martedì 19 novembre 2013

Delocalizzazione delle attività produttive e declino dell’Occidente


Quod non fecit Adolf faciet Angela. Accostamento forse un po’ azzardato, è vero; i due hanno tratti personali quasi opposti (gradevole e diplomatica la signora, un violento paranoico il suo predecessore) e la situazione è cambiata di molto. I due personaggi presentano tuttavia delle analogie nei fini ultimi (l’egemonia in Europa) e nelle strategie (minacce militari per il primo, ricatti economici per la seconda).
Sciocco scherzare sulla signora Merkel, come fece incautamente due anni fa il peggiore dei capi di governo che l’Italia abbia mai avuto: la signora dal bel sorriso e dalle ampie spalle sa il fatto suo e, in due mesi, gli ha sfilato la cadrega. Ma, una volta fatto fuori il nostro Gongolo, la sfida economica lanciata agli altri Stati europei è ancora lì sul tavolo, e tutti purtroppo fanno finta di non accorgersene.

Non so come andranno a finire le cose, difficile per chiunque prevedere il futuro. Credo però che, se la pretesa di egemonia militare degli anni Trenta nasceva da una situazione di forza, la pretesa di egemonia economica di oggi nasce da uno stato di debolezza. Se per ora, rispetto agli Stati Uniti ed ai paesi emergenti, sono per primi i Pigs a dimostrare la loro debolezza, domani toccherà anche agli Stati dell’Europa centrale, Germania compresa.
Non vorrei fare del catastrofismo alla Spengler sul ‘Tramonto dell’Occidente’ – non ne condivido i presupposti né le contromisure – ma credo che la politica di globalizzazione dell’economia, attuata troppo allegramente dagli anni Novanta, renda inevitabile il progressivo impoverimento dell’intera Europa. Finché agli imprenditori europei ed americani sarà permesso di chiudere le fabbriche e le attività di ricerca nei propri Paesi e di trasferirle nei continenti in cui godono di basso costo del lavoro e di una imposizione fiscale più leggera, Europa ed USA continueranno a perdere posti di lavoro, il loro reddito pro-capite continuerà a diminuire, gli Stati avranno minori entrate tributarie e dovranno tagliare le spese per il welfare. Una sola cosa sarà in aumento: le tensioni sociali. Oggi a noi domani a voi, signora Merkel.

E’ un bel sognare che nei Paesi emergenti trasferiremo solo i lavori ‘pesanti’ mentre noi europei, e soprattutto voi tedeschi, ci ritaglieremo per il futuro il ruolo di ideatori di nuove tecnologie e di finanziatori del lavoro schiavistico, nelle terre conquistate col tintinnio delle monetine. I cinesi stanno per costruire il grattacielo più alto del mondo e già finanziano il debito pubblico degli USA; l’India ogni anno immette nell’economia 200.000 nuovi ingegneri; le fonti energetiche della Russia e del Medio Oriente costeranno sempre di più. Non è più epoca di colonizzazioni, si tratta di gente intelligente, che all’inizio copia quello che c’è da copiare e poi metterà sul mercato prodotti nuovi, di qualità e a basso prezzo. Se in Cina fra qualche anno costruiranno automobili da 6-7.000 euro, la Volkswagen forse chiuderà i battenti dopo la Fiat e la Pegeout, ma li chiuderà anch’essa; così come li chiuderanno gli stabilimenti di Detroit. Con l’abbassamento dei nostri livelli salariali sarà possibile cambiare auto, solo comprando quelle costruite in Cina dalle fabbriche dei nostri connazionali più furbi. I quali saranno gli unici a guadagnare dalla globalizzazione e dalla delocalizzazione.

Ho già detto che, di fronte alle previsioni di un tramonto dell’Occidente, non condivido i presupposti (decadenza morale) né le contromisure suggerite da Oswald Spengler. Non servono eroi, né regimi basati sulla forza. Però è necessario fermare il declino, e questo è possibile soltanto impedendo che le attività produttive, con i loro impianti e il loro know how, passino da un paese all’altro senza regolamentazione.
Tutti danno per scontato che il signor Benetton e il signor Marchionne abbiano il diritto di chiudere gli impianti in Italia, trasferire il ricavato sui conti da essi aperti nelle banche rumene o coreane e produrre le stesse cose in quei paesi, sfruttando la miseria delle popolazioni e rimpinguando i loro profitti. Questo diritto è contestabile e deve essere contestato.

I capannoni, gli impianti, i macchinari, i progetti, l’organizzazione nei modi di lavorazione e nella commercializzazione, tutti questi fattori produttivi sono il frutto del lavoro di molte generazioni di lavoratori, tecnici e ricercatori italiani e sono perciò patrimonio dell’intera collettività. Azionisti e dirigenti aziendali, nel rispetto delle regole dello Stato, hanno il diritto di gestire le loro attività finché operano in Italia. Se però, ad un certo punto, non ritengono più conveniente continuare a farlo, lo Stato italiano, in base all’art. 42 della Costituzione, ha il dovere di rideterminare in senso più restrittivo “i modi di godimento e i limiti” della proprietà privata “allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. Liberi di andare dove vogliono gli speculatori, ma le fabbriche restano qua.
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* L’immagine è ripresa dal sito www.e-rossa.org nella pagina in cui l’11.11.2010 è stato pubblicato il “Progetto di Legge Regionale contro le Delocalizzazioni” (Regione Emilia-Romagna).
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domenica 14 luglio 2013

Filmdarivedere: "Il maestro di Vigevano", 1963

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Fra il 1861 e il 2010 i contadini in Italia passano dal 70 al 4%. Nel seguire questa linea discendente essi, alla fine degli anni Cinquanta, si vedono superare in numero prima dagli operai dell’industria e poi dagli addetti ai servizi (1); è questo un momento cruciale della storia del nostro Paese, perché tali trasformazioni dell’economia sconvolgono anche il sistema di valori sul quale, fino a quel momento, si era retto il sistema sociale.

Anche in una società contadina le proprietà e il tenore di vita hanno una loro importanza, ma i professionisti e gli uomini di cultura godono di un certo prestigio a prescindere da questi elementi. Con l’industrializzazione questo assetto si sgretola, perché l’unico metro di valutazione sociale diventa il denaro: se un industriale, un artigiano, un commerciante o un operaio specializzato guadagnano più di un insegnante, questo è sufficiente per assegnare a quest’ultimo un ruolo sociale marginale.
E’ esattamente ciò che succede al maestro Mombelli, protagonista del film tratto dall’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, uscito nelle sale cinematografiche nel 1963, cioè solo un anno dopo la pubblicazione del libro.

Antonio Mombelli insegna nelle scuole elementari di Vigevano, una cittadina che, insieme a Varese, diventerà in quel periodo la capitale dell’industria italiana delle calzature. Molti operai, dopo un periodo di lavoro in fabbrica, visto il rapido arricchimento dei proprietari e impossessatisi dei trucchi del mestiere, si mettono in proprio, e così le attività produttive si moltiplicano rapidamente, i redditi delle persone e delle famiglie coinvolte crescono, e con essi cresce il desiderio inarrestabile di beni con cui ostentare il proprio benessere.
Unici esclusi da questo processo, schiacciati fra i vecchi imprenditori e i parvenu, restano i pochi soggetti ancora legati ai lavori agricoli, gli operai che continuano a lavorare come dipendenti e gli impiegati pubblici e privati. Loro, questa trasformazione, restano a guardarla, e se ne accorgono bene quando vanno nelle piazze affollate con i vestiti logori o non alla moda o quando arrivano a casa per sentire dalle mogli, più sensibili al fascino della moda e dei consumi, un lungo elenco di confronti impietosi.

Anche prima di questi rivolgimenti, il vecchio ambiente scolastico non garantiva un’economia familiare allegra, ma c’era un contrappeso, la ‘dignità’. Il ragioniere d’una azienda, l’impiegato comunale o l’insegnante – soggetti che si usa raggruppare nella categoria residua di ‘piccola borghesia’, perché un po’ al di sopra dell’operaio e del contadino e un poco, ma a volte anche tanto, al di sotto del piccolo o grande imprenditore – erano persone che, una volta uscite dalla fabbrica o dall’ufficio, spesso inchinandosi servilmente ai loro superiori gerarchici, in piazza potevano andare a testa alta per il diffuso riconoscimento dei loro meriti intellettuali e morali. Alla fine degli anni ’50 essi precipitano invece nella parte più bassa della scala sociale perché questi meriti, non essendo monetizzabili, non vengono più riconosciuti. Iniziano così i drammi familiari e umani, dei quali “Il maestro di Vigevano” è una rappresentazione toccante.

La moglie del maestro Mombelli, Ada, una donna carina e ancora giovanile (interprete l’attrice inglese Claire Bloom), non è il personaggio principale del libro e del film, però in essa si coagulano tutte le contraddizioni che dalla società si travasano nella famiglia. E’ lei che, prima del marito avverte ed elabora la nuova condizione sociale; si lamenta con lui per motivi banali, ma simbolici - prova ad esempio vergogna a portare indumenti intimi inadeguati - ma le sue aspirazioni vanno ben oltre. Vede come gli altri spendano con facilità in cibi, vestiti, automobili, divertimenti, e capisce che per rincorrerli in direzione di questa ‘dolce vita’ non c’è che un rimedio: lei andrà a lavorare in fabbrica e il figlio adolescente, che in fondo per lo studio non ha né stoffa né voglia, all’insaputa del padre andrà a consegnare pacchi.
Che lei non si limiti a fare ciò solo per non indossare più mutande maschili, diventa evidente quando, dopo aver costretto il marito ad accettare che lei e il figlio vadano a fare lavori da lui ritenuti umilianti, lo costringerà anche a dimettersi dall’insegnamento e ad affidarle la buonuscita per mettere su la propria fabbrichetta in società con suo fratello. Ed è sempre lei che, una volta raggiunto l’obiettivo economico, andrà alla ricerca di altri segni di prestigio: l’amante, un amante più facoltoso di lei, col quale fa accordi commerciali e andrà periodicamente in gita su una bella coupé… in albergo! E’ lì, in quella coupé, che la sua folle corsa, stradale e sociale, finirà per un incidente. La nemesi.
Ada non appare molto nel film; rispetto al maestro, interpretato da Alberto Sordi - al quale meritatamente la tv dedicherà un ciclo di film dal titolo “Storia di un italiano” – essa apparirà in un numero limitato di scene, quasi personaggio secondario, con ruolo antitetico a quello del protagonista. E però i desideri da lei covati sono il grimaldello con cui vengono scardinati i vecchi modelli di vita, nella società e in famiglia.

