venerdì 22 luglio 2011

Brunetta e il giudice




Non è mio costume - non può essere nei costumi di qualunque uomo civile - far riferimento alle caratteristiche fisiche di una persona per poi tratteggiarla in modo tendenzioso. Ieri però in famiglia, parlando del ministro Renato Brunetta, a qualcuno è venuta in mente la canzone di Fabrizio De Andrè “Un giudice”. E tutti gli altri, fra i due personaggi, hanno immediatamente ravvisato alcune affinità.

Il “giudice” di cui si narra nella canzone è persona che reagisce positivamente ad una condizione di anomalia somatica, cercando una rivalsa in campo professionale. E fin qui la sua figura si staglia nell’alveo della normalità, anzi non può che suscitare ammirazione. E’ nel momento in cui l’emulazione si trasforma in mania di onnipotenza che la simpatia per il personaggio si trasforma nel suo opposto.
Non possiamo certamente imputare ai testi poetici di De André - il nostro più delicato e acuto cantautore, verso il quale la mia generazione è fortemente debitrice - una qualche forma di discriminazione nei confronti di chicchessia, perché i suoi versi sono spesso dedicati alla comprensione e alla riabilitazione morale di tutti coloro che la società ha cercato di emarginare. L’antipatia per il giudice di bassa statura parte dunque, non dalle sue caratteristiche fisiche, ma dalla sua voglia di prevalere sugli altri, approfittando della posizione sociale faticosamente raggiunta.

E a questo punto, mi dispiace dirlo, le analogie col ministro sono del tutto evidenti. Nulla a che vedere naturalmente con le sue posizioni politiche. Si tratta piuttosto della natura delle sue esternazioni: quello che dice (giudizi negativi sulle fasce sociali oggi più deboli) e come lo dice (strafottenza). Se lui è arrivato al gradino più alto degli studi e poi alla cattedra universitaria e poi alla carica di ministro, vuol dire che i “suoi giudici” non lo hanno penalizzato così tanto né hanno infierito su di lui. E allora perché, adesso, si permette di dire che i giovani lavoratori precari sono “la parte peggiore dell’Italia”? Perché nelle trasmissioni televisive risulta sempre così irruento e così tranchant? Da cosi gli viene tanta sicumera, se non anche una certa dose di cattiveria?
In questi giorni pare abbia sposato una donna affascinante, che lo supera facilmente di una o due spanne. Ne siamo tutti lieti, nessuna invidia, ognuno ha la compagna che merita, e lui merita molto perché è ministro, e poi perché, come sottolinea De Andrè, è possibile che fra le tante altre virtù possieda anche “la più indecente”. Tutto questo va bene, ma allora perché i tanti giovani precari, oltre a non poter mettere su famiglia con le loro forse meno appariscenti fidanzatine, debbono anche sopportare la sua arroganza e la sua derisione?

Qualcosa forse avrebbero da dirgli anche gli impiegati pubblici, che a suo vedere sono tutti degli scansafatiche e che perciò lui pretenderebbe di monitorare sul lavoro mese per mese, giorno per giorno, ora per ora. Eppure qualcuno ha fatto le pulci anche a lui – con le statistiche sulle sue presenze al Parlamento europeo - e pare che non fosse così zelante come ora pretenderebbe dagli altri.
Ma tutto questo trova una giustificazione. Anche se molto alto egli non è, poggia ormai i piedi su un piedistallo, che gli dà sufficiente autorità per dire ciò che vuole:
“… e allora la mia statura non dispensò più buonumore, a chi alla sbarra in piedi mi diceva Vostro Onore, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio, non conoscendo affatto la statura di Dio”.

Documenti video da Youtube:

http://www.youtube.com/watch?v=Go7cMxRnxy8
Brevissima biografia del ministro su “L’espresso”

http://www.youtube.com/watch?v=VBxHnnBw_VA&feature=fvst
La canzone di De Andrè associata ad alcune fotografie del ministro
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mercoledì 13 luglio 2011

Piazza del Campo (Divagazioni estive)



Una piazza è un vuoto circoscritto, un “non essere” che si guadagna un nome solo in virtù di ciò che esiste intorno. In base a questo concetto, non dovremmo mai poter dire che una piazza è più bella di un’altra. Eppure tutti diciamo che Piazza del Campo, Piazza S. Marco, Piazza Navona e Piazza S. Croce sono senz’altro più belle di tante altre. Questo unicamente a causa della bellezza degli edifici che le hanno create, lasciando fra di loro un certo spazio di una certa forma.
Quasi sempre al centro delle piazze si erige qualcosa che simbolicamente la vuole rappresentare – statua, obelisco o fontana o un qualunque altro elemento decorativo di pregio - ma chiaramente non sono queste cose a fare del vuoto una piazza. Il deserto, che sta ai quattro lati della piramide di Cheope, nessuno osa chiamarlo “Piazza Cheope”.

Sono cittadino di due città, che hanno lo stesso nome e costituiscono la stessa entità amministrativa. La prima, costruita in collina nel corso di mille anni, è fatta di viuzze e piazzette corrispondenti all’incirca alle “calli” e ai “campi” di Venezia, anche se non paragonabili a questi per il valore estetico degli edifici che li delimitano, e per quel solitario fondarsi di Venezia su acque lagunari. La seconda, costruita in pianura negli ultimi cinquant’anni, è fatta di strade larghe, costruite in funzione delle automobili più che delle persone; in pratica una copia più o meno bella di una qualunque periferia d’una qualunque grande città.
In pianura, quando negli anni Sessanta furono costruite due lunghe file di edifici, in un certo punto non fu più possibile continuare per la presenza di un torrente, del quale più tardi un bravo sindaco pensò bene di coprire l’alveo. Un lavoro ben fatto perché, trattandosi di un geologo, mise attenzione a convogliare le acque piovane in modo tale che fluissero senza pericoli. Quello “spazio”, una volta pavimentato, poté accogliere una fontana di discreto disegno, un traliccio che scimmiotta in modo pacchiano la Tour Eiffel e alcune panchine.

Oggi nella toponomastica cittadina quello spazio – delimitato solo da due miseri lati paralleli con edifici anni Settanta, privi di un qualunque accorgimento estetico - nell’ufficialità dei nomi risulta essere una “piazza”. Ma, a dispetto dell’etimologia (plateia), uno spazio ampio non designa di per sé una piazza. Senza una corte, non esiste un re.
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