella fanciullezza come
in un involucro trasparente. Entrerà nel premio della vecchiezza regalmente
libero da ogni passione, senza screpolarsi al vento della virilità, sempre con
quel suo medesimo colore un po' anemico che ha la gente di bottega.
Perché Giuseppe è il falegname, è il faber lignarius. E
questo spiega tante cose. Il legno è materia nobile e strana; non è più terra,
e carne non è ancora; è come il latte, che non è sangue ed è già più che acqua.
Il legno è sensibile e casto, e Giuseppe esercitava la sua innocente sensualità
ripassando le palme aperte sulle assi denudate dalla pialla, carezzando gli
spigoli smussati al tornio e respirando dalle narici la fragranza dei trucioli,
quell'odore di fatica che, chiunque s'affacci dalla porta, fa alzar la fronte
sudata nella certezza che entri un amico. Il legno è bontà.
Colui che c'interessa è il falegname Giuseppe, eletto custode
nell'abisso dei cieli. Può custodire proprio perché è trasognato, può vigilare
perché è assorto, può diffidare perché ingenuo, guidare perché inesperto.
[Ma]…All'uomo più limpido è capitato l'incidente più
scabroso. “Maria... essendo
sposata a Giuseppe, prima che fossero venuti a stare insieme si trovò che aveva
concepito...”
Tutta la Giudea lapidatrice di adultere ruggisce intorno al
destino di Giuseppe, i polsi di questo giusto martellano, la sua mente è
smarrita. Lo scandalo, lo scandalo beffardo e crudele, in una terra che non sa
compatire e nemmeno sorridere, ma solo condannare.
Giorni tormentosi. La pena di Giuseppe non è il sentirsi
ludibrio d'una città puritana, non è il rancore del tradito né la nostalgia di
chi perde la donna del cuore. È la pena più alta di chi scopre fallibile la
creatura creduta migliore di tutte; un pudore di girar per le strade e una
vergogna dì rimanere in casa; l'affanno di chi vorrebbe perdonare e non gli è
lecito, e si dibatte fra l'orrore di far male a lei e l'arma del ripudio che la
società gli pone imperiosamente fra le mani perché difenda il suo onore.
…È solo coi suoi legni, nella penombra della bottega dove
tutto sembra immutato, ove corre la pialla e canta la sega mentre il dramma
gonfia nel cuore. E fra i suoi legni Giuseppe trova il buon compromesso: “Però
Giuseppe suo sposo, che era un uomo giusto e non la voleva diffamare,
risolvette di ripudiarla segretamente.”
Giuseppe, come le anime caste, sogna molto. I sogni di
queste creature diafane sono simili a una rugiada che benefica durante la notte
e soltanto il sole del mezzogiorno farà sparire del tutto. […]
Giuseppe sogna sempre, e appena prende sonno il suo respiro
ha la cadenza di un passo in contrade misteriose dove l'operaio è atteso ogni
notte, a vedere e udire. In queste notti invece ha sul petto un macigno, è un
dormire cattivo fra lagrime e smanie.
Ma ecco che per la benevolenza di un amico notturno
l'affanno si cambia in gioia, l'incubo si scioglie nella felicità che solo ci
può dare una condanna revocata, una ricchezza perduta e restituitaci intatta. “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con
te la tua sposa Maria; perché quello che è nato in lei è opera dello Spirito
Santo.”
Dunque sei pura: posso portarti nella mia casa.
…Invece addio Giuseppe, ingenuo fidanzato di Galilea: addio
al tuo sogno d'amore. Nel giubilo di quella notizia celeste ti sono rimaste
oscure le parole aggiunte dall'angelo: “... darà alla luce un figlio... egli
salverà il popolo dai suoi peccati”.
Tutta la tua vita da oggi sarà un lungo tacere, un lento
capire l'enigma di questa frase. Capire il senso della tua dura
predestinazione: su chi avevi alzato gli occhi di giovane popolano; con che
cosa sono state barattate le nozze che avevi sperato serene e oscure; chi ti è
entrato in casa... Capire la tua sposa, capire tuo figlio, capire te, Giuseppe,
che sarai - tu - il nostro primo santo.
Da questo momento non sapremo più niente di te. Ancora
poche pagine e non ti nomineranno più, il Vangelo ti ingoia. Intravvederemo
solo le tue mani sulla pialla, udremo il morso ovattato della tua sega, per un
numero d'anni che nessuno conosce. Poi ti ritroveremo sugli altari delle
chiese, nei quadri a capo del letto, nelle immagini dei devoti, canuto e
rugoso, come se davvero fossi stato sempre un vecchio; a noi piace dimenticare
che fosti, vicino a Maria, un giovane bello e forte: un giovane innamorato.