Raccontata la storia di Ada, che rappresenta il nuovo mondo, si potrebbe dire che sia già raccontata anche la storia del maestro Mombelli, personaggio speculare del vecchio mondo. Ma sfuggirebbero degli aspetti interessanti.
Tutti coloro che hanno visto o vedranno il film, si faranno un’idea abbastanza precisa della vita d’un insegnante prima e dopo il boom economico degli anni ’60, ma chi ha passato la vita fra dirigenti, studenti, alunni , libri e registri, forse avvertirà meglio il messaggio dello scrittore Mastronardi e dell’attore Sordi.
Fino agli anni ’60 fare l’insegnante non era un ‘ripiego’ per non aver trovato lavori migliori. Si entrava in un ambiente dove tutti - eccezion fatta per il personale ausiliario allora numericamente irrilevante - avevano un livello di istruzione medio o alto; gli alunni e le famiglie avevano dell’istruzione un’alta considerazione. In un’Italia in cui ancora c’erano larghe sacche di analfabetismo (l’UNLA (2) organizzava i corsi serali per adulti e il maestro Manzi in tv diceva che per imparare “Non è mai troppo tardi”) chi usciva dalle severe scuole magistrali d’un tempo o da un Ateneo in cui, accademicamente, bisognava essere disposti a dare risposta anche sui cavilli, era beneficiario di grande rispetto da parte delle altre categorie sociali. Poi le cose sono cambiate e il destino del maestro Mombelli ne è una testimonianza.

La scuola, avendo il compito essenziale di trasferire conoscenze e valori dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani, è la struttura che recepisce per ultima le innovazioni. Quella di Mombelli non fa eccezione. C’è un dirigente che ‘conserva’ le sue prerogative di superiorità riservandosi il nos maiestatis, suggerendo le risposte alle sue domande con l’aiutino della sillabazione progressiva o dimostrando la superiorità della nuova didattica ‘attiva’. Sopravvive il culto della bella scrittura. Per accedere alla cattedra bisogna ancora conoscere bene D’Annunzio, anche se lo si ritiene un autore ormai superato.
Tutti questi caratteri, che della vecchia scuola rimangono intatti, compreso il modesto stipendio, Mombelli li accetta. Ciò che rifiuta è il riposizionamento del suo ruolo nella società: giudica umiliante che moglie e figlio di un maestro debbano andare in fabbrica o che il padre facoltoso di un alunno (lo stesso che diventerà l’amante di sua moglie) voglia corromperlo con cinquantamila lire. Fa di tutto per salvare la sua dignità, promette alla moglie di guadagnare quanto basta dando lezioni private, ma il suo destino è segnato. Quella, contro il vento della storia, è una lotta impari, destinata alla sconfitta.
In una scena iniziale, Ada cerca inutilmente di spiegargli tutto questo:
- Mandami a lavorare in fabbrica
- Ada!
- Insomma, non possiamo continuare così. Allora troviamo un lavoro per Rino, è grande. Può già incominciare a guadagnare qualcosa.
- No, Ada, Rino non può abbandonare la scuola, Rino deve studiare, lui non è figlio di un operaio, è il figlio del maestro Mombelli. Io faccio scuola agli altri e mando mio figlio a lavorare?
- Non è neanche tagliato per studiare
- Come sei cambiata, Ada.
- I tempi, sono cambiati. Quando ero ragazza la gente diceva “Beata lei, sposa un maestro”. Adesso dice “Povera diavola, ha sposato un maestro”
- Gente ignorante, Ada. Noi siamo migliori. Cerca di dimenticare che siamo poveri e saremo sempre felici.
- Si… buonanotte.
- Tu credi che io non sappia, Ada, quello che ti rende sempre triste. Tu sogni di essere una donna ricca, e non lo sei.

L’autore del libro, Lucio Mastronardi, nel raccontare queste trasformazioni della sua Vigevano, soffre; si sente che soffre come insegnante, ma soprattutto come uomo. La sua vita, come quella del protagonista del suo romanzo, sarà tormentata e finirà in modo tragico. In una intervista a ‘La settimana Incom’, rintracciabile su you tube col titolo “Non è pazzo il maestro”, egli dichiara: “"Sono molto vicino a una piccola borghesia a carattere casalingo, schiacciata dalla classe industriale da una parte e dalla classe operaia dall'altra. Il boom la seguita a schernire con crudeltà".


Note:
.(1) Istat – Popolazione attiva per settore economico, anni 1861-2010 (composizioni %)
 http://www.istat.it/it/files/2011/05/01_occupazione.swf 



(2) Unione Nazionale Lotta contro l’Analfabetismo
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mercoledì 10 luglio 2013

Lester F. Ward, Recensione a “La teoria della classe agiata” di T. Veblen, 1900


Lester F. Ward, Recensione a “La teoria della classe agiata. Uno studio economico sulla evoluzione delle istituzioni” di Thorstein Veblen. American Journal of Sociology, The University of Chicago Press, 1900, Vol. 5, pagg. 829-837. Traduzione di Cataldo Marino

I
L’ultimo critico di un libro ha lo stesso vantaggio del critico di un vecchio dipinto. Egli non ha bisogno di una qualche idea sua propria, ha imparato qual è la cosa giusta da dire e non gli resta che dirla. In questo caso la cosa giusta è di condannare il libro, definendolo pessimistico o addirittura ‘cinico’. Pessimismo, ora, qui vuol dire: guardare i fatti in faccia, dire le cose come sono, chiamare vanga una vanga, e chiunque faccia questo merita la censura come disturbatore dell’ordine delle cose.
Se c’è qualcosa che il mondo non vuole, questa è la verità. La verità è una medicina che va somministrata in pillole ricoperte di zucchero. Una parte piccolissima di essa reagisce sul sistema pubblico e non andrà giù. Questo non è un fatto moderno, è quanto è stato sempre fatto per ‘bruciare’ le persone; oggi ci si limita a mettere i loro libri in una specie di indice morale (index librorum expurgandorum).

Il problema di questo libro è che contiene troppa verità e inoltre che suggerisce una grande quantità di verità che in effetti neppure contiene, e questo è brutto quanto il dire chiaramente la verità. Galileo e Servetus furono perseguitati non per quello che dissero, ma per le deduzioni che i loro persecutori trassero da ciò che essi avevano detto.
I recensori di questo libro basano le loro critiche quasi interamente sulle conclusioni che loro stessi traggono da ciò che in esso è scritto e molto poco da ciò che esso effettivamente dice. Essi dimenticano completamente che il libro è, come attesta il suo sottotitolo, “Uno studio economico sull’evoluzione delle istituzioni”, e presumono invece, senza fondamento, che esso costituisca un attacco alle istituzioni esistenti. Questa è solo una deduzione, ma una di quelle per le quali nel libro non vi è alcuna prova. Qualcuno ha detto che la legge di gravitazione sarebbe stata attaccata se vi fosse stato il sospetto di intaccare gli interessi umani. La storia dell’uomo è stata paragonata esattamente alla storia delle piante e degli animali, ma nessuno ha inveito contro i fatti biologici, perché essi riguardavano gli esseri sub-umani. Darwin fu duramente contestato per le supposte conseguenze di questi fatti sull’uomo, ma solo per questo motivo. [829]

Ora, nessuna verità è emersa più chiaramente, dal più approfondito studio dell’evoluzione organica, del fatto che tutto il suo processo comporta degli sprechi. Darwin dimostrò questo; Huxley moltiplicò gli esempi su di esso; Herbert Spencer, per il quale l’uomo imita la natura in tutto, ha fornito alcuni dei più evidenti esempi della ‘prodigalità’ della natura.
Nel descrivere questa prodigalità i naturalisti non sono stati sospettati di condannare le abitudini e gli istinti degli uccelli, dei pesci del mare e dei micro-organismi coltivati. Ma quando un economista, con abiti mentali strettamente scientifici, indaga sulla storia della specie umana e scopre che l’evoluzione umana, come l’evoluzione organica, scaturisce dall’azione ritmica delle grandi forze cosmiche - una delle quali è centrifuga e distruttiva - e ci dice come questi processi distruttivi cooperano nella società con le forze di conservazione, allora egli suscita ostilità e viene considerato pericoloso. Questo perché il campo sul quale ha indagato è quello degli uomini.
In realtà il libro è uno specchio nel quale possiamo guardarci. Esso è, anzi, di più. E’ come un telescopio attraverso il quale possiamo vedere i nostri antenati e, quando con un solo sguardo riusciamo a vedere tutte le generazioni del nostri antenati, fino a includere noi stessi, percepiamo quanto piccola sia la differenza, e questa immagine prende un aspetto abbastanza sgradevole. Questo è il motivo per cui esso offende. Il percorrere a ritroso istituzioni, costumi, abiti mentali, idee, credenze e sentimenti, verso le loro origini, cioè le fasi barbariche e selvagge, e vedere la loro base reale, non è cosa gradevole per le persone orgogliose dei propri antenati; per molti nulla è più importante che avere antenati di cui essere orgogliosi.
E’ perfettamente legittimo cercare di dimostrare che i fatti non sono così come descritti nel libro, ma un critico, quando lo fa, deve procedere scientificamente. Egli non deve sprecare i suoi sforzi per dimostrare che vi sono altri fatti che hanno una tendenza opposta. Deve tenere presente quale compito l’autore si è assegnato; e, nel caso di Veblen, deve ammettere che egli si è attenuto tenacemente al campo di indagine prescelto, resistendo alla tentazione - che, come chiunque può vedere, dev’essere stata ben forte - di sconfinare in altri campi e di occuparsi della classe di fatti di opposta tendenza. Senza dubbio egli potrebbe scrivere con forza e competenza un libro sull’“istinto di operosità” come ha fatto con l’“istinto di rapina”, ed è sperabile che possa farlo. Ma, occupandosi di questo libro, il critico non ha il diritto di lamentare che esso non si occupi di altri temi, diversi da quello scelto dall’autore. Infatti è molto più vantaggioso occuparsi di volta in volta di un solo aspetto dell’evoluzione umana. Ben pochi scrittori sono capaci di cogliere distintamente i diversi fattori. Ciò richiede una mente lucida. [830] Quasi tutte le trattazioni che troviamo su questo oggetto altamente complesso sono viziate dal continuo intersecarsi dei settori di indagine, e si finisce in una grande confusione, Wirrwarr. Qui abbiamo un solo oggetto per volta, trattato in modo chiaro e molto aderente, anche a rischio di infastidire le persone, la cui suggestionabilità è così forte da non riuscire a cogliere gli aspetti che non rientrano nel loro proprio campo visivo.

