mercoledì 1 luglio 2020

Enrico Berlinguer: L'austerity

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Una mia rielaborazione sintetica dei due discorsi tenuti da Enrico Berlinguer a Roma (Teatro Eliseo, 1977) e Milano (Teatro Lirico, 1979) sul tema dell’austerity.
c.m.

[...] “Una trasformazione può essere avviata solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. Ciò comporta l’abbandono dell'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato sull’artificiosa espansione dei consumi individuali, che è fonte di sprechi, parassitismi, privilegi, dissipazione delle risorse e dissesto finanziario.
Una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è pertanto divenuta la leva su cui premere per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base. Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, essa deve invece avere come scopo quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta certe rinunce e certi sacrifici diviene un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, e crea nuove solidarietà.
[...]
L'austerità è un imperativo a cui oggi non si può sfuggire. Certe obiezioni di qualche accademico ignorano dati elementari del mondo e dell'Italia di oggi. Questi dati sono: l'avanzata dei popoli del Terzo mondo, che rifiutano le condizioni di sudditanza e d'inferiorità e che sono state una delle basi fondamentali della prosperità dei paesi capitalistici sviluppati; in secondo luogo, l'acuita concorrenza, la lotta senza esclusione di colpi fra gli stessi paesi capitalistici, della quale fanno sempre più le spese i paesi meno forti e sviluppati, fra i quali l'Italia; infine, la manifesta insostenibilità economica e insopportabilità sociale delle distorsioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della società italiana negli ultimi venti anni. 
Da tempo cerchiamo di far prendere coscienza di questi dati oggettivi, tuttavia ancora oggi molti non si sono resi conto che adesso l'Italia si trova - ma io credo, prima o poi, anche altri paesi economicamente più forti del nostro si troveranno - davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell'imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli in un'iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà, che sia dunque non una sconfitta ma una vittoria dell'uomo sulla storia.
Ecco perché diciamo che l'austerità è, sì, una necessità, ma può essere anche un'occasione per trasformare l'Italia. Per definizione essa comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. 
[...]
La politica di austerità può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. 
"Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari.”

La trascrizione di parte dei due discorsi originali di Enrico Berlinguer sono reperibili sul primo dei due articoli contenuti nella pagina web https://www.sitocomunista.it/PCI/documenti/berlinguer/austerit%C3%A0.htm

venerdì 8 maggio 2020

Covid 2020: Correlazione fra Pil pro capite e contagi


“La Statistica non è tanto una scienza a sé, quanto il metodo del calcolo numerico applicato a tutte le scienze” diceva Gaetano Mosca nei suoi “Elementi di Scienza Politica”.
Il contributo di questo utilissimo metodo è stato minimo, e comunque di pessima qualità, in questo periodo di epidemia da Coronavirus in Italia. I dati ufficiali forniti dalla Protezione civile alla popolazione assetata di informazioni sono consistiti unicamente nell’arida elencazione di numeri assoluti, scarsamente significativi e difficili da capire e ricordare. Eccone un esempio nella tabella che segue.

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La tabella è esaustiva, ma non c’è la minima elaborazione statistica. Manca un qualunque criterio nel mettere in ordine le regioni e manca un qualunque indice che permetta di confrontare i dati.
I voti e i sondaggi politici, i dati sull’economia, quelli sulla demografia ecc. si esprimono in genere con delle percentuali, qui nulla di tutto questo. E allora, per ‘migliorare la nostra ignoranza’ (secondo la simpatica espressione di Nino Frassica) mi sono messo al lavoro non retribuito ed ho cercato di schiarirmi e possibilmente schiarire le idee sul problema.

1) Ho innanzitutto cercato di rapportare il numero di contagi alla popolazione residente nelle varie Regioni. Che senso ha dire che in Lombardia ci sono 75.134 contagi e in Valle d’Aosta 1.124? Vuol forse dire che Valdostani stanno meglio? No, perché, se rapportiamo quei numeri assoluti alla popolazione, ci accorgiamo che nella Valle d’Aosta ci sono 894 casi di contagio ogni 100.000 abitanti e in Lombardia 747. Se questi dati sono un po’ più significativi di quelli somministrati dal gelido, e forse anche equivoco capo della protezione civile (a Report lunedì 4 maggio si è parlato di certificazioni di mascherine non sicure!), forse valeva la pena di rifare i calcoli per tutte le Regioni. Il lavoro non è creativo né remunerativo, ma il pensionato deve pur meritarsi la pensione, e poi cosa fa in casa col Covid tutto il giorno?

2) Come si vede nella colonna in rosso, i decessi per Covid sono stati 1.437 nel Veneto e 1.152 in Liguria, dunque il Veneto sembrerebbe essere messo peggio. Ma non è così, perché in Liguria ci sono stati 14,5 decessi ogni 100 contagiati e nel Veneto solo 8. La sanità ha quindi funzionato molto meglio. E’ importante o no saperlo? Anche in questo caso forse non è inutile calcolare questi indici per tutte le Regioni.

