mercoledì 9 luglio 2014

I Tedeschi? Eh, loro son fatti così!



Non scrivo di sport perché lo seguo poco e perciò non me ne intendo. Ma, sulla partita di calcio di ieri fra Germania e Brasile, mi viene qualche riflessione personale immediata.
L’altro giorno Beppe Severgnini ha detto in tv che ogni squadra in fondo rispecchia il carattere del suo popolo ed ha fatto degli esempi che cito a memoria: gli Inglesi giocano per giocare, gli Italiani cominciano a dare il meglio di sé quando sono con le spalle al muro, i Tedeschi sono organizzati come una macchina da guerra. Non so quanto siano giusti questi esempi, ma direi che li condivido abbastanza.

Ieri alle 22.00 mi sono messo davanti alla tv ed ho cominciato a guardare la partita. Non guardo mai le squadre di club, ma le nazionali le ho sempre seguite. Seguii ancora bambino quelle del ’58 con Pelé e Liedholm, poi quelle con Maldini e Altafini, poi quelle con Mazzola e Rivera, poi quelle con Maradona, poi quelle di Bearzot, poi quelle di Arrigo Sacchi.
Negli ultimi anni però mi sono limitato a dare un’occhiata: l’Italia berlusconiana ha perso la spina dorsale e le Nazionali azzurre si sono adeguate: allenatori incapaci e calciatori superpagati, che più che giocare fanno le sfilate di moda.

Ma la partita di ieri andava guardata. Io prevedevo una leggera prevalenza dei Brasiliani, ma, quando i Tedeschi hanno dimostrato di giocare molto meglio, ho cominciato ad essere contento per loro. Non sono un tifoso: cerco di essere imparziale.
Finita la partita, quel 7 -1 mi sembrava un risultato più che giusto. Eppure oggi ci ripenso, e dico che tanto giusto non è stato. Lo so che gli sportivi cercano di ottenere il migliore risultato possibile e che in molti sarebbero stati contenti che i Tedeschi, di gol, ne avessero fatti anche 10 o 15 o 20. Dura lex sed lex: queste sono le regole del gioco e dobbiamo accettarle. Ma nel modo di interpretare le regole sul campo c’entra un po’ anche il carattere di un popolo.
E quale carattere hanno dimostrato ieri i Tedeschi? Oggi su facebook Gad Lerner con una punta di ironia osservava “E voi credete veramente che questa Germania ci concederà la flessibilità nelle spese di bilancio?”. Anche lui, come Severgnini, vede una certa correlazione fra calcio e spirito di un popolo. C’è da riflettere. Ma torniamo alla partita.

Nel primo tempo la Germania vinceva per 5 - 0.
Se all’inizio del secondo tempo avesse allentato il ritmo di gioco, in teoria avrebbe dato al Brasile l’opportunità di pareggiare o vincere, dunque bisognava assolutamente continuare a pressare l’avversario. Però a 22 minuti dalla fine della partita c’era ancora veramente bisogno di accanirsi contro la squadra brasiliana con altri due gol? Non potevano limitarsi a controllare la partita?
No, il tempo passa ma i Tedeschi sono fatti sempre alla stessa maniera: non gli basta vincere, devono stravincere. E questa volta hanno stravinto umiliando la squadra avversaria, ma anche un intero popolo, mortificandone il noto spirito gioioso.
Settanta anni fa fecero così, ma non sul piano sportivo, con Ebrei, zingari e gay (potevano mandarli al confino, come faceva Mussolini con gli avversari; che bisogno c’era di distruggerli tutti?) e con i Sovietici (10 milioni di vittime militari e 12 milioni di vittime civili). Dopo la sconfitta sono stati calmi per 45 anni, ma nel 1990 hanno preteso la riunificazione tedesca, chiedendo comprensione e collaborazione a tutti i paesi occidentali, Grecia e Italia comprese. Nel 2009 poi, quando in virtù dell’unione monetaria loro stavano benissimo, hanno messo in ginocchio la Grecia e dall’anno successivo hanno messo le manette all’Italia.
Eh, loro son fatti così! Il loro reddito pro-capite è di 38.000 euro e quello della Grecia di 24.000? Per loro è giusto, è frutto delle loro virtù, ed è anche la legge del più forte. Far diminuire il gap? Macché, il gap deve anzi aumentare.