Si può dire che l’autore avrebbe dovuto almeno dimostrare come questa classe molto agiata, e solo in virtù della sua agiatezza, abbia svolto il ruolo maggiore nelle più recenti ricerche scientifiche ed abbia risolto alcuni dei più importanti problemi; che anche la scienza moderna deve così tanto a questa classe sociale quanto tutte le altre classi messe insieme (come dimostrato da de Condolle nella sua Histoire des Sciences et des Savants); che tutte le più importanti “istituzioni”, incluse le professioni dotte e la ricerca scientifica, come Spencer ha dimostrato si sono sviluppate dalle “istituzioni ecclesiastiche” e devono la loro esistenza e il loro carattere moderno a questa tipica classe agiata, il clero, dedito all’“agiatezza derivata” e alle “osservanze devote”; che nessuna classe sociale e nessun essere umano, come giustamente affermano i riformatori sociali, possono svolgere un elevato lavoro intellettuale o coltivare l’intelletto, senza una certa misura di agiatezza e di riposo dal continuo lavoro.
Il nostro autore poteva – così sembra a qualcuno – almeno soffermarsi su questi fatti ben noti e universalmente riconosciuti, che riguardano direttamente la classe agiata. Ma, in primo luogo, egli non si è voluto impegnare nella spiegazione del progresso intellettuale e morale del mondo e, in secondo luogo, questi fatti sono già abbastanza noti e perciò non è necessario sottolinearli; inoltre sembra che lui non provi interesse per questi argomenti triti. Questi fatti non contraddicono nulla di ciò che lui dice: semplicemente sono veri anche essi. Essi sono evidenti, mentre quelli che lui ci dice sono latenti, ed egli sceglie fra i due tipi di argomenti, dicendoci un buon numero di cose che prima non conoscevamo, invece di dirci molte cose che già conoscevamo. In terzo luogo, e principalmente, il suo punto di vista è strettamente economico; lui si occupa dell’argomento in base alle sue proprie competenze e non ha ritenuto di dover entrare in campi più vasti, come gli economisti tanto spesso usano fare. Ne sutor ultra crepidam.


II
In breve, il nostro autore si occupa del problema della ricchezza e tutta la sua trattazione si limita all’aspetto “pecuniario”. Per lui qualsiasi cosa ha un valore pecuniario, che poco ha a vedere col suo valore intrinseco o razionale e che è scaturito da una lunga serie di eventi della storia umana che ha inizio nell’età barbarica. Si tratta di un caso tipico di idee convenzionali da tenere ben distinte dalle idee razionali. Le si può far sembrare razionali solo quando [831] sappiamo e possiamo tracciare la loro storia e vedere come, a prescindere dalle circostanze, non poteva andare diversamente.
Il valore pecuniario di un bene, come ogni altra cosa, è il risultato di cause naturali, ma il succedersi delle condizioni è come un lungo e tortuoso labirinto di cause ed effetti, che hanno alla fine prodotto qualcosa che, visto direttamente, appare irrazionale e assurdo. Ciò non costituisce un’eccezione rispetto alla legge generale della sopravvivenza sostenuta dagli etnologi.
Ogni giurista sa cosa sia una “finzione giuridica”, ma la maggior parte di essi sbaglia nell’immaginare che solo le società evolute siano capaci di creare tali finzioni. Gli studi di etnologia dimostrano che anche le più antiche istituzioni sono un mucchio di finzioni. Il selvaggio è più logico dell’uomo civilizzato. Analizzate la couvade (il padre finge di “covare” i figli appena nati, ndt), considerata dagli etnologi una finzione mediante la quale il sistema matriarcale fu trasformato in patriarcale, senza rottura nella catena logica.

Il valore pecuniario, distinto da quello intrinseco (valore d’uso), ha origini remote e probabilmente ciò non è stato finora mai dimostrato tanto bene. Qui accenniamo solo ad alcuni passaggi, ma bisogna leggere il libro per vederli tutti e per vedere come sono collegati fra loro.
Non appena la proprietà venne riconosciuta come il mezzo principale per assicurare il soddisfacimento dei desideri, la “legge di acquisizione” entrò in vigore e quindi il problema diventò, non quello di come “produrre”, ma quello di come “acquisire” il più possibile con il minimo sforzo possibile.
Il minimo sforzo (parte della formula) è il concetto base della distinzione dell’autore fra “produzione e rapina”. La rapina (prima espropriazione violenta e poi sfruttamento, ndt) è, in confronto alla produzione, molto più facile. La produzione diventò allora sinonimo di enorme fatica.
L’amore per l’attività (produttiva), cioè il piacere immediato di esercitare le proprie facoltà, che è l’essenza dell’“istinto di operosità” (workmanship), difficilmente viene meno e l’“agiatezza” non è per alcun motivo incompatibile con l’attività. Però, l’attività eccessiva – lo sforzo prolungato e faticoso richiesto per la costante riproduzione di oggetti di consumo – è essenzialmente noioso e, quando possibile, si è sempre cercato di evitarlo.
Ma questi oggetti devono pur essere prodotti affinchè si possa godere del loro consumo e l’unico modo per possederli senza produrli è di fare in modo che altri li producano. Per ottenere ciò, viene immediatamente esercitata ogni forma di potere e, da come si è sviluppata la storia dell’umanità, ciò si è configurato come creazione di una classe produttiva dipendente e una classe agiata indipendente.
La più semplice forma (di classe produttiva dipendente) fu la schiavitù e, come l’autore dimostra, i primi schiavi furono le donne; dopo furono i prigionieri resi schiavi, e infine tutti furono schiavi e pochi dotati di privilegi e potere. Mutazioni così vaste naturalmente avvennero gradualmente.
Ora, la cosa più naturale del mondo è che questi due gruppi di persone formassero due grandi classi completamente diverse sotto ogni [832] aspetto. La classe dipendente è bassa, avvilita, degradata; la classe indipendente è alta, nobile, esaltata. Questo non è solo il giudizio della classe più alta, ma anche di quella più bassa. Il rapporto (fra le classi) è riconosciuto da tutti e costituisce ciò che viene denominato regime di status. Tutte le occupazioni della classe dipendente sono, secondo la felice espressione del nostro autore, “umilianti”, e tutte le occupazioni in cui può essere impegnata la classe indipendente devono essere “onorevoli”. Queste occupazioni non devono incrociarsi fra di loro, devono essere completamente differenti.
Le occupazioni umilianti sono tutte quelle industriali, produttive, e quindi i membri della classe agiata non devono svolgere alcuna di esse, pena il sospetto di appartenere alla classe dipendente. Le occupazioni umilianti sono le uniche da considerare “utili” in senso economico, quindi nessun membro della classe agiata può fare qualcosa di utile. La classe agiata trae soddisfazione dall’esercizio delle proprie facoltà, ma questo non deve apportare alcuna “utilità” e deve invece essere caratterizzato dalla “futilità”. Il piacere dell’attività è consentito solo in alcune direzioni, senza creare il sospetto di uno stato di dipendenza o di necessità. Fra queste occupazioni puramente futili troviamo la guerra, la caccia, il gioco, la politica, il comando, gli adempimenti religiosi, ecc.
Vi sono dunque molte modalità secondarie mediante le quali la classe agiata, quando ne ha pieno potere, è capace di divertirsi. Si dice, ad esempio, che un comune divertimento dei nobili Romani fosse quello di abbattere un plebeo e poi pagare un sesterzio, che era l’importo dell’ammenda fissato dalla legge per questo reato; e l’idea di ‘divertimento’, con cui i giovani nobili inglesi si svagavano nel sedicesimo secolo, era quella di sfigurare il viso di un povero incontrato per strada con un bastone appuntito, che essi si portavano dietro a questo scopo. Tutto ciò che viene fatto deve avere la natura di sport, mai di lavoro. Il surplus di energia deve esprimersi in attività assolutamente non lavorative e assolutamente parassitarie, altrimenti si viene espulsi dalla casta.

Tutto ciò dà una qualche idea della natura della fondamentale antitesi che sorse naturalmente, come visto, e che persiste ancora fino ai nostri tempi. La distinzione è stata descritta come “invidiosa” e questa parola è stata criticata, imputando ad essa dei motivi biasimevoli. Ma essa è usata in senso letterale, come ciò che ha invidia nelle sue proprie radici, perché non è solo la classe produttiva ad invidiare la classe agiata, ma ogni membro della classe agiata cerca sempre di provocare invidia negli altri membri della sua stessa classe.
Anche se tutti i membri della classe agiata sono esentati dal lavoro, essi non sono assolutamente uguali nella loro capacità di spendere e, poiché non vi è alcun limite alla possibilità di [833] ostentare i loro futili consumi, nessuno riesce ad avere quanto vuole per superare e oscurare i suoi rivali. Si instaura così, non solo una gerarchia in base alla ricchezza, ma una continua competizione per eccellere gli uni sugli altri. La ricchezza diventa la base della stima. Il criterio diventa solo pecuniario. La ricchezza non deve solo essere posseduta, ma bisogna anche dimostrare ciò. Deve essere chiaro a tutti che si ha a disposizione una riserva finanziaria inesauribile. Quindi l’agiatezza deve essere resa nota attraverso l’ostentazione dei consumi e dello spreco. Se un sufficiente numero di persone adatte allo scopo potesse vederlo e conoscerlo, sarebbe un fatto onorifico quello di accendere un sigaro con un biglietto di mille dollari.
Un uomo non può limitare i consumi a se stesso e alla sua famiglia, egli deve vivere in un palazzo molto più grande di quello che può effettivamente utilizzare, ed ha una vasta schiera di servi e di domestici; apparentemente per soddisfare i suoi desideri ma in realtà per far notare la sua capacità di spendere.
Da questo nasce l’importante principio dell’“agiatezza derivata” e del “consumo derivato”. Anche la maggior parte di questi servitori deve essere esentata dal lavoro produttivo, così come le donne della sua famiglia devono assolutamente essere improduttive ed inattive. Nel moderno sistema di sfruttamento semi-industriale e quasi-predatorio da parte della borghesia, il capitano d’industria deve dirigere le sue attività e quindi sembra forse darsi da fare per qualcosa di utile, ma, come in un castello feudale, le apparenze devono essere salvate ed a sua moglie si estende la “performance di agiatezza” e la dimostrazione della sua capacità di spesa per cose inutili. Egli le conferisce una agiatezza derivata, e lei, nell’abbigliamento e nei rapporti sociali, dev’essere in grado di dimostrare queste capacità di consumare e sprecare senza limiti.
Si vedrà che ciò avviene completamente applicando la legge fondamentale dell’economia politica: il massimo rendimento col minimo sforzo. Ma se la creazione di un oggetto è di per sé un’attività gradevole, lo sforzo inteso in senso economico è solo quello industriale, produttivo, utile.
In origine le principali occupazioni onorifiche erano la guerra e la caccia, sviluppatesi nella fase precedente, nella quale entrambe erano più o meno produttive. La guerra per il bottino cedette poi il passo a quella per i prigionieri, cioè gli schiavi a cui far svolgere il lavoro produttivo, e infine la caccia perse completamente il suo valore produttivo e fu trasformata semplicemente in sport. Prova ne è il disprezzo, ai nostri giorni, per il bracconiere e colui che va a caccia per profitto.
Inizialmente lo sfruttamento fu sempre di tipo predatorio; ora esso è diventato ciò che il nostro autore definisce “quasi-predatorio”. Non c’è oggi maggiore rispetto per la giustizia effettiva di quanto ce ne fosse allora, ma lo sfruttamento deve avvenire secondo le leggi imposte dalla classe sfruttatrice, e così apparentemente abbiamo una giustizia. Il fine è di acquisire ricchezza ad ogni costo, ma non è sufficiente [834] dire che esso sia raggiunto senza badare che qualcosa venga prodotta oppure no: tutte le acquisizioni devono essere realizzate senza lavoro, pena l’esclusione dalla classe agiata.