Ecco allora qui di seguito una tabella che - rispettando un preciso ordine decrescente delle Regioni in base al prodotto interno lordo pro-capite - riporta nelle colonne 3 e 6 gli indici relativi ai casi di contagio ogni 100.00 abitanti e la percentuale dei decessi in base al numero dei contagi. 

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Osservando i dati forniti dalla protezione civile, vediamo che la diversa misura del contagio nelle varie Regioni non viene messa in relazione con alcuna possibile causa. In TV invece le ipotesi degli esperti (alcuni dei quali senza falsa modestia si autodefiniscono ‘scienziati’ anche se non si sa cosa abbiano scoperto) abbondano. In Lombardia – dicono - il contagio è maggiore perché c’è stato il PRIMO FOCOLAIO; in Veneto c’è stato un focolaio nello stesso periodo, ma è stato frenato per una diversa impostazione nei CONTROLLI e nella TERAPIA SANITARIA; le Regioni del sud hanno avuto minori contagi per la LONTANANZA DAI PRIMI FOCOLAI.
Da tre mesi illustri virologi alternano dubbi a speranze e propongono spiegazioni incerte e suggerimenti terapeutici contraddittori per debellare il virus; i tempi previsti per il controllo del contagio variano da due mesi a due anni; non si sa se l’immunità per anticorpi o vaccini è garantita a vita o vale solo per un periodo limitato; in poco tempo tutti avranno le mascherine, ma poi si scopre che molte di esse non proteggono dal virus; queste mascherine evitano di contagiare gli altri, ma non evitano di essere contagiati dagli altri. Forse ha ragione chi dice che ‘la medicina non è una scienza ma un'arte’. Non c’è certezza del domani, ma neppure di ciò che sta succedendo oggi.
Il Governo Conte ha saggiamente condizionato la normativa ai consigli di questi esperti, ma essi hanno saputo dare una sola indicazione certa: per evitare il contagio è necessario stare a casa. Ma a questo il Prof. Conte, con la sua intelligenza e la sua prudenza, forse ci sarebbe arrivato anche da solo.

In mezzo a questo guazzabuglio cosa può fare un profano di virologia, immunologia, dna, plasma, vaccini ecc.? Per identificare la causa (più probabilmente le concause) dell’epidemia, può solo giocare a fare qualche ipotesi, che è il primo passo di ogni ricerca. Quella che io azzarderò è probabilmente banale e priva di effetti utili nel breve periodo, non sarà però né assurda né nociva.
Tutti ormai sanno che al nord il contagio è alto, al centro è medio e al sud molto più basso. E’ una questione di latitudine? Di clima? Di inquinamento? Di densità di popolazione? Di stile di vita (spostamenti per lavoro e divertimento)? Presa isolatamente nessuna di queste specifiche ipotesi ha trovato un supporto nei dati e, allora, per trovare un fattore che rispondesse a uno o più di questi interrogativi, ho provato a utilizzare gli indici statistici prima menzionati. 
Risultato: questo virus attecchisce dove più alto è il Pil, cioè la ricchezza ('figlia' di industrie e commerci e 'madre' di consumi, luoghi di ritrovo, case di riposo per anziani ecc.). L’ipotesi non scaturisce solo da come vedo piazzate le Regioni italiane, ma anche dalla diversa misura in cui il virus ha trovato terreno fertile in tutto il mondo: alta negli Usa ed Europa, più bassa in Africa, Asia e nell’America latina.

Per avere una conferma di ciò, almeno per quanto riguarda l’Italia, ho fatto ricorso all’INDICE DI CORRELAZIONE fra ‘Prodotto interno lordo pro-capite’ e ‘Numero di contagi/100.000 abitanti’. Tale indice può variare tra i limiti di 'zero' (tra le due variabili non c’è alcuna correlazione) e 'uno' (correlazione massima). Nel caso in esame esso risulta essere di 0,80 (che possiamo intendere più prosaicamente come l’80%), il che vuol dire che, anche in presenza di eccezioni (valori che si discostano dalla norma statistica), un nesso certamente esiste.
A questo fine ho tracciato, e riportato qui di seguito, un grafico che presenta la dispersione delle varie Regioni secondo le due variabili citate e inoltre una linea di interpolazione che ne dimostra l’andamento in modo più significativo. Sulle Regioni che hanno un tasso di contagio che si discosta in una certa misura da quello della linea di interpolazione (Lazio, Piemonte, Liguria e Val d’Aosta) si può discettare a lungo, ma sulla sostanziale correlazione fra Pil e contagi io ho pochi dubbi. A questo virus piacciono i paesi ricchi.
E quale sarebbe allora la terapia suggerita in base a questa conclusione? Proprio quella che i governanti di tutti i Paesi aborrono: una minore enfasi sulla crescita economica e uno stile di vita più sobrio. In fondo, in questi mesi, tutti abbiamo sperimentato i vantaggi psicologici nel cessare una inutile rincorsa ai consumi; gli unici a soffrirne sono stati coloro che sul consumismo hanno basato le loro fortune.
Nei prossimi giorni (o nelle prossime settimane, secondo il tempo disponibile e la pazienza) cercherò di vedere se si trova conferma statistica della correlazione fra pil e contagi anche attraverso l’analisi di un campione di Stati europei e di altri continenti.