Vabbè, siete bravi, ma a un certo punto abbiate pietà, dico io. Ed ecco come immagino la loro risposta (mi si perdoni il ricorso allo stereotipo caricaturale) “Cooosa essere ‘pietà’? Noooi non conoscere questa parola. Noi conoscere vae victis!”.
Allora, questa parola, ve la spiego io. Significa che, se stai vincendo per cinque a zero e mancano pochi minuti alla fine della partita, all’avversario gli fai fare il gol della bandiera e vai ugualmente alla finalissima. Ma, questi, sono stupidi sentimentalismi da ‘italianìsche’.
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martedì 8 luglio 2014

Lev Tolstoj: “La morte di Ivan Il’ič”"

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Uno dei primi articoli di questo blog è stato “Librisulcomodino” (del 15.10.2010), e lì ho già spiegato che mentre le mie letture giovanili avvenivano sulla scrivania, adesso, nella terza età, per motivi facilmente intuibili, avvengono in poltrona o ancora più spesso sul doppio cuscino, accanto al quale sta un comodino, sul quale si alternano i libri scelti di volta in volta.
Sono passati ormai vari anni da quell’articolo, senza parlare degli altri libri transitati su quel comodino. Riprendo oggi con un racconto di Tolstoj dedicato a un argomento un po’… delicato: la morte. Un argomento su cui si sono cimentati fior di teologi, filosofi, biologi e antropologi e sul quale forse potrebbero dire la loro anche uomini semplici come i becchini, che di morti ne vedono tanti.
Faccio una breve sintesi del racconto, per poi isolarne uno dei tanti aspetti e far seguire il testo del primo capitolo.

Tutta la storia s’incentra sulla vita di Ivàn Il'ič (come si sa, i Russi, almeno fino a un certo punto, facevano seguire il nome di battesimo dal patronimico, per cui potremmo dire che questo signore si chiamava Giovanni, figlio di Elia). Ivàn da ragazzo affronta gli studi con serietà, poi entra nella magistratura, frequenta i salotti della buona società, sposa una donna graziosa e benestante ed ha due figli. Tutto procede per il meglio e ad un certo punto riesce anche ad avere un prestigioso avanzamento di carriera, per il quale però è costretto a cambiare città. Lui si trasferisce lì da solo, per trovare ed arredare un appartamento adeguato al suo nuovo ‘status’; il resto della famiglia lo raggiungerà quando tutto sarà a posto. La vita finora è andata così come lui la voleva.
Solo un piccolo infortunio ne cambierà la rotta: un giorno sale su una scala per far vedere al tappezziere come sistemare le tende; però inciampa, cade e batte il fianco sulla maniglia della finestra. Da quel momento avvertirà al ventre un dolore leggero, che nel corso dei mesi diventerà un problema serio. Spinto dalla moglie, si farà visitare da tanti medici, ognuno dei quali arriva però a diagnosi e terapie diverse. Le sue condizioni peggiorano sempre, fino al punto di rendersi conto che andrà incontro alla morte.
Vorrebbe, in queste sofferenze estreme, il conforto delle persone care, ma queste, tranne il fedele mužik Gerasim (un contadino a lui molto devoto), cercheranno sempre di banalizzare tutto, in modo da non avere noie eccessive e da non compromettere la loro vita sociale. Le sofferenze fisiche e la solitudine lo indurranno ad un riesame della propria esistenza: lui voleva per sé una vita agiata e adesso questa ricerca dell’agiatezza la ritrova diffusa fra tutti i suoi parenti ed amici e gli si ritorce contro.

