giovedì 15 gennaio 2015

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà (1929), Capitolo 2






Voglio una vita maleducata, / di quelle vite fatte, fatte così./ Voglio una vita che se ne frega,/ che se ne frega di tutto, sì./ Voglio una vita che non è mai tardi,/ di quelle che non dormi mai./ Voglio una vita, di quelle che non si sa mai.
E poi ci troveremo come le stars,/ a bere whisky al Roxy bar./ O forse non c'incontreremo mai,/ ognuno a rincorrere i suoi guai./ Ognuno col suo viaggio,/ ognuno diverso/ e ognuno in fondo perso/ dentro i fatti suoi!
Voglio una vita spericolata,/ voglio una vita come quelle dei film./ Voglio una vita esagerata,/ voglio una vita come Steve Mc Queen./ Voglio una vita che non è mai tardi,/ di quelle che non dormi mai./ Voglio una vita, la voglio piena di guai!!!
(Vasco Rossi, Una vita spericolata, 1983)

Qualche mese fa avevo trascritto i versi di questa canzone, per contestare un’idea della vita, che io non condivido adesso e non condividevo neppure quando, come il suo autore, avevo poco più di trent'anni.
Non condivido l’idea di una vita maleducata e che se ne frega di tutto (perché bisogna rispettare le regole sociali fondamentali), né l’idea di una vita che non è mai tardi (perché la mattina bisogna pur andare a lavorare!), né l’idea di una vita di quelle che non si sa mai (perché alla base di ogni vita è necessario un progetto). Non mi piace neppure il sogno maniacale di ritrovarsi al bar con gli amici, bevendo whisky come le star, per scoprire poi di essere comunque soli; né l’idea di sfidare i pericoli per il gusto masochistico dei guai che inevitabilmente ne derivano.

Misi poi da parte l’idea di approfondire quell’argomento per due motivi: 1) sono passati tanti anni da quell’Italia giovane e prorompente in cui è nata la canzone: è invecchiata l’Italia tutta e, con essa, forse anche la canzone di Vasco; 2) anche se non condividevo e non condivido lo spirito di quella canzone, devo ammettere che, sotto il profilo musicale, in questi trent’anni, Vasco Rossi è rimasto l’unico cantautore che riesca a comunicare emozioni. Prima di lui ne abbiamo avuti tanti – De André, Jannacci, Battisti, De Gregori, Dalla, Conte – ma da un certo punto in poi la canzone d’autore, come tutte le altre forme artistiche, in Italia e in Europa si sono inaridite. E allora ben venga uno che, pur con i suoi vizi e stravizi (il prezzo che quasi sempre si paga alla celebrità), a sessant’anni, con una musicalità alta e testi colloquiali, a momenti quasi recitativi, continua a spendersi in concerti dal vivo e confessa:  Voglio trovare un senso a questa vita,/anche se questa vita un senso non ce l’ha.

Però – viene da chiedersi - è proprio vero che la vita non ha un senso? Per Vasco Rossi, e per tutti coloro che, sentendo le sue canzoni, nutrono lo stesso timore, forse troviamo una qualche risposta nel secondo capitolo de “Il disagio della Civiltà” di Sigmund Freud, uno studioso che nella terapia dei disturbi psichici - forse per un’esagerata centralità attribuita alla sfera sessuale – purtroppo ha col tempo ceduto il primato della parola e del dialogo agli psicofarmaci; i quali possono rallentare o accelerare, ma mai mutare in profondità, i moti dell’anima e il sistema di valori e di idee, cristallizzati nel corso della vita.