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mercoledì 15 aprile 2020

Visualizzazioni del Blog: 100.024


Ieri apro il blog e, a fondo pagina, trovo il numero di visite raggiunto. Il calcolo è fatto direttamente da Blogger.com e mi dà 100.024 visualizzazioni. Confesso di esserne contento; quando iniziai dieci anni fa, a dicembre del 2009, non ci speravo assolutamente.
So che le visualizzazioni non corrispondono sempre a letture attente e complete. Tante volte io cerco qualcosa sul mio motore di ricerca e, prima di trovare la pagina giusta, ne devo visitare tante altre inutili. Tuttavia il dato mi sembra abbastanza significativo e gratificante.
Fra i 138 articoli finora pubblicati ci sono argomenti di vario genere - sociologia, economia, politica, letteratura, cinematografia - tutti però trattati da una particolare angolazione, quella sociologica. Poichè, dopo gli studi accademici di questa disciplina, la vita mi aveva portato verso un lavoro diverso da quello sperato. che era il giornalismo, una volta andato in pensione il blog mi riportava alle mie antiche passioni.
Fra le tante cose scritte ce ne saranno anche di sciocche o banali, ma tanti articoli sono il frutto di studi e indagini laboriose, corroborati dai dati disponibili sui miei libri o sul web o da me elaborati o rielaborati. In media fra la scelta dell'argomento da trattare e l'inizio delle ricerche passavano alcuni giorni, e molti altri giorni passavano per le indagini e la prima stesura del lavoro. Altri ancora ne passavano per la sistemazione e la limatura dell'articolo definitivo. Qualche oretta è stata impiegata persino per la ricerca di una immagine che precedesse ogni articolo e ne desse una sia pur approssimativa idea.
Centomila visite per 138 articoli mi dà una media di 725 per ognuno di essi, ma la media, come si sa, è un semplice valore statistico. Vi sono ovviamente articoli con più ridotto numero di visite e si tratta soprattutto di quelli iniziali (quando il blog era poco visibile sui motori di ricerca) e di quelli degli ultimi due anni, nei quali ho cominciato a pubblicare molto meno regolarmente. Fra il 2012 e il 2018 il counter segnava invece molte visite e oggi evidenzia - come risulta dalla tabella che segue - molti post con un cospicuo numero di visualizzazioni.

(Per una migliore lettura cliccare sull'immagine)

Da un mese, come tutti gli Italiani, rimango a casa per evitare il contagio dal Coronavirus. E' una condizione preoccupante e deprimente, ma per fortuna c'è sempre qualcosa che ci fa ben sperare e quel numerino in fondo al blog dà anche un certo conforto. 
Ringrazio coloro che hanno voluto riprendere alcuni articoli per riproporli in versione cartacea (ad es. la rivista “Indipendenza” e il giornale locale “La voce”) o su altri blog (ad es. Fisicamente.net dell’amico Roberto Renzetti, Unicobas.it, Traccesent.com, Merylho43.wordpress.com della carissima amica Marisa Bonsanti) e coloro che hanno segnalato il loro gradimento per gli articoli da me sporadicamente proposti ai miei amici di facebook.

Tutti gli articoli presenti sul blog in ordine cronologico fino al 2018 sono stati raggruppati in ordine sistematico e pubblicati in tre volumi liberamente scaricabili in pdf dal sito 'archive.org' alla pagina https://archive.org/details/@cataldo_marino

Cataldo Marino



martedì 31 marzo 2020

Luigi Santucci: Come un carro ribaltato


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Sono intervenuto in questi giorni sul post di un amico di facebook citando gli ultimi due articoli del mio blog.
In realtà non si trattava di due veri articoli, perché di mio c’era ben poco. Mi ero limitato a pubblicare due brani del libro “Volete andarvene anche voi?” di Luigi Santucci, una ‘storia di Gesù’ basata acriticamente sui vangeli, liberamente riplasmati da questo scrittore del Novecento.
I miei interlocutori non hanno purtroppo colto questa mia premessa e si sono avventurati sulla strada della cristologia: Gesù non è una figura storica ma un semplice mito.
Sì, ho letto anche io nella “Breve storia della religione” di Ambrogio Donini questa tesi, storiograficamente condivisibile. Ma sono rimasto un po’ infastidito dai pregiudizi anticristiani di questi amici.
Ad essi dico, qui, ora, che pur se Gesù non fosse mai esistito, esiste il messaggio contenuto nei vangeli, pagine scritte chissà quando, chissà dove e chissà da chi, ma che esistevano e rimangono tuttora vive. E quel messaggio ha contagiato nei primi secoli dell’era volgare una gran massa di gente disperata. Poi questi seguaci – dando conferma, come sempre, delle leggi sociali della circolazione delle élite - si sono dati una struttura verticale, si sono inseriti nella vita politica e nella storia profana, ma inizialmente, in virtù di quel messaggio, avevano dato vita ad una forma di comunitarismo non molto dissimile, nei fini, da quello proposto nell’Ottocento per il riscatto delle classi sociali svantaggiate e oppresse.
In ‘Atti degli apostoli” (4:32-35) è scritto: “La comunità dei credenti viveva unanime e concorde, e quelli che possedevano qualcosa non lo consideravano come proprio, ma mettevano insieme tutto quello che avevano. Gli apostoli annunziavano con convinzione e con forza che il Signore Gesù era risuscitato. Dio li sosteneva con la sua grazia. Tra i credenti nessuno mancava del necessario, perché quelli che possedevano campi o case li vendevano, e i soldi ricavati li mettevano a disposizione di tutti: li consegnavano agli apostoli e poi venivano distribuiti a ciascuno secondo le sue necessità.” (Paolo di Tarso correggerà poi il tiro, dicendo che ognuno deve vivere del frutto del suo lavoro, ma lo disse due decenni dopo la morte di Cristo, e dei primi cristiani fu persecutore).
Nel capitolo qui proposto Santucci riprende l’aspetto rivoluzionario del mito cristiano, commentando da par suo ‘Le beatitudini” dei poveri e l’amaro destino dei ricchi.
come un carro ribaltato.