Ho detto che dopo la sintesi del racconto, avrei cercato di isolarne un aspetto. Bene.
Come viene vissuta la morte di una persona nei gruppi ristretti di parenti, amici e colleghi cui essa appartiene? La prima risposta di Tolstoj è che alla morte non si pensa finché non è abbastanza vicina: tutti sanno che si muore, ma è, questa, una cosa che fino a un certo momento riguarda sempre e solo ‘gli altri’. La seconda risposta la troviamo nelle pagine iniziali: quando uno muore, dopo un primo momento di incredulità e di smarrimento, si considerano le conseguenze dell’evento. La famiglia, i colleghi e gli amici costituiscono dei piccoli ‘gruppi sociali’ e come tali, quando perdono un loro membro, sono costretti a ristrutturarsi in modo che tutto funzioni come prima. Non è cinismo, questo, è una necessità, ma nel linguaggio asciutto e distaccato di Tolstoj serpeggia una sottile ironia.
Alla moglie di Ivàn restano due figli da sistemare e per riuscire a farlo nel modo migliore ha bisogno di denaro (per cui cercherà di avere dalla Stato il massimo della pensione) ed ha bisogno di tempo da dedicare ai preparativi per le nozze della figlia.
Ed i colleghi? Come in una partita di scacchi, i colleghi, riuniti in una sala degli uffici giudiziari durante la pausa di un processo, alla notizia dell’evento valutano razionalmente come risistemare le relative cariche. 1) Alekseev avrebbe potuto prendere il posto di Ivàn; 2) il posto lasciato da Alekseev sarebbe toccato a Vinnikov o a Štabel; 3) il posto di Štabel sarebbe passato a Fëdor; 4) Pëtr invece avrebbe potuto favorire il riavvicinamento del cognato, facendo così finalmente contenta sua moglie. Insomma, morto un papa, se ne fa un altro e… la curia gioca ai quattro cantoni.
Prima di passare alla lettura del racconto, un consiglio: non lasciarsi impressionare dai tanti nomi complicati che si incontrano nel dialogo iniziale; dalla terza pagina in poi ritroveremo in scena solo la moglie e il più caro amico di Ivàn. Poi una precisazione; il primo capitolo riguarda ciò che succede dopo la morte di Ivàn; dal secondo in poi, con un flashback che potrebbe far invidia ai migliori registi contemporanei, si torna al passato: la vita e la lunga malattia di Ivàn Il'ič.

Cataldo Marino

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Lev Tolstoj: “La morte di Ivan Il’ič”, Cap. I

Nel grande edificio degl'uffici di giustizia, durante la pausa di un'udienza del processo Mel’vinskij, i giudici e il procuratore si erano riuniti nello studio di Ivàn Egòrovic Šebèk, e avevano cominciato a discorrere del celebre caso Krasovskij. Fëdor Vasìl'evič s'infervorava nel dimostrar l'incompetenza del tribunale, Ivàn Egòrovič insisteva sul suo punto di vista, mentre Pëtr Ivànovič, che dapprincipio non era entrato nella conversazione, continuava a non prendervi parte, e dava un'occhiata al Notiziario appena arrivato.
«Signori!» disse. «Ivàn Il'ič è morto.»
«Possibile?»
«Ecco, leggete» disse a Fëdor Vasìl'evič, porgendogli il giornale fresco, che odorava ancora di stampa.
In un riquadro nero era scritto: "Praskov'ja Fëdorovna Golovinà, con sommo cordoglio, annuncia a parenti e amici la scomparsa dell'amato consorte, giudice della Corte d'assise Ivàn Il'ič Golovìn, avvenuta il 4 febbraio del 1882. Le esequie si terranno venerdì all'una pomeridiana".