Nessun biologo può sbagliare osservando la somiglianza fra il mondo organico e molti dei fatti esposti in questo libro. Lo spazio non ne consente l’enumerazione completa, ma non si può non notare, fra i tanti fenomeni di spreco nella natura, quello dei caratteri sessuali secondari, come nel caso delle corna del cervo e la coda sgargiante del pavone.
Questi fenomeni possono essere paragonati alla dispendiosa moda degli uomini, così come enumerati nel capitolo sui “Canoni pecuniari del gusto”. La principale differenza è che la natura, nel produrre questi organi inutili e scomodi, ha realmente conferito ad essi un alto grado di intrinseca bellezza - e questo vale anche secondo il giudizio dei gusti umani - mentre i prodotti della moda umana, basati sul canone della bellezza pecuniaria, cioè il loro costo, sono degli inutili impedimenti nei movimenti e non hanno la minima pretesa di costituire un modello razionale del gusto.

La teoria dell’autore sui mutamenti della moda è geniale e deve essere ritenuta ampiamente corretta. La sgradevolezza determinata dal suo costo superfluo, rende una moda intollerabile da sopportare per un lungo periodo di tempo, sicché il senso estetico, anche quello della classe agiata, impone di cambiare; ma le nuove mode non possono essere migliori, perché anch’esse sono caratterizzate dalla “rispettabile futilità” e dallo “spreco vistoso”, che sono necessariamente offensive del gusto, il quale si fonda invece sull’istinto dell’operosità. Anche esse quindi devono presto cedere il passo ad altre, a loro volta non migliori delle precedenti, e così via indefinitamente.
Vi è un eterno conflitto fra bellezza pecuniaria e bellezza razionale, le quali sono incompatibili, ma in cui prevale sempre la prima, e tutto ciò che la seconda può fare è di condannare il prodotto e costringere la vincitrice a proporne un altro.

Il libro spiega l’origine di un gran numero di istituzioni, costumi, consuetudini e convincimenti, di cui evidenzia chiaramente l’origine barbarica. Sarebbe inutile cercare qui di farne l’elenco e ne cito solo alcuni dei più curiosi, come l’esenzione delle donne dal lavoro (agiatezza derivata); abuso di alcolici e sperpero; decorazioni costose e antiestetiche; l’immunità per i crimini compiuti su vasta scala; evoluzione dei cerimoniali religiosi che richiamano lo stadio tersicoreo della danza; l’istruzione superiore, o “classicismo”; preferenza per i beni prodotti a mano, che sono di qualità inferiore rispetto a quelli industriali; amore per l’arcaismo in generale; rispettabilità del conservatorismo; degenerazione delle più alte istituzioni culturali; patriottismo, duello, snobismo, sellini inglesi, bastoni da passeggio, sport atletici, cameratismo collegiale, cappello e abito, ecc. [835]

III
L’autore ha certamente usato la lingua inglese con consumata perizia e, a dispetto della sua accusa, egli dimostra una non modesta conoscenza dei classici. Il libro abbonda di espressioni concise, antitesi taglienti e frasi pittoresche ma indovinate. Alcune di esse sono state interpretate come ironia o satira ma, come già detto, questo è il mestiere degli stessi critici. Il linguaggio è chiaro e senza possibilità di malintesi, così come deve essere; lo stile è il più lontano possibile dalla partigianeria come dall’ingiuria, e il linguaggio, per usare le stesse parole dell’autore, è “moralmente incolore”. In alcune parti, se non è classico, probabilmente tende a diventare tale. I termini più frequenti sono già stati usati abbondantemente in questa rivista e le parole e le espressioni particolari vengono virgolettate.
Se lo spazio lo permettesse, molte di queste potrebbero essere citate, come ad esempio, “consumo rispettabilmente dispendioso”, o “spreco rispettabile”, “futilità rispettabile” e “rispettabilità pecuniaria”; e poi parla di alcune cose che danno “vantaggi in direzione dell’inutilità”. D’altra parte abbiamo espressioni come “occupazioni volgarmente utili”, “volgare efficacia” e “infezione da utilità”. Poi abbiamo “animus predatorio”, “metodi quasi-predatori”, “frode predatoria”, “parassitismo predatorio”, “predazione parassitaria”. Molte espressioni incidentali sono notevoli, come “ebbrezza esperta e graduale” e “duello superficiale” degli studenti tedeschi, e la sua affermazione che “l’alta istruzione” conferisce “una conoscenza dell’inconoscibile”. Egli dice che “l’esaltazione del difettoso” e l’ammirazione per “la scrupolosa crudezza” e “l’elaborata inettitudine” sono caratteristiche dei “modelli pecuniari del gusto”. E chi ha notato come gli sport atletici degenerano e siano riservati a pochi professionisti, apprezzerà la sua puntualizzazione che “la relazione fra il calcio e la cultura fisica è identica a quella fra la corrida e l’agricoltura” (l’allevamento, ndt).

Come abbiamo già visto, le due grandi classi sociali sono caratterizzate da un assortimento di parole e frasi fortemente contrastanti; e non solo il loro tipo di attività, ma anche i loro sottostanti istinti vengono definiti con espressioni come “l’istinto della rapina” e “l’istinto di operosità”, “sfruttamento e industria” o “sfruttamento e lavoro”, occupazione “onorifica e umiliante”, attività “superficiali e proficue”, tutte analoghe al contrasto di base fra “futilità e utilità”. In ognuna di queste coppie, il primo termine si riferisce alla classe agiata e rappresenta le condizioni migliori per sopravvivere nella società umana. La classe agiata è biologicamente quella più adatta, socialmente la migliore, l’aristocrazia. [836]

Dell’aspetto generale del libro, come di tutto ciò che viene pubblicato dalla ben nota casa editrice, non c’è altro da fare che apprezzarlo, salvo notare la conservazione di una superflua “u” in parole come “honour, favour, colour” ecc. Chiamare la Festa del Lavoro americano “Labour (anziché Labor) Day” è un evidente caso di “arcaismo” e di “spreco vistoso”, e questo può essere citato in difesa della tesi principale del libro. [837]

Lester F. Ward.

*.*.*

Nel 1899 Veblen pubblica la sua opera più conosciuta, “La teoria della classe agiata”. La critica non è benevola con lui, perché essa mette a nudo le irrazionalità del comportamento umano e del sistema economico e sociale; ma nell’anno successivo, il 1900, Lester F. Ward (nella foto), sul n. 5 dell’American Journal of Sociology, rivista della quale diventerà direttore nel 1905, pubblica una lunga e appassionata recensione di segno completamente diverso.

Pur non avendo io adeguata padronanza della lingua originale di tale recensione, ho voluto cimentarmi nella sua traduzione, nella speranza di contribuire, pur se in piccola misura, a un giusto riequilibrio fra le ipotesi vebleniane ed altre teorie economiche e sociologiche.
La prima traduzione è stata quasi letterale, ma poi, con piccoli ritocchi, ho cercato una riformulazione più libera, in qualche punto forse arbitraria, che consentisse però una lettura più scorrevole. Sia nel primo che nel secondo caso, sono cosciente di aver potuto, in alcuni punti, non comprendere del tutto correttamente le intenzioni dell’autore o di non averle sapute esprimere nel modo giusto. Poiché su questo blog c’è il mio indirizzo di posta elettronica, mmcataldo@libero.it, invito chiunque a segnalarmi l’opportunità di rettifiche, ringraziando in anticipo per il contributo.
Anche se L.F.Ward non lo ha fatto, ho ritenuto utile dividere il suo scritto in tre parti. La prima è un’accorata difesa di Veblen, una lettura gradevolissima per via dei forti accenti ironici con cui si dimostra la faziosità e superficialità delle precedenti recensioni. La seconda parte è una esposizione sintetica dei principali argomenti trattati nel libro, dunque una intelligente introduzione o guida per gli studenti e i cultori della sociologia. La terza parte è una accurata analisi del linguaggio usato da Veblen, il quale purtroppo, secondo Ward, si scaglia contro il classicismo per poi ricadervi a sua volta. In cauda venenum, ma in quantità veramente esigua.

Io forse do troppa importanza ai motori di ricerca del web, quasi fossero, come le agenzie di rating, capaci di attribuire un voto anche ai pensieri e ai pensatori. Però non posso non notare che il nome di Veblen appare in una infinità di pagine in lingua inglese, intervallate solo da sporadiche pagine in italiano: migliaia di articoli e monografie nella prima lingua e qualche paginetta nella seconda. E’ vero che il linguaggio di Veblen è un po’ tortuoso, perchè a pagine sferzanti e coinvolgenti seguono talvolta divagazioni che confondono le idee, tanto che il primo traduttore della sua opera in italiano, il Prof. Franco Ferrarotti, lo definisce “anfrattuoso”(1). Questo però non è sufficiente a giustificare l’ombra calata su di lui in Italia. Da noi la politica ha inciso più che altrove sul libero pensiero, e se la destra, secondo me a ragione, ha visto in Veblen un rivoluzionario, la sinistra, secondo me a torto, anziché vedere in lui un pensatore da innestare sul pensiero marxiano per nuovi e più promettenti ramificazioni, vi ha scorto anch’essa un suo concorrente o avversario.