c.m.

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Finché un giorno questa sua voce ha riempito di gente una montagna. È la montagna di Tabha, appena una gobba davanti al mare di Tiberiade. Ma quel giorno (un giorno ventoso e imprevedibile) quella montagna si fa alta, non è più di terra e sassi ma è una montagna di uomini e donne che l'affollano, la rigonfiano in un centuplicato volume, vi fanno grappolo verso le nubi come un favo di api brulicanti.
Tutti gli uomini del mondo, vivi morti e nascituri, venuti lassù per una precisa questione che attende una risposta. Presi uno per uno, essi non hanno minimamente l'idea di quale sia la questione; nessuno, chiamato fuori del suo bivacco da chi gli dicesse "domanda la cosa che ti preme", saprebbe aprire bocca. Se mai, interpellati personalmente, Isacco, Miriam, Levi balbetterebbero che hanno un'ulcera, un tumore, un erpete da farsi togliere; per questo si sono arrampicati sul monte; per questo, come le altre volte, tutta la moltitudine cercava di toccarlo. Ma radunati così tutti insieme, il loro bisogno è un altro, un'altra la loro curiosità. Quale sia l'interrogativo che hanno da porre a Gesù, essi stessi lo ignorano. Ma lui lo sa bene, e oggi risponderà. Essi vogliono sapere della felicità: se esiste, cos'è, per chi è, perché la covano talmente e in ogni ora dentro i loro pensieri, cosa si debba fare per raggiungerla.
Allora Gesù si pone a sedere, non fa miracoli sulle gambe ciondolanti e sulle pustole di lebbra, oggi, ma tenta il miracolo sui destini di questo immenso popolo. Apre la bocca e insegna la felicità: «Beati...».
I ruscelli dentro la roccia, i prati di trifoglio lucidati dal vento, le nuvole che scendono a impigliarsi sui faggi sembrano in ascolto non meno del cammelliere, della vedova, del ragazzo con le lentiggini.
Beati chi? Si parla già di gente felice? Non ci sono preamboli a questo discorso, approcci e distinzioni filosofiche, qualche raziocinante cautela? Non ci sono. «Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli... Beati i mansueti, perché possiederanno la terra...»
Fra i poveri, ha cominciato da questi: penso che i “poveri in spirito” siano quelli che non credono in se stessi, i prigionieri di un'inguaribile timidezza, gli uomini che non hanno fantasia per progettare un domani migliore né personalità per realizzarlo. Sono i più poveri; sono solo i signori della speranza, ma di una speranza incorporea ch'essi non sanno legare a nessuna scadenza. Sono i silenziosi che vivono senza toccare nulla, neanche col desiderio; solo, frequentemente, mirano le nubi e l'azzurro perché sanno che il cielo è una cosa che non si contende a nessuno. E il cielo è per loro.
La terra invece ai mansueti. La possiederanno appena camminandoci, arandola per gli altri, andando a fare il soldato per gl'imperatori e morendoci sopra; e poi marcendo nel suo grembo dove li avranno seppelliti in fretta.
«Beati coloro che piangono, perché saranno consolati... Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia...»
Piangere è già una beatitudine. Ai suoi poveri, la consolazione Cristo la semina già nell'ora dei singhiozzi, quando il dolore brucia in cima come una candela e l'anima cola in gocce. Il piangere - solo il piangere - ci fa poi misericordiosi, ci fa provare pietà di noi stessi e degli altri; e quando siamo misericordia, finalmente fra Dio e noi non c'è più confine, la nostra acqua si mescola alla sua.
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio... Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio...»
Almeno il cuore resti puro, se la carne si contamina così facilmente nelle cose che le creature ci offrono. Se Dio non lo potrò abbracciare perché le mie mani non sono pure, almeno il mio cuore si salvi in una generosa innocenza perché io possa, dal più lontano spiraglio dell'infinito, vedere il suo volto.
E se di Dio vorremo essere chiamati figli, allora arruoliamoci nella schiera dei pacifici: che è una durissima milizia e tutto vuoi dire fuor che vivere in pace e disertare la lotta, ma battersi per la madre più minacciata e tremante, la pace. Colei che ci chiama Abele, che tutti ci vuole vivi e disarmati, a cancellare dalla crosta della terra il nome di Caino.
«Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia, perché di loro è il regno dei cieli... Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e vi perseguiteranno, e rigetteranno il vostro nome come abominevole, e diranno di voi ogni male per cagion mia...»
Soffrire per la giustizia: anche se la giustizia sembra il bene più irrinunciabile e l'ingiustizia il più insopportabile male? Beati anche questi? Come, quando? Sempre, subito; oggi, non domani. Giacché per costoro, come per i perseguitati a causa di Cristo, il Regno, il cielo è già intorno e dentro la vita. E se sarà splendida la loro eternità, di morire quasi non si accorgeranno, a essi il Padre non darà di distinguere con un taglio netto la beatitudine degli angeli e la beatitudine quaggiù dei loro giorni tribolati. Perché Gesù, ecco, oggi sulla montagna li chiama beati e si felicita con loro.