Ivàn Il'ič era collega dei signori lì riuniti, e tutti gli volevano bene. Si era ammalato ormai da alcune settimane: si diceva che la sua malattia fosse incurabile. La carica era rimasta sua, ma si diceva che nel caso fosse morto, Alekseev avrebbe potuto essere nominato al suo posto, mentre il posto di Alekseev sarebbe toccato o a Vìnnikov o a Štabel’. Di modo che, quando ebbero saputo della morte di Ivàn Il'ič, il primo pensiero di ciascuno di quei signori riuniti nello studio fu rivolto alle conseguenze che questa morte avrebbe potuto avere per il trasferimento o la promozione di loro stessi o dei loro conoscenti.
"Adesso mi daranno di sicuro il posto di Štabel’, o di Vìnnikov" pensò Fëdor Vasìl'evič. "È da un pezzo che me l'hanno promesso, e questa promozione mi porterà 800 rubli d'aumento, oltre all'indennità di servizio."
"Adesso bisognerà chiedere il trasferimento di mio cognato da Kaluga" pensò Pëtr Ivànovič. "Mia moglie ne sarà molto contenta. Ora non mi potrà più dire che non ho fatto mai niente per i suoi parenti."
«Lo pensavo che non si sarebbe rimesso» disse Pëtr Ivànovič ad alta voce. «Mi spiace.»
«Ma cosa aveva esattamente?»
«I dottori non sono riusciti a stabilirlo. Ovvero, l'hanno stabilito, ma ognuno aveva un parere diverso. Quando l'ho visto l'ultima volta mi era sembrato che si stesse riprendendo.»
«Io invece non sono più stato a trovarlo dopo le feste. Volevo sempre andare, ma...»
«Ma di', ne aveva di soldi?»
«Qualcosina, per parte di moglie. Ma proprio poco.»
«Già, bisognerà andarci. Abitano tremendamente lontano.»
«Lontano da dove state voi, vorrete dire. Da dove state voi è tutto lontano.»
«Non mi può proprio perdonare di abitare di là dal fiume» disse Pëtr Ivànovič, sorridendo di Šebèk. E cominciarono a parlare delle grandi distanze della città, e tornarono all'udienza.

Oltre alle considerazioni che questa morte aveva suscitate in ciascuno di loro circa i trasferimenti e i cambiamenti d'organico che da questa morte sarebbero potuti conseguire, di per sé stessa, in quanto morte d'un loro intimo conoscente, essa suscitò in tutti loro, come sempre avviene, un senso di gioia per il fatto che il morto fosse lui e non loro.
"Ecco, lui è morto, e io no" pensò o sentì ognuno di loro. E i conoscenti intimi, i cosiddetti amici di Ivàn Il'ič, pensarono altresì, involontariamente, che ora avrebbero dovuto adempiere ai noiosi doveri che imponevano le convenienze, e andare alla messa funebre, e dalla vedova per la visita di condoglianze.
I più intimi, erano Fëdor Vasìl'evič e Pëtr Ivànovič.
Pëtr Ivànovič gli era stato compagno di studi, a giurisprudenza, e si riteneva in obbligo Ivàn Il'ič.
Dopo aver comunicato alla moglie, durante il pranzo, la notizia della morte di Ivàn Il'ič e le sue considerazioni a proposito della possibilità di un trasferimento del cognato nella loro giurisdizione, Pëtr Ivànovič, invece di stendersi a riposare, indossò il frac e andò a casa di Ivàn Il'ič.

Davanti all'ingresso di Ivàn Il'ič era ferma una carrozza con due cocchieri. Da basso, in anticamera, accanto all'attaccapanni, era appoggiato alla parete il coperchio della bara rivestito in broccato, con le nappine e il gallone lucidato a polverina. Due dame in nero si stavano togliendo la pelliccia. Una, la sorella di Ivàn Il'ič, l'aveva già incontrata altre volte, l'altra non la conosceva. Un collega di Pëtr Ivànovič, Schwartz, stava scendendo dal piano superiore e, avendo scorto sin dal primo gradino della scala il nuovo venuto, si fermò e gli strizzò l'occhio, come per dire: "L'ha fatta la sua stupidata, Ivàn Il'ič, noi due invece...".
II volto di Schwartz, coi favoriti all'inglese, e tutta la sua magra corporatura, in quel frac, avevano come sempre un che di elegantemente solenne, e tale sua solennità, che sempre contraddiceva l'indole giocosa di Schwartz, aveva in questo caso un che di particolarmente arguto. Così pensò Pëtr Ivànovič.
Pëtr Ivànovič cedette il passo alle dame e le seguì lentamente su per le scale. Schwartz non scese, ma si fermò di sopra. Pëtr Ivànovič capì perché: evidentemente, voleva mettersi d'accordo con lui per il whist di quella sera. Le dame salirono le scale ed entrarono dalla vedova, mentre Schwartz, con le labbra ben ferme e atteggiate a serietà, e con lo sguardo giocoso, con un movimento del sopracciglio indicò a Pëtr Ivànovič la stanza del defunto, sulla destra.