Riproporre questo scritto di Freud non significa da parte mia una adesione indiscriminata ad ogni sua singola considerazione, ma solo alla impostazione generale, nella quale intravvedo una forte assonanza con gli assiomi della filosofia buddista sull’origine del dolore: 1) l'unione con quel che dispiace; 2) il non ottenere ciò che si desidera; 3) la separazione da ciò che piace (importante distinguere il ‘non ottenere’ ciò che si desidera dalla ‘separazione’ da ciò che si è già ottenuto).
Se simile è la diagnosi, diversa è però la terapia. Per il buddismo la sofferenza si evita semplicemente allontanandosi da qualunque desiderio egoistico. Per Freud si pone invece un dilemma. Alcuni desideri, anche se ‘rimossi’ dalla nostra memoria in quanto contrastano con la realtà sociale, continuano a creare tensioni e sofferenze interiori; d’altro canto, il dare libero sfogo indiscriminatamente a tutti i desideri renderebbe impossibile la convivenza civile. Secondo lui, pertanto, ogni uomo in base alla propria ‘costituzione psichica’ deve trovare una combinazione personale (‘economia libidica individuale’) fra il perseguimento dei propri impulsi (felicità positiva) e le varie forme di controllo o sublimazione degli impulsi (assenza del dolore).

Il brano che segue è il testo originale delle pagine citate (mancano solo alcune brevi considerazioni critiche iniziali e finali sulla religione, che in questo capitolo del libro a mio parere non sono essenziali e sufficientemente sviluppati) ma, per una lettura più adatta al web, mi sono permesso di suddividerlo in piccoli paragrafi, preceduti da un titolo indicativo dell’argomentazione, e di evidenziare in corsivo qualche concetto.

Cataldo Marino

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Sigmund Freud


[I rimedi contro le avversità della vita]

La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi; ci reca troppi dolori, disinganni, compiti impossibili da risolvere. Per sopportarla abbiamo assolutamente bisogno di qualche palliativo. (“Impossibile farcela senza costruzioni ausiliarie”, ci ha detto Theodor Fontane). Tre sono forse i rimedi di questo tipo: 1) diversivi potenti, che ci fanno prendere alla leggera la nostra miseria; 2) soddisfacimenti sostitutivi, che la riducono; 3) sostanze inebrianti, che ci rendono insensibili ad essa. Qualcosa del genere è indispensabile. Voltaire allude appunto ai diversivi allorché conclude il suo 'Candide' con il consiglio di coltivare il proprio giardino; anche l’attività scientifica è un diversivo di questo genere. I soddisfacimenti sostitutivi che l’arte offre agli uomini sono illusioni che contrastano con la realtà; non per questo, tuttavia, sono psichicamente meno efficaci, data la funzione che la fantasia ha assunto nella vita psichica. Gli inebrianti influiscono sul nostro corpo e ne alterano il chimismo. Indicare il posto della religione entro questa serie non è semplice. Dovremo prendere le mosse più da lontano.

[Lo scopo della vita]

La domanda circa lo scopo della vita umana è stata posta innumerevoli volte, ma non ha ancora trovato una risposta soddisfacente, forse non la consente nemmeno. Alcuni di quelli che l’hanno posta hanno aggiunto che, se dovesse risultare che la vita non ha uno scopo, essa perderebbe ai loro occhi qualsiasi valore. Ma questa minaccia non cambia nulla. È verosimile, invece, che questa domanda possa essere legittimamente respinta. Sua premessa appare infatti quella presunzione umana di cui già conosciamo tante altre manifestazioni. Non si parla di uno scopo della vita degli animali, sempre che il loro destino non consista per caso nel porsi al servizio dell’uomo. Neanche questo tuttavia è sostenibile; di molti animali l’uomo non sa infatti che farsene, salvo descriverli, classificarli, studiarli; innumerevoli specie animali si sono sottratte persino a questa utilizzazione, essendo vissute ed essendosi estinte prima che l’uomo le vedesse. Ancora una volta, soltanto la religione sa rispondere alla domanda circa uno scopo della vita. Difficilmente potremo sbagliare nel giungere alla seguente conclusione: l’idea di uno scopo della vita sussiste e cade insieme con il sistema religioso.