L’idea di proporre la recensione di Ward in italiano nasce indubbiamente dal mio apprezzamento per essa. Tuttavia devo precisare che l’ultima frase del penultimo paragrafo (“La classe agiata è biologicamente quella più adatta, socialmente la migliore”) mi lascia un po’ dubbioso. Certamente chi riesce a ottenere una grande quantità di beni senza produrli è più furbo e coraggioso degli altri, più capace di trarre vantaggio dalle situazioni (fittest), ma basta questo per dire anche che è socialmente il migliore (best)? Nel capitolo VIII del libro dal titolo “Esenzione industriale e conservatorismo”, Veblen dice:

“La classe agiata è in gran parte al riparo dall'influenza di quelle esigenze economiche che prevalgono in ogni moderna società industriale altamente organizzata. Le esigenze della lotta per i mezzi di sussistenza sono meno pressanti per questa classe che per qualsiasi altra; e come conseguenza di questa posizione privilegiata, noi dobbiamo aspettarci di trovarla una delle classi sociali meno aperte alle esigenze, che la situazione pone, di un ulteriore sviluppo di istituzioni e di un riequilibrio a una situazione industriale mutata. La classe agiata è la classe conservatrice. Le esigenze della generale situazione economica non incidono liberamente o direttamente sui membri di questa classe. Ad essi non si richiede, pena la rovina, di cambiare le loro abitudini di vita e i loro modi di vedere teorici secondo le esigenze di una mutata tecnica industriale, poiché essi non sono in senso pieno una parte organica della società industriale. Per questo tali esigenze, nei membri di questa classe, non creano prontamente quel grado di disagio verso l'ordine esistente, che solo può condurre qualunque gruppo di uomini ad abbandonare i suoi modi di vedere e le sue maniere di vita divenute abituali. L'ufficio della classe agiata nell'evoluzione sociale è di rallentare il movimento e di conservare ciò che è fuori moda.”(2)

Cataldo Marino

Note
1. Appendice a: Gaston Bouthoul, Storia della Sociologia, Armando Editore, Roma, 1966, pag. 134
2. Classici della Sociologia, Opere di Thorstein Veblen, UTET, 1969, pag. 207

Il testo originale della Recensione in lingua inglese è disponibile sul sito http://archive.org/index.php  alla pagina
http://www.archive.org/stream/americanjournalo05chicuoft#page/828/mode/2up
Nella traduzione sono stati indicati i numeri delle pagine corrispondenti a quelle del libro.
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mercoledì 19 giugno 2013

Prof. Giorgio Braga, Le forme elementari della società, Trento, 1964

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Le pagine che seguono vogliono ricordare e rendere omaggio ad uno dei primi docenti di sociologia in Italia, il prof. Giorgio Braga. Non ebbi il piacere di seguire le sue lezioni presso l’Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, perché il primo anno iniziai a frequentare con alcuni mesi di ritardo. Ma nell’autunno del ‘67, per l’esame di Istituzioni di Sociologia, mi accinsi a studiare con passione i suoi libri: “Introduzione al metodo”, “Le forme elementari della società”, “I quadri strutturali”.
All’epoca quell’ateneo raccoglieva da tutta Italia docenti molto autorevoli, fra i quali, oltre al prof. Braga, voglio ricordare Franco Ferrarotti, Filippo Barbano, Mario Volpato, Francesco Gentile, Fabio Metelli, Carlo Tullio Altan, Gino Barbieri, Tullio Tentori, Luigi Meschieri, Guido Baglioni, Sabino Acquaviva, Franco De Marchi, Beppino Disertori, Giuseppe Bellone, Guido Petter e Alberto Izzo, generoso nel seguire i miei lavori finali per la tesi.
Giorgio Braga, vice-direttore dell’Istituto, fu il docente che tenne nel ’62 la prima lezione nell’ateneo appena fondato. L’esame nella sua disciplina era una discriminante per la serietà degli studi. Oltre alla lucidissima sintesi sistematica della materia, insegnata e contenuta nelle sue pubblicazioni, bisognava studiare diversi altri testi e dispense.

Sorse però, lì prima che in altri atenei, il Movimento studentesco. Provenendo dalla Giovanile comunista, io guardai all’inizio con simpatia i suoi possibili risvolti politici, ma quando, come oggi sottolinea il filosofo Diego Fusaro, questo movimento mise in secondo piano le rivendicazioni di classe in favore di più generici diritti civili, mi dedicai agli studi e basta. A quel movimento non rimprovero le sue impostazioni di fondo e ricordo con grande rispetto la figura del suo vero, forse unico, leader Mauro Rostagno. Di esso tuttavia non accettai alcune cose, in primo luogo la contestazione di un corpo docente così autorevole.
Fu proprio per questo tipo di contestazione che docenti come Braga vennero messi in ombra a favore di docenti come Francesco Alberoni che, col doppio gioco, prima strizzarono l’occhio al Movimento, per poi imbrigliarlo dopo un paio di anni e passare nelle file di Berlusconi venti anni più tardi. E mentre oggi il prof. Alberoni si pavoneggia sul ‘Corriere’ con articoletti per le massaie, sbrindellando la sociologia con argomentazioni prive di ogni fondamento metodologico, del prof. Braga non resta traccia.
Tutto c’è oggi su internet, ma, a digitare il nome del prof. Braga, se si escludono la presentazione di un suo libro su Wikipedia e un fugace cenno del maggio 2012 su questo blog, non si trovano dieci parole messe in fila che ricordino le sue qualità di ricercatore e di docente. E’ per rimediare, per quanto a me possibile, a questo vuoto, che ho deciso di riportare qui gli stralci di alcune sue pagine. Mi auguro che qualcun altro dei suoi ex allievi o colleghi di Trento, primo fra tutti l’allora suo assistente prof. Giuliano Di Bernardo, rileggendolo, senta il bisogno di fare qualcosa di simile, magari un breve ricordo o una qualche considerazione.

Le pagine che seguono non sono certo di facile lettura per chi non ha una certa dimestichezza con alcuni termini e concetti sociologici. Io ho però cercato di semplificarle, eliminando alcune parti che ritengo non indispensabili per cogliere il filo conduttore del discorso. Per facilitare la lettura voglio inoltre precisare in anticipo il significato della parola ‘attore’, usata dall’autore all’inizio di questo scritto.
Il termine ‘attore’ è da intendere, non nel senso restrittivo di interprete di un film, ma nel senso etimologico di ‘persona che agisce’, ed è perciò riferibile a ogni uomo. Ma, in fondo, la cinematografia proprio a questo significato si richiama quando, per riprendere una scena, si dice “Ciak, azione!”.
Dopo aver spiegato che dell’attore conosciamo le azioni subite e le azioni compiute, ma non il meccanismo interno che collega questi eventi esterni, il prof. Braga cerca di pervenire, secondo i due criteri della finalizzazione e della complementarietà, ad una tipologia delle azioni umane. Ricorriamo al criterio della ‘complementarietà’ quando partiamo dal presupposto che l’agire umano è determinato prevalentemente dalle aspettative delle persone con cui veniamo a contatto e dalle norme di comportamento prescritte dallo ordinamento sociale. Ricorriamo invece al criterio della ‘finalizzazione’ quando partiamo dal presupposto che ogni persona cerca di raggiungere i propri fini anche indipendentemente dalle aspettative altrui; queste ultime vengono sì previste, ma solo in modo strumentale, per poter superare gli ostacoli frapposti al raggiungimento dei propri fini o per avvalersi dei vantaggi offerti.
Sono consapevole che questa succinta presentazione dell’argomento non può rendere piena giustizia al testo che segue, e questo salterà immediatamente agli occhi dalle pagine successive; con essa ho solo inteso indicare i punti di partenza e di arrivo della rigorosa esposizione del prof. Braga.
Alcune parole messe fra parentesi sono mie e sono utilizzate per ricucire il discorso in seguito allo stralcio di qualche rigo.

Cataldo Marino

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L’ “attore” come costrutto ipotetico

"Se potessimo stabilire in guisa univoca un rapporto fra azioni in entrata negli ed azioni in uscita dagli individui partecipanti ad un processo sociale, noi non avremmo necessità stretta di introdurre quel costrutto ipotetico che è l’ “attore” […] Il concetto di “attore”, costrutto ipotetico in quanto meccanismo interiore, ma esternamente denotabile, ci richiama il concetto di “scatola nera” dei teorici della “Cibernetica”, cioè di un apparato di cui si sanno le prestazioni esterne, ma non il meccanismo interno, che può essere ipotizzato a piacere.

Un costrutto ipotetico può essere sostituito a piacimento con un altro costrutto ipotetico, purché si parta dagli stessi dati sperimentali e le deduzioni verificabili, che se ne possono trarre, siano le stesse.
Nulla vieta dunque al sociologo di costruire il concetto di “attore”, ignorando, se crede, gli apporti degli psicologi. […] Resta (tuttavia la possibilità di ricorrere a qualcuno di essi), specie a quelli […] che si interessano a forme socialmente rilevanti. […] Esaminiamo dunque la recente rassegna delle teorie dell’apprendimento fatte dall’Hilgard, (il quale) ha trovato due gruppi di teorie contrastanti, non riducibili le une alle altre, anche se ambedue con la pretesa di poter spiegare tutti i fenomeni di apprendimento:
1) le teorie del tipo “stimolo e risposta”, che sottolineano il “condizionamento” delle azioni a stimoli (anche semplici percezioni, rappresentative o simboliche) associati in precedenza ad altre azioni;
2) teorie del tipo “conoscitivo, che danno risalto all’azione cosciente, per cui la dinamica delle motivazioni si svolge entro un quadro situazionale o cognitivo, appreso in gran parte per il tramite di percezioni e comunicazioni. […]
Ci troviamo dunque di fronte a due modelli distinti dell’attore, che sociologicamente potremo definire:
1) Il modello automatizzato, indicato spesso come meccanicistico od anche, con dubbia proprietà, irrazionale;
2) Il modello decisorio, indicato spesso come volontaristico, o anche, con dubbia proprietà, razionale.

Il modello automatizzato riesce a coprire i comportamenti sociali inconsci e quelli consci più elementari, ma non quelli più complessi. Viceversa il modello decisorio copre i comportamenti consci, compresi quelli più complessi – entro cui vi sono fenomeni di previsione, decisione e controllo – ma non quelli inconsci, spesso mascherati da epifenomeni di coscienza (razionalizzazioni, derivazioni paretiane, ecc.). La difficoltà di unificare i due modelli si è dimostrata, a tutt’oggi, insuperabile. Ciò condizionerà pesantemente i nostri ulteriori ragionamenti, i quali non si presenteranno di norma, entro un discorso unitario, ricostruzione realistica o tipica del mondo fenomenico, bensì per un duplice discorso, il quale porrà dei limiti ideali, fra i quali si svolgono i fenomeni reali.

Le dimensioni del campo sociale

Il campo sociale è la parte del mondo fenomenico entro cui operano gli attori. Esso, come tutte le porzioni del mondo fenomenico, ha una dimensione spaziale, o sincronica, ed una dimensione temporale, o diacronica.
Se noi consideriamo solo la dimensione sincronica, […] possiamo distinguere entro il campo:
- gli attori (o, se vogliamo essere precisi, tutti quei fenomeni che riferiamo agli attori);
- la situazione, concetto residuo, che comprende quanto nel campo non è attribuito agli attori.
Attori e situazione stanno interferendo fra di loro, per cui dalla situazione si distaccano: 1) gli elementi su cui gli attori esercitano la loro influenza (strumenti dell’azione); 2) gli elementi che esercitano la loro influenza sugli attori (vincoli dell’azione). D’altra parte, poiché gli attori sono più di uno, vi sono rapporti di interferenza fra gli attori. […]
Riesaminiamo il campo sociale dopo un certo lasso di tempo; ritroveremo ancora attori e situazione, però modificati. Quelle modifiche che sono dovute all’azione, chiameremo risultati dell’azione.