Oggi è un gran giorno, oggi bisognava fare qualcosa di grosso e d'immediato per questa sterminata gente che soffre e sogna la felicità. Bisognava capovolgere il mondo, metterlo come un carro di fieno a ruote in aria. E Cristo ha ribaltato il mondo. I piangenti, gli affamati, i poveri sono issati in trionfo, fatti oggetto d'invidia; i mansueti e i pacifici spadroneggiano e fanno bottino sulla terra strappata al nemico; e i perseguitati fanno tremare gli oppressori nel candido Regno atteso da mille e mille anni. Giustizia è fatta.
È fatta, nel mondo stravolto, la giustizia. E dalla montagna dei santi, come una cascata di lava, schiuma giù adesso per gli altri l'annuncio della desolazione: «Ma guai a voi, o ricchi, perché avete già la vostra consolazione... Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nella mestizia e piangerete... Guai a voi, quando tutti gli uomini vi applaudiranno...».
I ricchi, i ben pasciuti, i gaudenti, i vanitosi che Cristo maledice da questo monte non sono, grossolanamente, quelli che indugiano volentieri tra agi e gozzoviglie, tra feste e battimani. Ogni uomo ha inseguito queste cose, almeno per un attimo le ha possedute. Egli non è così ingenuo né così puritano. I dannati, gli esclusi oggi e sempre dalle delizie della montagna, sono coloro che dentro ai fumi di quelle passioni si separeranno dagli altri, giorno uguale a giorno, fino a farli soffrire e a scacciarli. Perché c'è un solo peccato ed è quello di non amare; una sola maledizione, l'egoismo; una sola parola proibita, la parola nemico. Perciò il discorso di Gesù continua. Sul prato di trifoglio, sul cammelliere, sul faggio e sulla vedova sono cadute quel giorno altre parole, perché ciascuno raggiungesse la beatitudine.
[…]
Luigi Santucci

sabato 14 marzo 2020

Luigi Santucci: Io e Nicodemo (Gv. 3,1-21)

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«Scritto e ripreso nel corso di lunghi anni, Volete andarvene anche voi? è una vita di Cristo scritta con una tecnica ardita, estremamente dinamica e imprevedibile, per permettere al suo autore d'immedesimarsi nelle vicende e nei personaggi del Vangelo con uno scandaglio totale, quasi come testimone fisico, in una continua tensione poetica ed emotiva dove la fede trionfa di stretta misura dopo una generosa e strenua battaglia. In queste pagine la vita di Cristo, superando l'agiografia e la narrazione dei fatti, tende a diventare una ‘summa’ di ragioni e di passioni umane. Alla fine, non altro forse che un'enorme metafora dei nostri sentimenti e del senso dell'Eterno. Volete andarvene anche voi?, travagliato atto di fede d'un uomo dei nostri giorni, è comunque un libro così lontano da ogni conformismo e devozionalismo apologetico, che un critico lo ha recentemente definito ‘una vita di Cristo anche per gli atei’».