Ci chiederemo quindi, meno ambiziosamente, che cosa, attraverso il loro comportamento, gli uomini stessi ci facciano riconoscere come scopo e intenzione della loro vita, che cosa pretendano da essa, che cosa desiderino ottenere in essa. Mancare la risposta è quasi impossibile: essi tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici.
Questo desiderio ha due facce, una mèta positiva e una negativa: mira da un lato all’assenza del dolore e del dispiacere, dall’altro all’accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Nella sua accezione più stretta la parola “felicità” viene riferita solo al secondo aspetto. Conformemente a questa bipartizione delle mete l’attività degli uomini si sviluppa in due direzioni, secondo che cerchi di raggiungere – in misura prevalente o addirittura esclusiva – l’uno o l’altro obiettivo.

Come si vede, molto semplicemente, il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo dell’esistenza umana. Questo principio domina il funzionamento dell’apparato psichico fin dall’inizio; non può sussistere dubbio sulla sua efficacia, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. È assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell’universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l’intento che l’uomo sia “felice”. Quel che nell’accezione più stretta ha nome felicità, scaturisce dal soddisfacimento, perlopiù improvviso, di bisogni fortemente compressi e, per sua natura, è possibile solo in quanto fenomeno episodico. Qualsiasi perdurare di una situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un sentimento di moderato benessere; siamo così fatti da poter godere intensamente soltanto dei contrasti, mentre godiamo pochissimo di uno stato di cose in quanto tale.(1) Le nostre possibilità di essere felici sono dunque già limitate dalla nostra costituzione. Provare infelicità è assai meno difficile. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia; dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane; infine, dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra; propendiamo a considerarla in certo qual modo un ingrediente superfluo, quantunque possa essere non meno fatalmente inevitabile della sofferenza di provenienza diversa.

[Il principio di realtà]

Nessuna meraviglia se, sotto la pressione di queste possibilità di soffrire, gli uomini sogliono ridurre la loro pretesa di felicità, così come, sotto l’influsso del mondo esterno, anche lo stesso principio di piacere si trasformò nel più modesto principio di realtà; nessuna meraviglia se ci riteniamo felici per il solo fatto di scampare all’infelicità, di sopportare la sofferenza, se, nel senso più generale, il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello di procurarsi il piacere. La riflessione insegna che è possibile tentare di portare a termine questo compito per vie molto diverse; tutte queste vie sono state raccomandate dalle varie scuole della saggezza del vivere e percorse dagli uomini. Il soddisfacimento sfrenato di tutti i bisogni si propone come la condotta di vita più seducente del mondo; ciò significa però anteporre il godimento alla prudenza e, dopo non molto, implica il proprio castigo. Gli altri metodi intesi massimamente a evitare il dispiacere si diversificano secondo la fonte di dispiacere cui accordano prevalente attenzione. Esistono metodi radicali e metodi moderati, metodi unilaterali e metodi concernenti contemporaneamente più aspetti. La volontaria solitudine, il distanziarsi dagli altri sono il riparo più immediato contro il tormento che possono arrecarci le relazioni con gli altri uomini. La felicità conseguibile in tal modo è, ovviamente, quella della quiete. Contro il temuto mondo esterno non possiamo difenderci che sottraendoci in qualche modo ad esso, se vogliamo portare a termine questo compito da soli.
C’è naturalmente un altro modo migliore: con l’aiuto della tecnica, guidata dalla scienza, passare in quanto membri della comunità umana ad aggredire la natura e ad assoggettarla al volere umano. Si lavora allora con tutti per il bene di tutti.

[L’intossicazione]