Se il modello dell’attore fosse quello ‘automatizzato’, conoscendo campo di partenza e leggi dell’azione potremmo preveder il campo d’arrivo. Mantenere il costrutto ipotetico dell’attore potrebbe essere utile, ma […] non indispensabile.
Ma, se considero il ‘modello decisorio’, devo ammettere, oltre alla temporalità attuale, una temporalità virtuale, cioè una capacità degli attori di previsione delle possibili future situazioni, ed una scelta fra i possibili risultati dell’azione. Tali risultati prescelti diremo fini dell’azione. L’introduzione della temporalità (virtuale) entro lo schema sincronico, e con esso dei fini, modifica la stessa descrizione del campo. Infatti, entro al campo, non devo considerare solo:
- gli strumenti attuali, ma anche quelli virtuali, comprendendoli sotto il temine complessivo di mezzi;
- i vincoli attuali, ma anche quelli virtuali, comprendendoli sotto il termine complessivo di condizioni.
Si noti che, così facendo, il limite fra mezzi e condizioni con la situazione residua, appare meno netto che non quello fra strumenti e vincoli con la detta situazione, poiché basta l’interesse di un attore a trasformare un fenomeno neutrale in mezzo o condizione.

Diremo finalizzazione dell’azione questo processo di inserimento dell’azione nella temporalità virtuale. La finalizzazione avrà una sua “portata” virtuale. Si possono anche considerare diversi livelli coesistenti di portata; per cui ciò che è un fine entro un livello di minore portata, può essere un mezzo in un livello di portata maggiore, mentre un mezzo idoneo entro una finalizzazione ravvicinata, potrà non esserlo entro una finalizzazione più profonda. […]
Anche l’interferenza fra azioni viene a trasformarsi, considerando il modello decisorio, in qualche cosa di più complesso che diremo complementarietà: per la quale gli attori tengono conto anche delle interferenze virtuali, sia a fini competitivi che collaborativi. Si noti, ancora, che certe interazioni gratificanti possono divenire fini per gli attori; in tal caso complementarietà e finalizzazione si confondono.
Abbiamo così identificato nella finalizzazione e nella complementarietà i due criteri analitici di base per l’ordinamento delle azioni. […]

L’ordinamento delle azioni secondo le due dimensioni è profondamente diverso, in quanto mentre la complementarietà implica una regolarità secondo le aspettative degli altri attori, la finalizzazione richiede significanza per singolo attore, che può anche proporsi di agire in modo del tutto inopinato per gli altri attori.
L’azione che non è ordinabile secondo l’uno o l’altro dei due criteri, è l’azione “fortuita” che costituisce come un residuo asociale, d’interesse quasi più del socio psichiatra che del sociologo, se non fosse che a quest’ultimo serve come origine o punto zero, da cui si iniziano i due ordinamenti.



Ordinamento dell’azione secondo la complementarietà.

Nell’ordinamento secondo complementarietà, l’azione la cui prevedibilità è massima è quella che potremmo indicare come “adempimento”. L’adempimento è pur esso un’azione piuttosto rara, la cui formalizzazione è estrema, in quanto in esso il rispetto della forma è essenziale a ciò che certi gruppi (soprattutto lo Stato) riconoscano una particola efficacia o validità dell’azione stessa. E’ evidente che fra i due estremi, dell’azione fortuita e dell’adempimento, vi è un continuo di situazioni, che noi possiamo raggruppare in un numero arbitrario di livelli. Una scala che reputi conveniente tre livelli intermedi, è la seguente:

1) azione condizionata, i cui limiti sono stabiliti da vincoli. Che potremo chiamare regole del gioco, non rispettando le quali si incorre in sanzioni, ossia azioni punitive da parte degli altri attori, a titolo personale o di gruppi più o meno estesi. […]
2) azione correlata (relazione sociale), facente parte di una relazione sociale, posizione di equilibrio fra azione condizionata ed azione secondo ruolo; in cui cioè, i ruoli sono ridotti a trame e vi può essere anche un distacco notevole da essi, purché entro limiti posti da regole;
3) azione secondo ruolo, fortemente vincolata dalle aspettazioni reciproche e complementari degli altri attori;

Ordinamento dell’azione secondo la finalizzazione.

Similmente, nell’ordinare secondo la finalizzazione e la sua portata, possiamo indicare come “azione teleologica”, quella che è perfettamente orientata al raggiungimento di un fine, senza limiti alla portata della previsione. Similmente fra azione fortuita ed azione teleologica, possiamo considerare un continuo di azioni, le cui caratteristiche di finalizzazione hanno portata crescente. Qui pure possiamo considerare quanti livelli intermedi vogliamo, e qui pure, per simmetria, ne sceglieremo tre, pervenendo alla scala seguente:

1) azione orientata (alternativa fra azioni), quella che si dirige verso un fine immediato, senza sforzo previsivo, come scelta fra alternative immediate;
2) azione concatenata (concatenazione di alternative), quella che si dirige verso un fine non immediato, ma non troppo lontano (se il fine è assai lontano, l’azione concatenata prende come fine intermedio una situazione più vantaggiosa per il raggiungimento del fine ultimo). Ogni scelta tiene conto delle possibili risposte degli altri attori, e delle successive scelte che tali risposte proporranno;
3) azione strategica, quella che si dirige verso un fine anche lontano, ma raggiungibile entro un numero limitato di mosse. Ogni scelta avviene fra strategie, ossia ogni mossa rende possibile un certo ventaglio di mosse, che tendono al raggiungimento del fine."

.* Brani tratti da: Giorgio Braga, “Le forme elementari della società”, Parte prima: L’accostamento analitico, pagg. 17-26, Quaderni dell’Istituto Universitario di Scienze Sociali di Trento, anno 1964

martedì 4 giugno 2013

Lidia Grimaldi: "Ritorno"

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Il paese compare all’improvviso, all’uscita da una galleria. Ha la testa incappucciata in un costone di roccia e sciacqua lembi di pelle disseccata nel mare. Lo attraverso dalla fine al principio, risalendo le sue gambe distese sulla sabbia sottile, immergendomi nel ventre palpitante di balconi barocchi, fino alla testa profumata di incenso dell'antica cattedrale normanna. Srotolando i volti che incrocio. Cercando quelli di una vita fa.
Il caffé bevuto a metà del percorso è forte e bollente, l’aria punge di salsedine. Dai vicoli salgono profumi di sale e fatica, di fiori appesi ai davanzali e vecchi sogni lasciati sui gradini di una chiesa. Hanno il sapore di ciò che ci appartiene per nascita, come il profilo del naso e la curva dei fianchi.
Mi chiedo se il basolato di questa via riconosca i miei passi come io riconosco ogni sua levigatezza scivolosa, ogni smusso di marciapiede. Se noi manchiamo ai luoghi come i luoghi mancano a noi, quando ce ne separiamo.

Eccomi, sono arrivata. Riesci a vedermi? O sei anche tu come le pietre su cui ho camminato sin qui?
Il giorno che sono partita, mi hai detto: -Segui il tuo destino e non preoccuparti per me-. Avevo vent'anni e non desideravo che preoccuparmi del mio destino. Qualcuno lo chiama egoismo, a volte è solo istinto di sopravvivenza. Ma il confine è sottile e facilmente lo si attraversa senza rendersene conto.
Poi, in un giorno di tregua, ho cercato di tornare indietro. Ma la strada della vita va in una sola direzione, avanti sempre finché ce n’è.
Forse è come hai sempre detto, c’è un destino che ci porta dove è scritto che dobbiamo arrivare, lasciandoci credere di essere liberi e che possiamo tornare a riprenderci quello che ci è sfuggito di mano strada facendo.
Sono venuta a riprendermi il pezzo del cuore che è rimasto con te. Ora che non ti serve più.
L’avevo lasciato qui da qualche parte. Nel tuo armadio, fra le vestaglie di seta del corredo, odorose di sogni, che non hai mai indossato e gli abiti dozzinali che hanno vestito i tuoi giorni senza sorprese.
L’avevo lasciato qui sulla veranda col gelsomino raccolto a profumare le pagine di una vita senza odore.
L’avevo lasciato accanto al tuo cuore rosso come l’amore che hai dato e che nessuno ha raccolto, e su quel molo dove andavi a rubare un po’ di azzurro per colorare giorni senza tinte.
L’avevo lasciato come si lascia la tristezza che rallenta il passo e il dolore che annebbia la vista. Come un bambino che ancora ha bisogno della madre.
L’avevo lasciato perché potesse riscaldare le tue notti di freddo. Affinché tu potessi consolarlo nei miei giorni di rimpianto.
L’avevo lasciato ma forse non ti è mai servito.
Come non è servito molto a me camminare con la metà del cuore da un’altra parte.

Lidia Grimaldi
(a Cefalù e a mia madre)


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Non so se definire prosa o poesia questa pagina di letteratura, una delle più belle che mi sia capitato di leggere. Della narrativa ha la consequenzialità logica e temporale, mentre della poesia ha il palpito della soggettività: la dilatazione e i restringimenti delle immagini reali e la proiezione dei sentimenti nel tempo.
Ho provato forte commozione nel leggerla, perché, nonostante io abbia quasi sempre vissuto nella mia terra d’origine – me ne sono allontanato per quattro anni solo per gli studi – avverto il dramma sotterraneo dei giovani che, per il lavoro, salirono sui treni maleodoranti di ieri e salgono sui velivoli low cost di oggi. Verso terre nuove, sconosciute, talvolta ostili.
Il dramma è sotterraneo perché, al momento della partenza, la giovane età porta ad essere fiduciosi e temerari; ma, col tempo, l’aspetto drammatico è destinato a riemergere, perché è difficile dimenticare i profumi, i colori, gli affetti, le sottili sfumature dei rapporti sociali nei quali la giovinezza si è incarnata.
Queste cose le scienze sociali non le dicono e, se le dicono, le mettono in secondo piano, come fatti quasi marginali. Esse ci danno degli indici approssimativi sul livello economico degli immigrati, sulla loro integrazione nel nuovo ambiente e sulle mutazioni determinate nelle strutture sociali, ma sul terreno della vita interiore devono cedere il passo alle testimonianze, alle confessioni, alla narrazione, al librarsi dei sentimenti attraverso le parole, a volte levigate e a volte aspre, della poesia.

Lidia Grimaldi è nata negli anni Cinquanta a Cefalù, una delle piccole perle delle coste siciliane che per il loro fascino attraggono tanto turismo e dalle quali è difficile allontanarsi senza portarsi dietro tanti ricordi. Appena ventenne si è trasferita in Lombardia, dove ha lavorato come impiegata, ha messo su famiglia ed ora ha la gioia di seguire i primi passi della sua prima nipotina. La sua produzione letteraria è stata profondamente segnata dalla perdita prematura del marito, trauma che permea in modo discreto e impercettibile gran parte dei suoi racconti e delle sue poesie. A partire dal 2007 pubblica i suoi scritti su Descrivendo.com, una piccola ma calda e accogliente community letteraria nella quale è nato, da parte mia, un sincero sentimento di ammirazione per la sua scrittura profonda e delicata.