(dalla Prefazione dell’Editore, 1969)
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<< Eccomi qui. Fra le tante figure sulla scena del Vangelo io sono probabilmente costui - anche se tante volte mi riconosco nel pubblicano, nella meretrice, nel lebbroso: il dottor Nicodemo: l'intellettuale petulante, quello che "si recò di notte da Gesù e gli disse...".
 Sarei andato di notte. Tante volte, quando non riesco a prendere sonno perché ho orrore della giornata che mi sta alle spalle e paura di quella che spunterà; quando il cervello, la sapienza diplomata che mio padre e mia madre mi hanno trasmesso pagandomi dei buoni studi mi pesano nelle tempie più di ogni peccato, mi alzo e vado da lui. Neppure occorre che mi alzi. Sto supino nel buio, a occhi aperti, e lo importuno. Non è pregare: è provocarlo; è sperare in segreto di confonderlo e farlo ruzzolare nel mio stesso dramma di ateo superstizioso; ed insieme è pure una piatire da lui la risposta che mi pacifichi, un invocare che si metta alla lavagna e, riempiendola di cifre rotonde, mi dimostri che Dio c'è, che lui è il figlio del Padre, che io andrò in paradiso dopo una vita lunga e felice. Un esigere che lui metta sulla piramide sghemba della mia cultura il sigillo della certezza metafisica.
È notte. Nessuno ci vede né ci sente. Così senza parere, signorilmente, può darsi che questo privilegio io glielo strappi, che mi spieghi un po'... Se si creerà il clima giusto, quel tanto di magica connivenza che l'ora e il dialogo a due favoriscono. Siamo un tantino colleghi, in fondo: docti sumus. 
  Nicodemo ha voluto la lezione privata. Anch'io la vorrei. Un incontro a quattrocchi. Non dovermi accalcare fra pescatori, gobbi e prostitute nei trivii di Cafarnao, o sulla spiaggia del lago, o nel deserto dove si arriva in turba coi piedi piagati dopo tre giorni di digiuno. Non dovermi arrampicare su un albero come Zaccheo per vederlo e sentirlo; o peggio, mescolarmi coi suoi quando lo ammazzano, col rischio di...
  Nicodemo è andato dunque e Gesù lo ha ricevuto. E vado anch'io, e anche a me apre la porta, mi fa sedere. «Come mai?» gli dice il dottore giudeo. «Come mai?» gli dico io. «In verità ti dico che se uno non rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio...» «Non ti meravigliare se ti ho detto: "bisogna che nasciate di nuovo". Il vento spira dove vuole, e ne odi la voce, ma non sai donde venga, né dove vada.»
  «Come mai può essere questo?» borbottiamo io e Nicodemo. E lui molto civilmente onora adesso i miei titoli di studio: «Tu sei maestro in Israele» mi dice «e non lo sai?». «Lasciamo perdere» diciamo io e Nicodemo trangugiando l'ironia del nostro interlocutore «lasciamo perdere... Dimmi una buona volta, come mai?»
  Gli orologi, le pendole, i cronometri sbriciolano il tempo notturno, che sembra uguale a quello diurno ed è così diverso, col loro tic tac, dentro la casa che soffre come noi, nei suoi mattoni e nei suoi mobili, l'angoscia di esistere e non sapere perché.
  «Se non credete quando vi parlo delle cose terrene, come potrete credere quando vi parlerò delle celesti?» dice Cristo nella vecchia poltrona del mio studio, accarezzando i braccioli. Di nuovo sfugge, anche questa volta. È lui che fa domande. «Lascia stare queste distinzioni, maestro. Terrene, celesti.... Parlami di me che non so che cosa sono, terra o cielo, e in fondo me ne infischio. Sono solo paura, una grande continua paura di perire.»
  «Infatti.»
  «Che cosa "infatti"?»
  «Infatti Dio tanto ha amato il mondo che ha dato il suo Figliolo unigenito, affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Ché Dio non ha mandato il suo Figliolo al mondo per condannare il mondo, ma affinchè il mondo sia salvato per opera di lui
  Mi alzo. Ne so come prima. Non mi ricordo di chi sia questa casa: se la mia dove lui è venuto o la sua dove io sono andato a bussare. È la stessa cosa, comunque. Quel ch'è certo è che ci siamo parlati di notte. Che di notte ho tentato, per l'ennesima volta, l'imboscata di Nicodemo. Che esco dalla casa dove sono entrato inutilmente e mi ritrovo nel buio della strada, della campagna. E malgrado tutto, sto meglio. Anzi, sono felice; mortificato ma felice. Forse solo perché albeggia, le tenebre - almeno quelle esteriori - si diradano. E ripenso alle sue ultime parole:
  "La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage. Veramente, chi fa il male odia la luce e non si accosta ad essa perché non siano condannate le cose che fa. Chi invece fa il bene si accosta alla luce, perché le cose che fa si manifestino come compiute da Dio."
  Allora forse non sono malvagio del tutto. Se l'alba mi piace, mi consola ancora, dopo questa pesante sconfitta, con questa bocca salata di chi non ha chiuso occhio. Sono soltanto Nicodemo. >>

Luigi Santucci 

venerdì 31 gennaio 2020

Luigi Santucci "Volete andarvene anche voi?", Mondadori 1969






Capita, capita a volte di comprare un libro e di metterlo presto negli scaffali perché ad una prima lettura non ci dice nulla. Magari arrivi a pagina 20 e dici ‘non ne vale la pena’.
Capita però a volte anche di ripescare quel libro dopo molti decenni, di rileggerne qualche pagina e accorgersi di aver sbagliato. A me è capitato ultimamente con “Volete andarvene anche voi?” di Luigi Santucci, comprato negli anni Settanta e ripescato nel 2020.
Di libri e articoli sulla vita di Gesù ce ne sono sicuramente decine o centinaia di migliaia. Alcuni cercano di spiegare e commentare fatti e discorsi del personaggio, altri cercano di scavare sulla storicità (o sul carattere mitologico) dei vangeli canonici, gnostici e apocrifi. Alcuni seguono cronologicamente gli eventi esposti nei testi, altri tentano – spesso invano – di ricavarne una dottrina unitaria, con coerenza quasi filosofica.
Il testo in cui mi sono imbattuto non ha nulla in comune con tutto ciò. E’ una semplice, ma bella, riesposizione poetica dei brani più significativi dei vangeli canonici. Mentre altri si lambiccano il cervello su ciò che è vero o falso, storico o immaginario, giusto o ingiusto, e si inoltrano negli oscuri meandri dell’esegesi, Luigi Santucci - sui personaggi, sulle parole e sui fatti narrati dai quattro evangelisti - costruisce dei piccoli ma suggestivi racconti. Non va alla ricerca di verità ‘estraendo’ dati, ma ‘aggiungendo’ ciò che il cuore e la fantasia gli suggeriscono.
Ecco una bella pagina su Giuseppe. I vangeli dicono poco di lui. Ma è possibile, in base ai pochi fatti di cui è protagonista, tratteggiarne la figura semplicemente in modo umano? Santucci ci prova!

