giovedì 26 luglio 2012

Il Macigno del debito pubblico

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Circola da alcuni anni in Italia una teoria economica ampiamente strumentalizzata dalla destra liberista, secondo la quale nei Paesi con alto debito pubblico le generazioni degli anziani ne scaricherebbero il peso sui giovani. E poiché i partiti che si richiamano al socialismo stanno perdendo ogni collegamento con gli intellettuali e non sono più in grado di elaborare, come negli anni ’50 e ’60, delle proprie analisi e di sottoporre a severe critiche le pseudo-teorie come questa, essi non sanno cosa rispondere e spesso sono costretti ad impostare le loro linee politiche sui presupposti sbagliati degli avversari.
Il tormentone del “macigno del debito pubblico” attraversa così, senza ostacoli, la storia economica del nuovo millennio e in Italia giunge addirittura a fare della dottrina del pareggio di bilancio un principio costituzionale. Si arriva al paradosso che, qualora dovesse andare al governo qualcuno che crede in quei principi keynesiani che salvarono gli Usa e il mondo nel ’32, per applicarli si dovrebbe prima cambiare la Costituzione.

Ma adesso vediamo perché il “macigno del debito pubblico”, preso isolatamente, è un dato non determinante, e a tal fine facciamo due ipotesi esemplificative. Se un padre di famiglia spende più di quanto guadagna impiegando tutte le risorse disponibili nell’acquisto di beni di consumo, chiaramente caricherà sulle spalle dei figli il peso della sua cattiva amministrazione. Se invece il denaro è stato impiegato per l’acquisto di beni strumentali o durevoli – e fra questi io includerei, oltre i beni materiali, il patrimonio di conoscenze scientifiche ed umanistiche acquisito nelle scuole superiori – non si potrà dire la stessa cosa.
Similmente, se, a fronte del debito pubblico che pesa sullo Stato e quindi sui cittadini, si è costituito un patrimonio di valori immobiliari, di aziende di produzione e di risorse finanziarie, il debito pubblico viene ‘bilanciato’ dalla ricchezza privata, alla quale in qualche modo lo Stato potrà sempre attingere mediante una tassazione equa.

Uno studio della Banca d’Italia del 2011, relativo all’anno 2010, sulla “Ricchezza delle famiglie italiane” * evidenzia come la pseudo-teoria del “macigno del debito pubblico”, presentata nel 2010 da due studiosi dell’Università Cattolica di Milano e poi fatta propria da Monti e Tremonti, abbia scarso fondamento. Qui in alto, di esso si riporta la tavola 3A dalla quale si possono ricavare utili considerazioni.
I beni materiali e immateriali delle famiglie italiane ammontano, al netto dei debiti contratti verso le banche, a 8.638 mld di euro (8.638.000.000.000), pari a oltre 4 volte il debito pubblico, che è di 1.943 mld di euro.
Buona parte del debito - circa 1163 mld - è già compensato direttamente dai finanziamenti delle stesse famiglie italiane (181 mld con la sottoscrizione di titoli del Tesoro e 322 mld di depositi postali) o indirettamente da parte degli Istituti Finanziari italiani ( il 60% circa dei depositi bancari, dei fondi comuni di investimento e dei fondi pensione, pari a circa 660 mld,).
L’indebitamento verso l’estero, che dieci anni fa era solo del 10%, secondo lo studio citato, nel 2010 era salito a circa il 40% del debito pubblico, pari a circa 770 mld di euro. Il ricatto delle agenzie di rathing e degli speculatori finanziari internazionali nasce proprio dal fatto che gli italiani, pur avendo enormi capitali investiti in abitazioni (4.961 mld), terreni (235 mld), depositi bancari (657 mld), obbligazioni private (367 mld) e riserve di assicurazioni sulla vita (418 mld), non investono direttamente in titoli pubblici.

Di questo comportamento bisogna chiedersi il perché.
I titoli di Stato poliennali oggi hanno un buon rendimento, quasi il 4% annuo (un capitale di 300.000 euro ne frutta 12.000)**, mentre le abitazioni date in affitto rendono circa il 3% e le seconde case di villeggiatura – oggi detenute anche da lavoratori dipendenti e pensionati – hanno costi fiscali e di manutenzione che nella situazione attuale giustificano solo in parte il lusso di un mese di vacanze. La preferenza di impiego dei risparmi in depositi bancari allo zero per cento e di quelli postali a tassi poco più alti - cioè la preferenza per depositi altamente liquidi - è ancora più illuminante: la situazione politica viene percepita come un fattore ad alto rischio per i titoli pubblici, un rischio che annulla il vantaggio degli alti tassi di interesse dei titoli poliennali.