Cataldo Marino

Altri scritti di Lidia Grimaldi su questo blog:
http://ilsemedellutopia.blogspot.it/2015/12/lidia-grimaldi-letterina-di-natale-al.html
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mercoledì 24 aprile 2013

Teatro in tv: margrant e giuliaservilia50

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Quando negli anni Cinquanta cominciarono le prime trasmissioni televisive, c’era un solo canale. Si iniziava alle 17 con la tv dei ragazzi, si proseguiva fino alle 20 con programmi vari e, dopo il telegiornale delle 20, con spettacoli di varietà, giochi e informazione; ma, almeno una volta la settimana, mi pare il venerdì, dopo il tg veniva dato spazio al Teatro. Un’offerta magra dunque, ma diversificata. Oggi, di canali, ce ne sono più di cento, ma si rassomigliano tutti in modo sfacciato: film o telefilm spesso di dubbia qualità, sport e chiacchiere a perdere.
Inutile rimpiangere il passato, dovremmo rimpiangere troppe cose. Meglio recuperare quanto si può e, per quanto riguarda il Teatro, questa possibilità oggi ci viene data principalmente da Youtube.

Ci sono alcuni signori i quali in questi anni, solo per passione e generosità, si sono sobbarcati il compito di ‘caricare’ su questo sito una bella quantità di opere teatrali trasmesse nel ventennio successivo alla nascita della tv italiana. Due di questi sono registrati su Youtube con gli username di ‘margrant’ e ‘giuliaservilia50’. Basta digitare uno di questi nomi su questo sito ed apparirà una lunga lista di commedie, drammi e tragedie ed una lunga serie di sceneggiati, all’epoca seguiti da un folto pubblico, che andava dagli analfabeti (negli anni ’50 in Italia ce ne erano ancora tanti) agli accademici, dai giovanotti ai vecchietti, dal manovale al capitano d’industria, dal valdostano al siciliano.
Oggi è così possibile vedere o rivedere sul monitor del computer quei grandi attori che, formatisi calcando le assi del palcoscenico, attraverso una telecamera e centinaia di antenne sparse sul territorio nazionale offrivano sapientemente i loro gesti e la loro voce ad un pubblico lontano. E, nonostante la qualità tecnica non sempre perfetta dei video per l’inevitabile logorio del supporto, è possibile rivederli come una volta, insieme ai familiari, anche in tv. Basta per questo riportare il video su ‘pennetta’ o dvd, facendo i seguenti passi (li elenco in modo minuzioso perché, soprattutto per le persone di una certa età - la mia - è difficile arrivarci senza un aiuto):

1) scaricare gratuitamente da internet il programma ‘a Tube Catcher’;
2) aprire il sito youtube e digitare:
‘margrant’
(pagina personale www.youtube.com/user/margrant/videos?flow=list&view=0&sort=dd&live_view=500 )
o ‘giuliagenito’
(pagina personale www.youtube.com/user/giuliaservilia50/videos);
3) scegliere il video preferito e copiare l’url segnato nel rigo in alto della pagina trovata;
4) riaprire il programma ‘a Tube Catcher', disattivare ‘turbo download’ per ottenere una migliore qualità del file e incollare nell’apposito spazio l’url dell’opera, prima copiato da youtube;
5) per il 'formato' scegliere ‘AVI DivX MPEG4’, adatto per un comune lettore Dvd e DivX e cliccare su ‘scarica’;
6) in 'Salva come', indicare se si vuole salvare il video sul Desktop o nella cartella Documenti.
Il download avviene in un tempo variabile (30-60 minuti, a seconda della durata e della qualità del video e, al termine dell’operazione, sul Desktop o fra i Documenti apparirà l’icona del video scaricato, che potrà poi essere copiato su dvd o pennetta.

Riporto qui di seguito, in ordine alfabetico, un elenco delle opere teatrali e degli sceneggiati caricati da ‘margrant’ e quindi un elenco dei principali interpreti di queste opere, molti dei quali già abbastanza noti a quelli della mia età e che potrebbero essere una gradevole ‘scoperta’ per i giovani che amano il teatro. Per i video caricati da ‘giuliaservilia50’, rinvio direttamente all’elenco da lei pubblicato su youtube.

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Opere teatrali e sceneggiati televisivi inseriti da 'margrant'

Abito nuovo (L’) – Pirandello e De Filippo
Alfiere (L’) – Carlo Alianello
Amicissimi – Pirandello
Angeli caduti – Noel Coward
Anna Karenina – Lev Tolstoj
Antonio e Cleopatra – Shakeaspeare
Aria del continente (L’) – Nino martoglio
Arlecchino servitore di due padroni – Goldoni
Assassinio nella cattedrale – Thomas S. Eliot
Avaro (L’) - Molière
Avventura di un povero cristiano (L’) - I. Silone
Avventure di Nicola Nickleby (Le) – Charles Dickens
Baruffe chiozzote (Le) – Goldoni
Bel ami - Guy de Maupassant
Bella bugiarda (La) – Rex Stout
Berretto a sonagli (Il) – Pirandello
Borghese gentiluomo (Il)- Moliere
Bottega del caffè (La) – Goldoni
Buddenbrook (I) - Thomas Mann
Cagnotte (Le) – Eugène Labiche
Canne al vento - Matilde Serao
Cappello del prete (Il) - Emilio de Marchi
Caravaggio – Andrea Barbato
Carlo Gozzi – Renato Simoni
Casa di Bernarda Alba – Garcia Lorca
Cavalleria rusticana - G. Verga
Ci ragiono e canto – Dario Fo
Cime tempestose - Emiliy Bronte
Cinque giornate di Milano (Le) – Leandro Castellani
Cittadella (La) – Joseph Cronin
Coefore (Le) – Eschilo
Conte di Montecristo – Alexander Dumas
Contessina Mizzy (La) – Arthur Schnitzler
Conversazione continuamente interrotta (La) – Ennio Flaiano
Corvi (I) – Enry Beckne
Così è se vi pare – Pirandello
Danza di morte - August Strindberg
Delitto retrospettivo – Agatha Christie
Demoni (I) – Fedor Dostoevskij
Diavolo Peter (Il) – Salvato Cappelli
Donna dei veleni (La) - John Dickinson
Donna del mare (La) - Henrik Ibsen
Donna Rosita nubile - Garcia Lorca
Dossier Mata Hari – Mario Landi
E le stelle stanno a guardare – Joseph Cronin
E.S.P. – Flavio NIcolini
Edipo Re – Sofocle
Ella si umilia per vincere – Oliver Goldsmith
Enrico IV – Pirandello
Enrico VI – Shakeaspeare
Eredità della priora (L’) – Carlo Alianello
Fedra - Jean Racine
Felicita Colombo – Giuseppe Adami
Fermo posta – Aldo De Benedetti
Fiaccola sotto il moggio (La) – G. D’annunzio
Fiera delle vanità (La) – W. Makepeace Thackeray
Figlia del capitano (La) – Alexander Puskin
Frana allo scalo nord – Ugo Betti
Gabbiano (Il) – Anton Cechov
Gallina vecchia – Augusto Novelli
Giardino dei ciliegi (Il) – Anton Cechov
Giocatore (Il) – Fedor Dostoevskij
Giulio Cesare - Shakeaspeare
Giusti (I) – Albert Camus
Gli spettri - Henrik Ibsen
Gli ultimi 5 minuti – Aldo De Benedetti
Grandi camaleonti (I) - Federico Zardi
Idiota (L’) – Fedor Dostoevskij
In memoria di una signora amica - Giuseppe Patroni Griffi
Ippocampo (L’) – Sergio Pugliese
Isola del Tesoro (L’) – R.L. Stevenson
Jane Eyre – Charlotte Bronte
Jekill – R. Stevenson
Lulù – Carlo Bertolazzi
Lumie di Sicilia – Pirandello
Lutto s’addice ad Elettra (Il) - Eugene O’Neill
Machbet – Shakeaspeare
Machbeth - Shakeaspeare
Madame Bovary – Gustave Flaubert
Malombra – Antonio Fogazzaro
Maria Stuarda – Friedrich Schiller
Mariti (I) – Achille Torelli
Masnadieri (I) – Friedrich Schiller
Mastro Don Gesualdo – Giovanni Verga
Matrimonio di Figaro – A. C. Beaumarchais
Memoires - Goldoni
Memorie del sottosuolo – Fedor Dostoevskij
Mercante di venezia (Il) - Shakeaspeare
Misantropo (Il) - Moliere
Miserabili (I) - Victor Hugo
Moglie ideale (La) – Marco Praga
Mondo è una prigione (Il) – Guglielmo Petroni
Mont Oriol - Guy de Maupassant
Napoleone a Sant’Elena – G. Bormioli
Napoli notte e giorno – Raffaele Viviani
Non si sa mai – G. B. Show
Nostra pelle (La) – Sabatino Lopez
Oreste – Euripide
Orgoglio e pregiudizio - Jane Austen
Orologio a cucù – Alberto Donini
Ospite inatteso (L’) – Agatha Christie
Ottocento – Salvator Gotta
Padri e figli – Fedor Dostoevskij
Palla al piede - Gerges Feydeau
Papà Goriot – Honoré de Balzac
Patente (La) - Pirandello
Persiani (I) – Eschilo
Piacere dell’onestà (Il) – Pirandello
Piccoli borghesi – Maxim Gorky
Potenza delle tenebre (La) – Lev tolstoj
Processo (Il) – Franz Kafka
Professione della signora Warren (La) – G.B. Show
Promessi sposi (I) – Alessandro Manzoni
Pulce nell’orecchio (La) – George Feydeau
Questa sera si recita a soggetto - Pirandello
Quinta colonna - Graham Greene
Ragioni degli altri (Le) - Pirandello
Re Lear – Shakeaspeare
Rebecca – Daphne du Maurier
Resurrezione – Lev Tolstoij
Ricorda con rabbia – John Osborne
Rinaldo in campo – Garinei e Giovannini
Ritrattazione (La) – Ottavio Jemma
Ritratto di donna velata – Paolo Levi
Ritratto di signora – Henry James
Romanzo di un giovane povero (Il) – Octave Feuillet
Romeo e giulietta - Shakeaspeare
Rusteghi (I) – Goldoni
Scuola delle mogli (La) – Molière
Segno del comando (Il) – Daniele D’Anza
Signora delle camelie (La) – Alessandro Dumas
Signora Morli 1 e 2 (La) – Pirandello
Sior Todaro brontolon – Goldoni
Sorelle materassi - Aldo Palazzeschi
Sospetto (Il) - Friedrich Durrenmatt
Tana (La) – Agatha Christie
Tenente Sheridan – Casacci, Ciambricco e Rossi
Tom Jones - Henry Fielding
Tramonto – Renato Simoni
Tre sorelle – Anton Cechov
Troiane (Le) – Euripide
Tutto per bene – Pirandello
Umiliati e offesi – Fedor Dostoevskij
Una tragedia americana - Theodore Dreiser
Vedova scaltra (La) - Goldoni
Venezia salvata – Thomas Otway
Visita della vecchia signora (La) – F. Durrenmatt
Vita che ti diedi (La) – Pirandello
Vita di Cavour - Giorgio Prosperi
Vita di Dante – Giorgio Prosperi
Vita di Michelangelo – Diego Fabbri