<< Colui che c'interessa è Giuseppe. Giuseppe è casto, nobile e falegname.
Casto. All'estuario di tanta fecondità, di tanti concepi­menti, un uomo che non feconda, che non concepisce: un uomo asciutto, la cui pelle coincide col proprio pudore e le cui mani non hanno toccato che pane, legno, cuoio, tes­suto di vesti e cenere di focolare.
Nobile. Ma a nessuno degli antenati somiglia. La sapien­za di Salomone e l'ardimento di Davide sono colati, per le vene dei secoli, fino a lui, ma egli li ha stemperati in una candida dimenticanza; e così la lussuria d'Israele (quella che folgorò anche Salomone, quella che accecò anche Davide, torva e meridiana), egli l'ha purgata in una verginità ch'è piuttosto un'infanzia senza tramonto. Invecchierà così den­tro quella fanciullezza come in un involucro trasparente. Entrerà nel premio della vecchiezza regalmente libero da ogni passione, senza screpolarsi al vento della virilità, sem­pre con quel suo medesimo colore un po' anemico che ha la gente di bottega.
Perché Giuseppe è il falegname, è il faber lignarius. E questo spiega tante cose. Il legno è materia nobile e strana; non è più terra, e carne non è ancora; è come il latte, che non è sangue ed è già più che acqua. Il legno è sensibile e casto, e Giuseppe esercitava la sua innocente sensualità ripassando le palme aperte sulle assi denudate dalla pialla, carezzando gli spigoli smussati al tornio e respirando dalle narici la fragranza dei trucioli, quell'odore di fatica che, chiunque s'affacci dalla porta, fa alzar la fronte sudata nella certezza che entri un amico. Il legno è bontà.
Colui che c'interessa è il falegname Giuseppe, eletto cu­stode nell'abisso dei cieli. Può custodire proprio perché è trasognato, può vigilare perché è assorto, può diffidare per­ché ingenuo, guidare perché inesperto.

[Ma]…All'uomo più limpido è capitato l'incidente più scabroso. “Maria... essendo sposata a Giuseppe, prima che fossero venuti a stare insieme si trovò che aveva concepito...
Tutta la Giudea lapidatrice di adultere ruggisce intorno al destino di Giuseppe, i polsi di questo giusto martellano, la sua mente è smarrita. Lo scandalo, lo scandalo beffardo e crudele, in una terra che non sa compatire e nemmeno sor­ridere, ma solo condannare.
Giorni tormentosi. La pena di Giuseppe non è il sentirsi ludibrio d'una città puritana, non è il rancore del tradito né la nostalgia di chi perde la donna del cuore. È la pena più alta di chi scopre fallibile la creatura creduta migliore di tutte; un pudore di girar per le strade e una vergogna dì rimanere in casa; l'affanno di chi vorrebbe perdonare e non gli è lecito, e si dibatte fra l'orrore di far male a lei e l'arma del ripudio che la società gli pone imperiosamente fra le mani perché difenda il suo onore.
…È solo coi suoi legni, nella penombra della bottega dove tutto sembra immutato, ove corre la pialla e canta la sega mentre il dramma gonfia nel cuore. E fra i suoi legni Giu­seppe trova il buon compromesso: “Però Giuseppe suo sposo, che era un uomo giusto e non la voleva diffamare, risolvette di ripudiarla segretamente.

Giuseppe, come le anime caste, sogna molto. I sogni di queste creature diafane sono simili a una rugiada che benefica durante la notte e soltanto il sole del mezzogiorno farà sparire del tutto. […]
Giuseppe sogna sempre, e appena prende sonno il suo respiro ha la cadenza di un passo in contrade misteriose dove l'operaio è atteso ogni notte, a vedere e udire. In queste notti invece ha sul petto un macigno, è un dormire cattivo fra lagrime e smanie.
Ma ecco che per la benevolenza di un amico notturno l'affanno si cambia in gioia, l'incubo si scioglie nella felicità che solo ci può dare una condanna revocata, una ricchezza perduta e restituitaci intatta. “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te la tua sposa Maria; perché quello che è nato in lei è opera dello Spirito Santo.” 
Dunque sei pura: posso portarti nella mia casa.