Stabilito che il debito pubblico nel suo insieme troverebbe potenziale copertura in un patrimonio privato considerevole, andiamo ad analizzare uno di quei ‘rapporti’ che lo studio della Banca d’Italia nella tavola 2A definisce ‘caratteristici’. La ricchezza netta pro capite, cioè la ricchezza netta delle famiglie italiane divisa per il numero di abitanti residenti, passa da 105.683 euro nel 1995 (l’importo è stato calcolato tenendo conto della conversione della lira in euro e depurato del tasso di inflazione) a 142.481 nel 2010 con un incremento del 34,82% mentre stranamente il pil in quegli stessi anni sembra essere cresciuto del 13,1% ***. In pratica, stando a questi dati, negli ultimi sedici anni l’Italia su base annua ha aumentato la produzione di beni e servizi dello 0,82% mentre i patrimoni delle famiglie sono aumentati del 2,18%, un divario che non trova altra spiegazione se non con l’occultamento di valore aggiunto da parte delle imprese per fini fiscali.

Andiamo adesso a ricomporre i dati sul debito pubblico e sulla ricchezza pro capite relativamente all’anno 2010. Chi non ha mai sentito parlare del fatto che ogni giovane eredita da genitori e nonni sperperatori (questo è l’attacco più insidioso del liberismo al welfare!) un debito di 33.000 euro? (Il calcolo è fatto dividendo 1.943 mld di euro per circa 60 mln di abitanti).
Bene, comincerei col notare che nelle eredità c’è sempre qualcuno che lascia qualcosa a qualcun altro e quindi ci sono circa 30 mln di persone di età compresa fra 0 e 40 anni che dovranno pagare il debito pubblico e circa 30 mln di ultraquarantenni che lasciano ai giovani questa penosa eredità (questo vale dall’introduzione dell’euro, perché fino a quel momento lo Stato pagava parte del debito stampando moneta e risolvendo il problema con l’inflazione, che ricadeva su tutti i cittadini). Dunque il debito che ciascuno lascia alle nuove generazioni non è di 33.000 ma di 66.000 euro.
Ma le nuove generazioni non ereditano solo il debito, ereditano anche la ricchezza delle famiglie, che, al netto delle passività finanziarie, ammonta a 8.638 mld di euro; dividendo tale somma per i circa 30 mln di giovani ereditieri, si ottiene un importo di 288.000 euro, rappresentati da appartamenti, terreni, imprese, depositi bancari e postali, valori mobiliari ecc. Detratti i 66.000 euro di passivo pro capite, rimangono per ciascun ‘erede’ 222.000 euro.
Certo, i calcoli fatti sono delle semplici medie statistiche e quindi, mentre i berlusca e i marchionne erediteranno milioni di euro, i figli del portalettere erediteranno qualcosa che va da 0 a 100.000 euro. Questi dati statistici confutano alle radici la nuova filosofia e la nuova retorica liberista.

Con i ragionamenti finora fatti non si vuole dire che i giovani oggi non abbiano problemi, ma solo che i loro problemi non dipendono dagli squilibri patrimoniali dello Stato. Le sofferenze dei giovani europei, statunitensi e giapponesi hanno radice nella globalizzazione dell’economia.
Il vituperato Marx aveva invitato gli operai di tutto il mondo ad unirsi contro il capitalismo. Imprenditori e speculatori finanziari hanno deriso quel motto, ma oggi lo hanno fatto proprio unendosi contro i lavoratori dipendenti. In pratica la teoria marxista fu da essi ritenuta errata e combattuta se applicata ai lavoratori, ma è risultata utilissima applicandola ai loro capitali.
I produttori asiatici hanno cominciato a produrre a costi bassissimi ed a vendere a prezzi estremamente competitivi sui mercati occidentali.
I produttori occidentali hanno spostato le fabbriche nei paesi in cui il lavoro costa poco, togliendo occupazione ai giovani dei loro Paesi.
I produttori occidentali fanno professione di xenofobia, ma poi sono ben contenti di spendere 30 euro al giorno per un lavoratore immigrato a cui si nega la residenza, piuttosto che 60-80 euro per un lavoratore nazionale che può vantare diritti economici e sindacali.
Questi sono oggi i fatti all’origine della recessione, dei licenziamenti e della disoccupazione giovanile nei Paesi europei, ed essi non hanno nulla a che vedere con il debito pubblico.

So che questa mia analisi sul rapporto fra debito pubblico e ricchezza nazionale privata risulterà per molti lettori di non facile e piacevole lettura (mi viene in mente l’imitazione televisiva di Bertinotti, quando snocciolava noiose cifre e percentuali!). Avrei dovuto semplificare calcoli e concetti, ma, per il caldo eccessivo di questa estate e per vari impegni personali, non ne ho avuto il tempo. Mi riservo di trarre da queste considerazioni qualcosa di più conciso e lineare in un futuro non troppo lontano.

Cataldo Marino

Note

Valori Concatenati ISTAT - Dal 2001 al 2005, Istat "Conti Economici Nazionali 2001-2005".