Pëtr Ivànovič entrò, come sempre accade, non sapendo bene quel che avrebbe dovuto fare là dentro. Sapeva soltanto una cosa: che in quei casi non guasta mai farsi il segno della croce. Non era però del tutto convinto che, nel farlo, occorresse anche inchinarsi, e perciò scelse una via di mezzo: entrando nella stanza si mise a farsi il segno della croce e accennò a un piccolo inchino. Per quanto gli permisero i movimenti delle braccia e della testa, dette contemporaneamente un'occhiata alla stanza. Due giovani, uno dei quali era un ginnasiale, probabilmente nipoti del defunto, stavano uscendo dalla stanza facendosi il segno della croce. Una vecchietta stava in piedi, immobile. E una dama con le sopracciglia stranamente sollevate le stava sussurrando qualche cosa. Un sagrestano in finanziera, vivace, deciso, leggeva qualcosa ad alta voce, con un'espressione che non ammetteva repliche: il mužik dispensiere, Gerasim, passò davanti a Pëtr Ivànovič con passo lieve, spargendo qualcosa sul pavimento. A quella vista Pëtr Ivànovič avvertì immediatamente l'odore lieve del cadavere in disfacimento. Durante la sua ultima visita a Ivàn Il'ic, Pëtr Ivànovič aveva visto quel mužik nello studio; fungeva da infermiere, e Ivàn Il'ič gli era particolarmente affezionato. Pëtr Ivànovič continuava a segnarsi e a chinarsi appena, in una direzione a mezza via tra la bara, il sagrestano e le immagini sul tavolo d'angolo. Poi, quando gli parve che questo gesto del segno della croce fosse durato a sufficienza, si fermò, e cominciò a osservare il morto.

Il morto giaceva come sempre giacciono i morti, con particolare pesantezza, con le membra irrigidite che affondavano, come sempre accade ai morti, nel giaciglio della bara, con la testa per sempre inclinata in avanti dal cuscino, e mostrava, come sempre lo mostrano i morti, la fronte gialla, cerea con la calvizie sopra le tempie infossate, e il naso che sporgeva e che quasi premeva sul labbro superiore. Era molto cambiato, era dimagrito ancora da quando Pëtr Ivànovič l'aveva visto l'ultima volta, ma, come tutti i morti, aveva il volto bello, e soprattutto più significativo di quanto lo fosse da vivo. Sul volto aveva un'espressione che pareva dire che quel che occorreva fare era stato fatto: e fatto bene. Oltre a ciò, in quest'espressione c'era ancora un rimprovero, o un monito ai vivi. Il monito, a Pëtr Ivànovič, parve inopportuno, o, per lo meno, non rivolto a lui. Cominciò a sentirsi a disagio, e per questo Pëtr Ivànovič si segnò in tutta fretta un'altra volta e, almeno così gli parve, troppo in fretta, senza riguardo per le convenienze, si voltò e si diresse alla porta. Schwartz lo aspettava nella stanza di passaggio, con le gambe piantate larghe, giocherellando con entrambe le mani dietro la schiena con il suo cappello a cilindro. Bastò uno sguardo, e la figura giocosa, linda ed elegante di Schwartz comunicò un senso di freschezza ai pensieri di Pëtr Ivànovič. Pëtr Ivànovič comprese che lui, Schwartz, rimaneva superiore a tutto quel che vi era di là e non si abbandonava affatto alle impressioni deprimenti. Lo diceva il suo stesso aspetto: l'incidente della messa funebre per Ivàn Il'ič non poteva in alcun modo essere un motivo sufficiente per considerare turbato l'ordine del giorno, ovverosia: nessuno poteva impedirgli di far schioccare, quella stessa sera, dissigillandolo, un mazzo di carte, mentre un valletto avrebbe disposto quattro candele nuove; e in generale non c'era motivo di supporre che quest'incidente potesse in alcun modo impedirci di trascorrere piacevolmente anche la serata odierna. Lo disse persino in un sussurro a Pëtr Ivànovič, che gli si stava avvicinando, e gli propose di unirsi alla partita, da Fëdor Vasìl'evic. Ma evidentemente era destino che Pëtr Ivànovič non dovesse giocare a whist quella sera.