…Invece addio Giuseppe, ingenuo fidanzato di Galilea: addio al tuo sogno d'amore. Nel giubilo di quella notizia celeste ti sono rimaste oscure le parole aggiunte dall'angelo: “... darà alla luce un figlio... egli salverà il popolo dai suoi peccati”.
Tutta la tua vita da oggi sarà un lungo tacere, un lento capire l'enigma di questa frase. Capire il senso della tua dura predestinazione: su chi avevi alzato gli occhi di giovane po­polano; con che cosa sono state barattate le nozze che avevi sperato serene e oscure; chi ti è entrato in casa... Capire la tua sposa, capire tuo figlio, capire te, Giuseppe, che sarai - tu - il nostro primo santo.
Da questo momento non sapremo più niente di te. An­cora poche pagine e non ti nomineranno più, il Vangelo ti ingoia. Intravvederemo solo le tue mani sulla pialla, udremo il morso ovattato della tua sega, per un numero d'anni che nessuno conosce. Poi ti ritroveremo sugli altari delle chiese, nei quadri a capo del letto, nelle immagini dei devoti, canuto e rugoso, come se davvero fossi stato sempre un vecchio; a noi piace dimenticare che fosti, vicino a Maria, un giovane bello e forte: un giovane innamorato. >>


* * *

I miracoli narrati nei vangeli sono tanti. Sono credibili o si tratta di ‘strumenti’ mediante i quali venne costruita una nuova religione, da accostare o contrapporre a quella del Pentateuco?
Alla veridicità dei miracoli Santucci non vuole fornire alcuna prova, né a favore né contro. Vuole – come poeta o forse come psicologo – dimostrare la necessità umana di sperare nei miracoli. Ed ecco un’altra sua bella pagina, dalla quale spero emergano le grandi qualità di uno scrittore ingiustamente tenuto in ombra.

<< Non c'è niente di così estraneo, inesplicabile ed insopportabile per l'uomo quanto la natura che lo fascia con le sue leggi, la causalità torpida e massiccia che c'imprigiona in ogni istante, che fa cadere il sasso lasciato dalla mano, fermare il cuore di chi amiamo solo perché questa macchina di carne si è rotta in qualcuno dei suoi stupidi ordigni.
Non è vero che il mondo è già tutto un miracolo — la luna che spunta, il seme che si fa pianta, la formica che ammassa le provviste per l'inverno. Ciò alcuni dicono per un gretto puntiglio, per un empio equivoco e mentiscono. Questo mondo è meraviglioso ma non fa ancora per noi. Noi siamo nati per un mondo dove le formiche parlino, il seme di magnolia faccia nascere gazzelle, la luna cada nel pozzo come nelle metafore dei poeti.
Non c'è un uomo, fra tutti quelli che respirano in questo momento sotto il cielo, che non abbia il miracolo da chiedere, che non aneli un miracolo. Oggi più che mai noi moriamo di questa sete. Nel nostro tempo riddano a migliaia i prodigi della scienza. Ognuno di essi, più è complicato e strabiliante, più ribadisce in noi l'umiliazione che non sappiamo fare miracoli, solo ricamare abilmente i fili di questa maglia di leggi con cui la natura c'irretisce. Guidiamo cascate gigantesche, ma non possiamo far cadere una sola goccia di pioggia; sentiamo le voci di chi ci parla dalla luna, ma non percepiamo la voce dei nostri morti che ci toccano mentre ci crediamo soli.
Ogni miracolo dell'uomo sta chiuso e spiegato in una bobina cilindrica, in una provetta di vetro; ma nelle favole della nostra infanzia non c'erano bobine, non c'erano pro­vette: il ranocchio si trasformava nel bellissimo principe solo perché la reginotta si chinava a baciarlo. Così anche l'uomo che ha tutto invoca il miracolo perché il miracolo, prima di un soccorso benefico, prima di un dono utile e risolutivo contro la pena, è l'ebbrezza dell'infanzia che torna a incantarci, la rivincita di quella prima saggezza innocente sulla bugiarda sapienza di poi. È la bandiera della patria che sven­tola in terra straniera sulla pietraia dei giorni non nostri, con dipinto il castello dove siamo nati per miracolo.

Il Vangelo è il campo dei miracoli. Non passa quasi giorno di quei mille che vanno da Nazaret al calvario, non si volta quasi pagina senza che il frullo di questo evento terribile vibri sulle sventure degli uomini che conobbero Gesù e lo supplicarono. 
Pure, una cosa appare subito chiara: che dei miracoli Cristo fu nemico. “O generazione malvagia e adultera, se non vedete prodigi voi non credete...”. Quale più quale meno, tutti i miracoli gli sono estorti, ora strappati alla sua pietà ora carpiti alla sua condiscendenza, perfino rubati con l'astuzia. E ogni volta che uno ne concede noi sappiamo che quel cieco che apre gli occhi, quello storpio che getta le grucce, quel morto che risuscita non è il vero miracolo se non per noi. Per lui il miracolo è l'altro, quello che dovrebbe sgorgare di conseguenza, per ottenere il quale ha ceduto a farsi stregone e che invece gli riesce solo raramente: la fede. "Perché voi crediate... io dico a te, levati, prendi il tuo lettuccio..." "Credete che io possa fare questo? Vi sia fatto conforme alla vostra fede" "Se puoi credere, ogni cosa è possibile a chi crede" "Alzati, va', la tua fede ti ha salvato". >>
[…]