>>
* * *
I miracoli narrati nei
vangeli sono tanti. Sono credibili o si tratta di ‘strumenti’ mediante i quali venne
costruita una nuova religione, da accostare o contrapporre a quella del
Pentateuco?
Alla veridicità dei
miracoli Santucci non vuole fornire alcuna prova, né a favore né contro. Vuole
– come poeta o forse come psicologo – dimostrare la necessità umana di sperare nei
miracoli. Ed ecco un’altra sua bella pagina, dalla quale spero emergano le grandi
qualità di uno scrittore ingiustamente tenuto in ombra.
<< Non c'è niente di così estraneo, inesplicabile ed
insopportabile per l'uomo quanto la natura che lo fascia con le sue leggi, la
causalità torpida e massiccia che c'imprigiona in ogni istante, che fa cadere
il sasso lasciato dalla mano, fermare il cuore di chi amiamo solo perché questa
macchina di carne si è rotta in qualcuno dei suoi stupidi ordigni.
Non è vero che il mondo è già tutto un miracolo — la luna
che spunta, il seme che si fa pianta, la formica che ammassa le provviste per
l'inverno. Ciò alcuni dicono per un gretto puntiglio, per un empio equivoco e
mentiscono. Questo mondo è meraviglioso ma non fa ancora per noi. Noi siamo
nati per un mondo dove le formiche parlino, il seme di magnolia faccia nascere
gazzelle, la luna cada nel pozzo come nelle metafore dei poeti.
Non c'è un uomo, fra tutti quelli che respirano in questo
momento sotto il cielo, che non abbia il miracolo da chiedere, che non aneli un
miracolo. Oggi più che mai noi moriamo di questa sete. Nel nostro tempo riddano
a migliaia i prodigi della scienza. Ognuno di essi, più è complicato e
strabiliante, più ribadisce in noi l'umiliazione che non sappiamo fare
miracoli, solo ricamare abilmente i fili di questa maglia di leggi con cui la
natura c'irretisce. Guidiamo cascate gigantesche, ma non possiamo far cadere
una sola goccia di pioggia; sentiamo le voci di chi ci parla dalla luna, ma non
percepiamo la voce dei nostri morti che ci toccano mentre ci crediamo soli.
Ogni miracolo dell'uomo sta chiuso e spiegato in una bobina
cilindrica, in una provetta di vetro; ma nelle favole della nostra infanzia non
c'erano bobine, non c'erano provette: il ranocchio si trasformava nel
bellissimo principe solo perché la reginotta si chinava a baciarlo. Così anche
l'uomo che ha tutto invoca il miracolo perché il miracolo, prima di un soccorso
benefico, prima di un dono utile e risolutivo contro la pena, è l'ebbrezza dell'infanzia
che torna a incantarci, la rivincita di quella prima saggezza innocente sulla
bugiarda sapienza di poi. È la bandiera della patria che sventola in terra
straniera sulla pietraia dei giorni non nostri, con dipinto il castello dove
siamo nati per miracolo.
Il Vangelo è il campo dei miracoli. Non passa quasi giorno
di quei mille che vanno da Nazaret al calvario, non si volta quasi pagina senza
che il frullo di questo evento terribile vibri sulle sventure degli uomini che
conobbero Gesù e lo supplicarono.
Pure, una cosa appare subito chiara: che dei
miracoli Cristo fu nemico. “O generazione
malvagia e adultera, se non vedete prodigi voi non credete...”. Quale più
quale meno, tutti i miracoli gli sono estorti, ora strappati alla sua pietà ora
carpiti alla sua condiscendenza, perfino rubati con l'astuzia. E ogni volta che
uno ne concede noi sappiamo che quel cieco che apre gli occhi, quello storpio
che getta le grucce, quel morto che risuscita non è il vero miracolo se non per
noi. Per lui il miracolo è l'altro, quello che dovrebbe sgorgare di
conseguenza, per ottenere il quale ha ceduto a farsi stregone e che invece gli
riesce solo raramente: la fede. "Perché
voi crediate... io dico a te, levati, prendi il tuo lettuccio..."
"Credete che io possa fare questo? Vi sia fatto conforme alla vostra
fede" "Se puoi credere, ogni cosa è possibile a chi crede"
"Alzati, va', la tua fede ti ha salvato". >>
[…]