Praskov'ja Fëdorovna, una donna di bassa statura, pingue, che, a dispetto di tutti i suoi sforzi tesi a realizzare il contrario, si era allargata verso il basso, dalle spalle in giù, e tutta vestita di nero, con la testa coperta da un velo di merletto e con le sopracciglia stranamente inarcate, proprio come quella dama che stava dinanzi alla bara, uscì dalle sue stanze con le altre dame e, accompagnandole alla porta del morto, disse: «Adesso ci sarà la funzione, entrate».
Schwartz, inchinatosi in modo incerto e vago, si fermò, senza evidentemente accettare o rifiutare la proposta. Praskov'ja Fëdorovna, riconosciuto Pëtr Ivànovič, sospirò, gli si avvicinò, lo prese per una mano e disse: «So che eravate un amico sincero di Ivàn Il'ič...» e lo guardò, in attesa di un comportamento conforme a quelle parole. Pëtr Ivànovič sapeva che, così come poco prima occorreva farsi il segno della croce, allo stesso modo adesso bisognava stringere la mano, sospirare e dire: «Credete!...». E così fece. E, quando l'ebbe fatto, si rese conto di aver ottenuto il risultato desiderato: ossia che entrambi erano commossi.
«Andiamo prima che cominci; ho bisogno di parlare un po' con voi» disse la vedova. «Datemi il braccio.»
Pëtr Ivànovič le porse il braccio, e si diressero verso le stanze interne, passando accanto a Schwartz, che ammiccò mestamente a Pëtr Ivànovič.
"Eccoti il tuo whist! Non abbiatevela a male se prenderemo un altro partner. Piuttosto giocheremo in cinque, quando riuscirete a liberarvi" disse il suo sguardo giocoso.

Pëtr Ivànovič sospirò ancor più profondamente e mestamente, e Praskov'ja Fëdorovna gli strinse riconoscente il braccio. Entrando nel suo salottino tappezzato di cretonne rosa, ove ardeva una lampada dalla luce fioca sedettero vicino al tavolo: lei sul divano, e Pëtr Ivànovič su un basso puff imbottito, dalle molle malmesse, si piegò irregolarmente sotto il suo peso. Praskov'ja Fëdorovna voleva avvertirlo di sedersi altrove, ma ritenne che un tale comportamento non fosse conforme alla sua condizione, e cambiò idea. Sedendosi su quel puff, Pëtr Ivànovič si ricordò di quando Ivàn Il'ič aveva arredato quel salottino e si era consigliato con lui proprio a proposito del cretonne rosa con fogliami verdi. Andando a sedersi sul divano e passando accanto al tavolo (l'intero salotto era colmo di oggettini e di mobili) la vedova s'impigliò con il pizzo nero della nera mantiglia in un intaglio del tavolo. Pëtr Ivànovič si alzò per aiutarla e il puff, liberato dal suo peso, si mosse e l'incalzò da sotto. La vedova provvide da sola a liberare il suo pizzo, e Pëtr Ivànovič sedette nuovamente, schiacciando sotto di sé il puff ribelle. Ma la vedova non era riuscita a liberarsi completamente, e Pëtr Ivànovič si alzò nuovamente, e nuovamente il puff cominciò la sua rivolta e diede persine in uno schiocco. Quando tutto fu finito, lei estrasse un fazzolettino pulito di batista e si mise a piangere. L'incidente del pizzo e la lotta con il puff avevano piuttosto raffreddato Pëtr Ivànovič, ed egli sedeva immusonito. Questa situazione imbarazzante fu interrotta da Sokolòv, il dispensiere di Ivàn Il'ič, che venne a riferire che il posto al cimitero scelto da Praskov'ja Fëdorovna costava 200 rubli. Ella smise di piangere e, guardando Pëtr Ivànovič con l'aria della vittima, disse in francese che si sentiva molto male. Pëtr Ivànovič fece un cenno silenzioso col quale espresse l'indubitabile convinzione che non potesse essere altrimenti.
«Fumate pure, vi prego» ella disse con voce insieme magnanima e sopraffatta, e si mise a risolvere con Sokolòv la questione del prezzo. Pëtr Ivànovič, fumando, sentì con quanta cura ella facesse domande sui vari prezzi dei terreni, e stabilisse quello che si doveva prendere. Oltre a ciò, una volta risolta la questione del posto, impartì disposizioni anche per i cantori. Sokolòv uscì dalla stanza.