Elenco dei principali interpreti

Achille Millo, Adriana Asti, Alberto Lionello, Anna Maria Guarnieri, Anna Proclemer, Armando Francioli, Arnoldo Foà, Aroldo Tieri, Ave Ninchi, Bianca Toccafondi, Carla Gravina, Carlo Croccolo, Carlo Giuffrè, Cesco Baseggio, Corrado Pani, Elena Zareschi, Elio Pandolfi, Elsa Merlini, Emma Gramatica, Enrico Maria Salerno, Ernesto Calindri, Evi Maltagliati, Ferruccio De Ceresa, Fosco Giachetti, Franco Volpi, Gabriele Lavia, Gastone Moschin, Giancarlo Sbragia, Gianni Santuccio, Gianrico Tedeschi, Gilberto Govi, Giorgio Albertazzi, Giuliana Lojodice, Giulio Bosetti, Giulio Brogi, Giuseppe Pambieri, Glauco Mauri, Ilaria Occhini, Ivo Garrani, Lea Massari, Lia Zoppelli, Lilla Brignone, Lucilla Morlacchi, Luigi Vannucchi, Lydia Alfonsi, Marina Malfatti, Mario Feliciani, Mario Scaccia, Milena Vukotic, Monica Vitti, Nando Gazzolo, Nino Castelnuovo, Ottavia Piccolo, Paola Borboni, Paola Pitagora, Paola Quattrini, Paola Tedesco, Paolo Carlino, Paolo Ferrari, Paolo Poli, Paolo Stoppa, Raoul Grassilli, Renato De Carmine, Renzo Palmer, Rina Morelli, Roldano Lupi, Romolo Valli, Rossella Falk, Salvo Randone, Sarah Ferrati, Serge Reggiani, Sergio Tofano, Stefano Satta Flores, Tino Carraro, Ugo Pagliai, Umberto Orsini, Valentina Cortese, Valeria Moriconi, Valeria Valeri, Virna Lisi, Vittorio Caprioli, Vittorio Sanipoli, Warner Bentivegna,


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Note

1. Su Youtube sono presenti anche molte commedie di Eduardo De Filippo. Negli elenchi qui fatti non risulta nessun titolo e quasi nessuno dei loro interpreti, perché esse non rientrano fra i video caricati da ‘margrant’. Comunque, digitando sul sito il nome dell’autore, per nostra fortuna se ne troverà un gran numero.
2. Nella foto in alto una giovane e deliziosa Virna Lisi nello sceneggiato tratto dal romanzo Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen e trasmesso su Rai Uno nel 1957.
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venerdì 15 marzo 2013

Reddito di cittadinanza

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(Cliccare sull'immagine per ingrandire)

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A due settimane dal voto Ilvo Diamanti ha commentato i dati dell’Istituto di Ricerca ‘Demos & Pi’ sui risultati delle ultime elezioni in relazione a otto diverse categorie sociali.* La sua analisi, considerati gli spostamenti fra il 2008 e il 2013, porta a interessanti conclusioni:
- il centrodestra perde consensi fra imprenditori, lavoratori autonomi, operai attivi, disoccupati e in-occupati;
- il centrosinistra perde consensi fra impiegati, liberi professionisti e intellettuali;
- la base persa da ognuna delle due coalizioni non si è rivolta all’altra, ma ha scelto il M5S;
- i due principali partiti prendono voti principalmente fra le categorie non produttive, ‘quelle che guardano la tv’: il pdl fra le casalinghe e il pd fra i pensionati;
- si attenua il radicamento territoriale dei partiti: il pd perde consensi nell’Italia centrale; il pdl nel nord, nel sud e nelle isole; la Lega, nonostante il successo personale di Maroni, perde voti nel nord;
- il M5S si presenta come un partito interclassista, che prende voti da tutte le categorie e in tutto il territorio nazionale.
I flussi elettorali fra il 2008 e il 2013, evidenziati in varie tabelle della Demos&Pi, mi sembrano abbastanza chiari e credibili. A me interessa però scendere più nel dettaglio su una questione particolare e cioè sull’influenza che una proposta, agitata da Grillo nella fase finale della campagna elettorale, può aver esercitato sui risultati delle ultime elezioni: quella del ‘reddito di cittadinanza’, espressione con la quale egli nei suoi comizi sembra in effetti intendere un ‘reddito minimo garantito’ per chi perde il posto di lavoro e per i giovani in cerca di una prima occupazione.

Fra i disoccupati ed i giovani in-occupati Grillo prende il 42,7%, quasi quanto le altre due coalizioni messe assieme, mentre fra i pensionati il rapporto si capovolge e si ferma all’11,5%, contro il 71,7% delle due maggiori coalizioni.
Già a settembre del 2010 denunciai sul mio blog i pericoli di questa istigazione alla frattura generazionale, contestando una affermazione di Grillo “L’Italia è spaccata in due: non tra Nord e Sud, tra Sinistra e Destra, ma tra giovani e vecchi. I giovani non hanno nulla perché i vecchi hanno tutto”.** Se infatti è vero che in Italia, diversamente dalle altre nazioni europee, il welfare è rappresentato dalla solidarietà a livello familiare più che da una normativa statale, questa specifica analisi di Grillo forse meriterebbe… un Vaffa.
Tuttavia, a oltre due anni di distanza, devo dire che la sua ultima proposta sul reddito di cittadinanza – parzialmente condivisa dal PD, ma con toni sommessi e con le sue tipiche ambiguità - risulta essere oggi la più seria fra quelle messe in campo per far fronte alla grave crisi economica che attraversa l’Occidente. Un sussidio, che garantisca condizioni minime di vita anche a chi non ha la possibilità di lavoro, non è solo un principio di civiltà radicato nella cultura cristiana e negli ideali socialisti, ma una risposta concreta alle ripercussioni che la rivoluzione informatica e la globalizzazione dei mercati hanno avuto sull’economia e sulla società.
Non bisogna illudersi sulla transitorietà della crisi economica di questi anni, essa continuerà ancora per qualche decennio, e cioè fino a quando il costo del lavoro nei Paesi in via di sviluppo non avrà raggiunto gli stessi livelli dei Paesi europei e statunitensi. Finché le imprese avranno convenienza a spostarsi dove il lavoro costa meno e nessuno glielo impedirà, la disoccupazione e l’inoccupazione sono destinate a crescere.
Seguendo il trend economico degli ultimi venti anni, il numero di lavoratori attivi nei paesi sviluppati tenderà perciò a ridursi in modo considerevole, mentre crescerà quello dei lavoratori esclusi dal processo produttivo e, per motivi demografici, quello dei pensionati.

La prima risposta al problema della divaricazione del rapporto fra popolazione attiva e popolazione complessiva è venuta dai politici neoliberisti, i quali desiderano che tutta la ricchezza vada a chi è inserito nel processo produttivo e nulla a chi ne resta escluso. Tanto gli imprenditori quanto i lavoratori hanno accettato di sostenere il welfare state finché si trattava di aiutare un numero limitato di consumatori improduttivi, ma, quando il rapporto ha oltrepassato una certa soglia , essi hanno vissuto il contributo alla comunità come una ingiustizia, teorizzando cinicamente l’inevitabilità della emarginazione e dell’indigenza di larghe fasce di popolazione.
Adesso però il rapporto tende ad allargarsi oltre misura e si potrebbe progressivamente arrivare ad avere un lavoratore ogni due consumatori, e in futuro probabilmente a 1/3 e poi a 1/4. E’ l’effetto della tecnologia: basta pensare che fino a quarant’anni fa in banca il calcolo degli interessi per ogni singolo conto corrente si faceva ancora con la matita e la calcolatrice, mentre oggi i software informatici a disposizione risolvono tutto automaticamente, riducendo la necessità di lavoro umano.
Orbene, quando arriveremo ad avere un solo lavoratore attivo ogni 4 abitanti e si negherà un reddito di cittadinanza agli altri tre, è prevedibile una ribellione di questi ultimi, che nella migliore delle ipotesi finirà per influenzare gli orientamenti politici. E’ ciò che oggi già sta accadendo fra i giovani alla disperata ricerca di occupazione, ed è ciò che accadrà fra gli anziani quando, anche per lo scontro generazionale evocato e fomentato da Grillo, essi avranno pensioni del tutto inadeguate per le loro esigenze vitali. Un reddito minimo garantito a tutti rappresenta dunque l’unico modo civile di risolvere i problemi creati dalle trasformazioni dei sistemi produttivi e dalla libera circolazione di merci, capitali e lavoratori.

Bisognerà però anche affrontare il problema del ‘quantum’. Se oggi il salario medio netto di un lavoratore è di 1.000 euro e la stessa somma dovesse essere pagata dalla collettività a chi per motivi soggettivi o oggettivi resta inattivo, non ci sarebbe più alcuna spinta a cercare lavoro. Teniamo anche presente che l’elevato tenore di vita di cui si è goduto in Italia dagli anni Settanta in poi, ha abituato le nuove generazioni a una certa mollezza nei costumi e che comunque, se si può avere un dato reddito anche non lavorando, anche fra gli adulti pochi saranno quelli che sceglieranno di sacrificarsi per esso. Un amico residente in Svizzera, dove i sussidi per le categorie disagiate sono presenti, mi raccontava di un suo conoscente che ha volontariamente lasciato il lavoro per dedicarsi ad attività… più piacevoli.
Penso che un sussidio di 500 euro mensili consentirebbe di far fronte ai bisogni primari e che il suo costo per il bilancio dello Stato sarebbe pesante ma in fondo sostenibile. Ipotizzando per ora, in base alle stime ufficiali, circa 3 milioni di potenziali beneficiari, il costo complessivo sarebbe di 18 miliardi annui, su un totale della spesa pubblica di oltre 800 miliardi, cioè il 2,25%. Dove attingere queste risorse?
Nell’articolo del 26 luglio 2012 dal titolo “Il macigno del debito pubblico” *** ho riportato i dati sintetici di uno studio della Banca d’Italia, dal quale risulta che la ‘ricchezza delle famiglie italiane’ ammonta a 8.638 mld di euro. Poiché il 45% di tale ricchezza, pari a 3.887 mld, appartiene al 10% della popolazione, basterebbe introdurre una patrimoniale progressiva dallo 0,1 allo 0,8% annuo per far pagare alle famiglie super agiate che nuotano nell’abbondanza e negli sprechi - e non all’intera generazione degli anziani, come suggerito implicitamente due anni fa da Grillo – quanto necessario per raggiungere una economia sostenibile e per evitare pericolose tensioni sociali e politiche.
Gli altri Paesi dell’Unione Europea non dovrebbero avere nulla da obiettare, perché un reddito minimo garantito esiste già in Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Norvegia, Olanda e Lussemburgo. Mancano giusto l’Italia, la Spagna e la Grecia. Sarà un caso?

Note
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