I metodi più interessanti di prevenzione della sofferenza sono quelli che cercano d’influire sullo stesso organismo che soffre. Dopo tutto ogni sofferenza non è che sensazione, sussiste nella sola misura in cui la proviamo e la proviamo solo perché il nostro organismo è fatto in un determinato modo.
Il più rozzo, ma anche il più efficace metodo per influire sull’organismo è quello chimico: l’intossicazione. Non credo che qualcuno sia in grado di penetrarne il meccanismo, ma è un fatto che esistono sostanze estranee al corpo la cui presenza nel sangue e nei tessuti ci procura immediatamente sensazioni piacevoli, alterando in pari tempo le condizioni della nostra vita senziente al punto da renderci incapaci di accogliere moti spiacevoli. I due effetti non si limitano a essere simultanei, sembrano anche intimamente correlati. Anche nel nostro stesso chimismo devono però esserci sostanze che producono risultati simili; conosciamo infatti almeno uno stato patologico, la mania, in cui si produce tale comportamento affine all’ebbrezza senza che sia stato somministrato alcun tossico inebriante. La nostra vita psichica normale presenta inoltre delle oscillazioni: il piacere può sprigionarsi con maggiore o minore facilità cui si accompagna una diminuita o accresciuta recettività al dispiacere.
È un vero peccato che questo aspetto tossico dei processi psichici si sia sottratto a tutt’oggi all’investigazione scientifica. Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto ben preciso nella loro economia libidica. Dobbiamo ad essi non solo l’acquisto immediato di piacere, ma anche una parte, ardentemente agognata, d’indipendenza dal mondo esterno. Con l’aiuto dello “scacciapensieri” sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori.
È noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze si sciupano inutilmente grandi quantità di energia che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della sorte umana.

[Il controllo delle pulsioni]

La complicata struttura del nostro apparato psichico consente però anche [di esercitare sull’organismo] tutta una serie di altri influssi. Come il soddisfacimento pulsionale è fonte di felicità, così il mondo esterno è causa di grave sofferenza quando ci fa vivere in condizioni disagiate, quando ricusa di saziare i nostri bisogni. Possiamo dunque sperare di liberarci di parte della sofferenza agendo su tali moti pulsionali. Questo tipo di difesa dal dolore non riguarda più l’apparato sensitivo, in quanto tenta di esercitare un ferreo dominio sulle fonti interne dei bisogni. In forma estrema ciò accade allorché le pulsioni vengono mortificate, secondo quanto insegna la saggezza orientale e la pratica dello Yoga. Se la cosa riesce, ne deriva indubbiamente anche la rinuncia ad ogni altra attività (è la vita stessa a esser sacrificata), ossia, in modo diverso, si ottiene ancora una volta soltanto la felicità della quiete. Il medesimo cammino viene da noi percorso, sia pure in vista di mete più modeste, quando miriamo soltanto al governo della vita pulsionale. Prevalgono allora le istanze psichiche superiori che si sono assoggettate al principio di realtà. Questo caso non esige alcuna rinuncia all’intento del soddisfacimento; una certa protezione contro la sofferenza viene ottenuta per il fatto che, quando le pulsioni sono signoreggiate, il mancato loro soddisfacimento non viene sentito così dolorosamente come quando esse non hanno subito inibizioni di sorta. Ciò comporta tuttavia anche un’innegabile riduzione delle possibilità di godimento. Il senso di felicità derivante dal soddisfacimento di un moto pulsionale selvaggio, che l’Io non controlla in alcun modo, è incomparabilmente più intenso di quello che si ottiene saziando una pulsione addomesticata. L’irresistibilità degli impulsi perversi, e forse in genere il fascino del proibito, trovano qui una spiegazione economica.

[La sublimazione delle pulsioni]

Un’altra tecnica per sottrarsi al dolore ricorre agli spostamenti della libido, che il nostro apparato psichico consente e in virtù dei quali la funzione dell’apparato acquista tanta duttilità. Si tratta di dislocare le mete pulsionali in modo tale che esse non possano soggiacere alla frustrazione ad opera del mondo esterno. A ciò presta il suo aiuto la sublimazione delle pulsioni. Viene ottenuto il massimo allorché si riesce ad accrescere in misura sufficiente il piacere tratto dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale.(2) Il destino può allora nuocerci limitatamente. Un soddisfacimento del genere, la gioia che ad esempio prova l’artista nel creare e dar corpo alle immagini della sua fantasia, o quella del ricercatore che risolve problemi e scopre il vero, ha una qualità particolare, che certamente un giorno riusciremo a caratterizzare in termini metapsicologici. Per ora possiamo dire soltanto, in modo figurato, che questa gioia ci sembra “più fine e più elevata” ma che, a paragone di quella derivante da moti pulsionali più rozzi, primari, che siano stati saziati, la sua intensità è minore: non scuote la nostra esistenza corporale.
La debolezza di questo metodo sta però nel fatto che non è applicabile universalmente, essendo accessibile solo a pochi. Presuppone particolari disposizioni, o doti, che non tutti hanno. Neanche a tali pochi è in grado di garantire una protezione completa contro la sofferenza, non procura ad essi una corazza impenetrabile contro i dardi del destino e normalmente fallisce quando la fonte della sofferenza è il nostro corpo.