«Devo fare tutto da sola» disse a Pëtr Ivànovič, spostando da una parte gli album che stavano sul tavolo: e, vedendo che la cenere minacciava il tavolo, senza perder tempo accostò a Pëtr Ivànovič un posacenere e disse: «Ritengo sia falso affermare che il dolore mi impedisca di occuparmi di questioni pratiche. Al contrario, se c'è una cosa che mi può dare se non sollievo, per lo meno distrazione, son proprio tutte queste cure che mi prendo per lui». Tirò nuovamente fuori il fazzoletto come se si stesse apprestando a piangere, e all'improvviso, come facendo forza su se stessa, si riscosse e si mise a parlare con calma.
«Tuttavia c'è una cosa di cui dovrei parlarvi.»
Pëtr Ivànovič si inchinò senza permettere alcun movimento alle molle del puff che subito avevano cominciato ad agitarsi sotto di lui.
«Negli ultimi giorni ha sofferto tremendamente.»
«Ha sofferto molto?» domandò Pëtr Ivànovič.
«Ah, tremendamente! Non gli ultimi minuti, ma nelle ultime ore non ha mai smesso di urlare. Per tre giorni di fila, senza riprendere fiato, ha gridato. È stata una cosa insopportabile. Non riesco a capire come io sia riuscita a sopportarla; si sentiva a tre porte di distanza. Ah! Cosa non ho sopportato!»
«Possibile che fosse cosciente?» domandò Pëtr Ivànovič.
«Sì» ella sussurrò, «fino all'ultimo istante. Ci ha detto addio un quarto d'ora prima di morire, e ha anche chiesto di mandar via Volodja.»
A dispetto della spiacevole consapevolezza dell'ipocrisia sua e di questa donna, il pensiero delle sofferenze di un uomo che egli aveva conosciuto così intimamente, dapprima come ragazzetto allegro, a scuola, poi come collega, da adulto, fece improvvisamente inorridire Pëtr Ivànovič. Vedeva nuovamente quella fronte che premeva il naso sulla bocca, e provò paura per sé.
"Tre giorni di orribili sofferenze e la morte. E una cosa che anche adesso, in questo stesso istante, può capitare anche a me" pensò, e subito ebbe paura. Ma immediatamente, senza sapere neppure lui come, gli venne in soccorso il solito pensiero che la cosa era capitata a Ivàn Il'ič, e non a lui, e che a lui quella cosa non doveva né poteva succedere; e che, così pensando, egli s'abbandonava a un umore cupo, il che non era bene fare, come appariva evidente dall'aspetto di Schwartz. E, fatto questo ragionamento, Pëtr Ivànovič si tranquillizzò e con interesse si mise a fare domande sui particolari della fine di Ivàn Il'ič, come se la morte fosse qualcosa di naturale per Ivàn Il'ič, ma non lo fosse affatto per lui.