[La vita fantastica]

Se già nel precedente procedimento è palese l’intento di rendersi indipendenti dal mondo esterno cercando i propri soddisfacimenti in processi interni, psichici, in quello che segue queste medesime caratteristiche hanno un rilievo ancora maggiore. Qui la connessione con la realtà è meno salda ancora, otteniamo il soddisfacimento mediante illusioni riconosciute come tali, senza lasciarci turbare nel godimento dal divario che le separa dalla realtà. L’ambito dal quale scaturiscono queste illusioni è quello della vita fantastica; a suo tempo, quando si compì lo sviluppo del senso della realtà, essa venne espressamente sottratta alle pretese dell’esame di realtà e rimase destinata all’appagamento di desideri difficilmente realizzabili. Il primo posto fra queste soddisfazioni fantastiche è occupato dal godimento delle opere d’arte, reso accessibile, anche a colui che non è creatore in proprio, attraverso la mediazione dell’artista.
Chi è sensibile all’influsso dell’arte non lo stimerà mai abbastanza come fonte di piacere e consolazione nella vita. La lieve narcosi in cui l’arte ci trasferisce non può tuttavia offrirci che un’evasione temporanea dagli affanni della vita e non è abbastanza forte da farci dimenticare la nostra reale miseria.

[La fuga dalla realtà]

Più energicamente e più radicalmente opera un altro procedimento: esso scorge nella realtà l’unico nemico, quello che è la fonte di ogni male, quello con cui è impossibile vivere, con cui occorre quindi troncare ogni rapporto, se in qualche modo si vuole essere felici. L’eremita volta le spalle a questo mondo, non vuole avere nulla a che spartire con esso.
Ma si può fare di più, si può voler trasformare il mondo, costruendo al suo posto un mondo diverso in cui le caratteristiche più intollerabili risultino eliminate e sostituite da altre caratteristiche consone ai propri desideri. Chi in una rivolta disperata imbocca tale cammino verso la felicità, non ottiene di regola nulla; la realtà si dimostra per lui troppo forte ed egli diventa un pazzo, che non riesce a realizzare il suo folle desiderio e non trova perlopiù nessuno disposto a dargli una mano.
È stato detto tuttavia che per qualche aspetto ognuno di noi si comporta come il paranoico, correggendo, tramite una formazione di desiderio, un lato del mondo che gli è intollerabile e iscrivendo nella realtà questo delirio. Importanza particolare riveste il caso in virtù del quale un numero notevole di persone si accinge insieme al tentativo di procurarsi una garanzia di felicità e un riparo dalla sofferenza mediante una trasformazione delirante della realtà. Alla stregua di deliri collettivi siffatti dobbiamo caratterizzare anche le religioni dell’umanità. Va da sé che il delirio non è mai riconosciuto come tale da coloro che ancora ne sono coinvolti.

[La felicità positiva]

Non credo che questa rassegna dei metodi con cui gli uomini si sono sforzati di acquisire la felicità e di tenere lontano il dolore sia completa: so del pari che la materia potrebbe essere distribuita diversamente. Uno di questi procedimenti non è ancora stato da me menzionato, non perché lo abbia dimenticato, ma perché dovremo occuparcene in un altro contesto. Come sarebbe possibile, del resto, dimenticare proprio questa tecnica dell’arte del vivere? Essa si distingue per una convergenza quanto mai singolare di tratti caratteristici. Anch’essa naturalmente lotta per l’indipendenza dal destino – non saprei come meglio chiamarlo – e a questo scopo trasferisce il soddisfacimento in processi psichici interni, servendosi della possibilità testé menzionata di spostare la libido; tuttavia, al tempo stesso, non volta le spalle al mondo esterno, al contrario si àncora saldamente agli oggetti di questo e raggiunge la felicità istituendo una relazione emotiva con tali oggetti. Nel far ciò non si accontenta della meta di evitare il dispiacere, ispirandosi per così dire a una fiacca rassegnazione; a questa meta passa accanto senza accorgersene e si attiene invece all’anelito originario, appassionato, verso una felicità positiva.
Forse questa tecnica giunge davvero più vicino alla felicità di qualsiasi altro metodo. Sto parlando naturalmente di quell’indirizzo della vita che fa dell’amore il centro di tutto, attendendosi ogni soddisfazione dall’amare e dall’essere amati. Un atteggiamento psichico di questo genere è abbastanza familiare a noi tutti; una delle forme in cui l’amore si manifesta, l’amore sessuale, ci ha procurato la più intensa esperienza di una travolgente sensazione di piacere, fornendoci il modello di quel che andiamo cercando quando inseguiamo la felicità. Che cosa c’è di più naturale del persistere a cercare la felicità su quella stessa via ove per la prima volta l’abbiamo incontrata?
Il lato debole di questo modo di vivere è evidente; altrimenti nessuno avrebbe pensato di abbandonare questa via per raggiungere la felicità in favore di un’altra. Mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l’oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici. Ma con questo non abbiamo esaurito tutto quel che c’era da dire sulla tecnica di vita basata sul valore dell’amore per la felicità; anzi a tal riguardo ci restano ancora molte cose da chiarire.

[La bellezza]

Possiamo inserire qui l’interessante caso in cui la felicità nella vita viene cercata prevalentemente nel godimento della bellezza, dovunque essa si presenti ai nostri sensi e al nostro giudizio: la bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e persino scientifiche. Questo atteggiamento estetico in relazione allo scopo della vita offre scarsa protezione contro la sofferenza incombente, ma può in grande misura compensarla. Il godimento della bellezza si distingue per un suo modo di sentire particolare, leggermente inebriante. L’utilità della bellezza non è evidente, che sia necessaria alla civiltà non risulta a prima vista, eppure la civiltà non potrebbe farne a meno. La scienza dell’estetica studia le condizioni per cui il bello è sentito come tale, ma non è stata in grado di fornire spiegazione alcuna circa la natura e l’origine della bellezza; come al solito, l’assenza di risultati è tenuta celata da uno sfoggio di parole altisonanti e povere di contenuto. Purtroppo anche la psicoanalisi ha pochissimo da dire sulla bellezza. Una cosa sola sembra certa: che l’amore per il bello tragga origine dalla sensitività sessuale; esso sarebbe un classico esempio di impulso inibito nella meta. “Bellezza” e “attrattiva” sono originariamente attributi dell’oggetto sessuale. È per altro notevole che gli organi genitali, la cui vista è sempre eccitante, quasi mai sono ritenuti belli, e invece sembra che il carattere della bellezza appartenga a certi caratteri sessuali secondari.

[L’economia libidica individuale]

Nonostante l’incompletezza della mia rassegna, azzardo sin d’ora alcune osservazioni a conclusione della nostra indagine. Il programma impostoci dal principio di piacere (raggiungere la felicità) è irrealizzabile; tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo abbandonare il tentativo di accostarci a questo adempimento. Si possono prendere molte strade diverse in questa direzione; o mettere innanzi il contenuto positivo della meta: il conseguimento del piacere, oppure il contenuto negativo: l’elusione del dispiacere. Per nessuna di queste strade possiamo ottenere tutto ciò che desideriamo.
La felicità, in quell’accezione ridotta in cui è considerata possibile, è un problema dell’economia libidica individuale. Non vi è qui un consiglio che valga per tutti; ogni individuo deve trovare da sé la maniera particolare in cui può essere felice. Fattori i più diversi contribuiranno a indicargli la strada da percorrere. Questa dipende da quanto reale soddisfacimento egli può aspettarsi dal mondo esterno e fino a che punto è disposto a rendersi indipendente da esso; infine, anche, da quanta forza crede di avere per modificarlo secondo i propri desideri.
In questo riguardo la costituzione psichica dell’individuo, al di là delle condizioni esterne, sarà decisiva. L’uomo prevalentemente erotico metterà innanzi a tutto le relazioni emotive con gli altri; il narcisista, che è più incline all’autosufficienza, cercherà i soddisfacimenti essenziali nei suoi processi psichici interni; l’uomo d’azione non abbandonerà mai il mondo esterno su cui può saggiare la sua forza. Nel secondo di questi tipi, le doti naturali e il grado di sublimazione pulsionale che l’individuo è in grado di raggiungere determineranno l’orientamento dei suoi interessi.
Ogni scelta portata agli estremi finisce con l’autopunirsi, perché espone l’individuo ai pericoli che una tecnica di vita adottata in maniera esclusiva reca inevitabilmente con sé, proprio per la sua inadeguatezza. Come il commerciante prudente evita d’investire tutto il suo capitale in una sola impresa, così, forse, anche la saggezza che nasce dall’esperienza della vita ci consiglierà di non attenderci tutto il soddisfacimento da una sola aspirazione. Il successo non è mai sicuro, dipende dall’azione congiunta di molteplici fattori e, forse, più che da ogni altra cosa dalla capacità della costituzione psichica di adeguare la propria funzione al mondo circostante e di usarlo per trarne piacere.
Chi ha una costituzione pulsionale particolarmente sfavorevole e non ha correttamente effettuato la trasformazione e il riordinamento delle proprie componenti libidiche, operazioni davvero indispensabili per qualsiasi prestazione futura, difficilmente potrà raggiungere la felicità partendo dalla sua condizione esterna, specie se si troverà di fronte a compiti piuttosto difficili. Come ultima tecnica di vita, che gli promette se non altro soddisfacimenti sostitutivi, gli si offre la fuga nella malattia nevrotica, che il più delle volte egli adotta fin dai suoi giovani anni. Chi poi negli anni più avanzati vede delusi i propri sforzi verso la felicità, trova ancora consolazione nel procurarsi piacere tramite l’intossicazione cronica, oppure si butta in quel disperato tentativo di rivolta che è la psicosi.

Note

(1) Goethe giunge ad ammonire che “niente è più difficile da sopportare di una serie di belle giornate”.
(2) […]. Non è possibile nello spazio di un’esposizione sommaria valutare adeguatamente il significato del lavoro per l’economia libidica. Nessun’altra tecnica di condotta della vita lega il singolo così strettamente alla realtà come il concentrarsi sul lavoro, poiché questo lo inserisce sicuramente almeno in una parte della realtà, nella comunità umana. La possibilità di spostare una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive, e perfino erotiche sul lavoro professionale e sulle relazioni umane che ne conseguono, conferisce al lavoro un valore in nulla inferiore alla sua indispensabilità per il mantenimento e la giustificazione dell’esistenza del singolo nella società. L’attività professionale procura una soddisfazione particolare se è un’attività liberamente scelta, tale cioè da rendere utilizzabili, per mezzo della sublimazione, inclinazioni preesistenti, moti pulsionali persistenti cui già per costituzione l’individuo è vigorosamente predisposto. Eppure il lavoro come cammino verso la felicità è stimato poco dagli uomini. Non ci si rivolge ad esso come alle altre possibilità di soddisfacimento. La grande maggioranza degli uomini lavora solo se spinta dalla necessità, e da questa naturale avversione degli uomini per il lavoro scaturiscono problemi sociali spinosissimi.

Sigmund Freud, "Il disagio della civiltà" (1929) - Capitolo 2