Dopo aver riferito in vari modi i particolari delle sofferenze fisiche davvero terribili sopportate da Ivàn Il'ič (Pëtr Ivànovič venne a conoscenza di questi particolari solamente nella misura in cui essi avevano agito sui nervi di Praskov'ja Fèdorovna), la vedova ritenne evidentemente opportuno arrivare al punto.
«Ah, Pëtr Ivànovič, che dolore, che terribile dolore, che terribile dolore» e si mise nuovamente a piangere.
Pëtr Ivànovič sospirava e aspettava il momento in cui lei si sarebbe soffiata il naso. Quando se lo fu soffiato, egli disse: «Credetemi...» e lei riprese a parlare e disse quello che evidentemente costituiva il punto saliente in quella conversazione con lui: e questo punto consisteva nel domandargli come riuscire ad ottenere dei soldi dallo Stato a seguito della morte del marito. Diede a vedere di voler chiedere a Pëtr Ivànovič un consiglio sulla pensione: ma egli si rese conto che ella già conosceva fin nei più minuti particolari anche cose che lui stesso ignorava: tutto quello che si poteva strappare alle casse dello Stato in caso di morte: e voleva sapere se in qualche modo non sarebbe stato possibile strappare qualcosina in più. Pëtr Ivànovič cercò di escogitare la maniera, ma, dopo averci pensato un poco e dopo aver vituperato, in omaggio alle convenienze, il nostro governo per la sua spilorceria, disse che gli sembrava che più di così non si potesse. Allora ella sospirò e si diede con ogni evidenza a escogitare un mezzo per liberarsi del suo visitatore. Egli lo capì, spense la sigaretta, si alzò, le strinse la mano e uscì in anticamera.

Nella sala da pranzo, ov'era la pendola che Ivàn Il'ič era stato così contento d'aver comprato in un bric-à-brac, Pëtr Ivànovič incontrò il sacerdote e ancora qualche conoscente giunto per la funzione funebre, e vide una bella signora che lui conosceva, la figlia di Ivàn Il'ič. Era tutta vestita di nero. La sua vita sottile sembrava ancor più sottile. Aveva un'aria cupa, decisa, quasi irosa. Rivolse un saluto a Pëtr Ivànovič come se questi fosse colpevole di qualcosa. Dietro alla figlia, con la stessa aria offesa, stava un giovane di buona famiglia che Pëtr Ivànovič conosceva, un giudice istruttore, che, per quel che si diceva in giro, era fidanzato con la ragazza. Si inchinò loro con grande tristezza e voleva passare nella camera del defunto quando, da sotto la scala, spuntò la figuretta del figlio ginnasiale, che assomigliava tremendamente a Ivàn Il'ič. Era proprio Ivàn Il'ič in persona, tal quale Pëtr Ivànovič lo ricordava ai corsi di giurisprudenza. Aveva gli occhi di pianto, come li han di solito i ragazzi viziosi sui 13 o 14 anni. Il ragazzo, appena vide Pëtr Ivànovič, fece una smorfia tra il severo e il vergognoso Pëtr Ivànovič gli fece un cenno col capo ed entrò nella stanza del defunto. Era iniziato il servizio funebre - le candele, i lamenti, l'incenso, le lacrime, i singhiozzi. Pëtr Ivànovič se ne stava in piedi accigliato, guardandosi i piedi. Non alzò nemmeno una volta lo sguardo sul defunto, e fino alla fine non s'arrese alle impressioni deprimenti, e fu tra i primi a uscire. Nell'ingresso non c'era nessuno. Gerasim, il mužik addetto alla dispensa, saltò fuori dalla stanza del defunto, buttò all'aria con le sue forti braccia tutte le pellicce per trovare quella di Pëtr Ivànovič, e gliela porse.

«Allora, fratello Gerasim?» domandò Pëtr Ivànovič per dire qualcosa. «Ti spiace, eh?»
«E il volere di Dio. Toccherà a noi tutti» disse Gerasim, mettendo in mostra i suoi denti bianchi da mužik e aprì la porta, chiamò il cocchiere, fece salire Pëtr Ivànovič in vettura e con un salto ritornò sotto al porticato, come riflettendo su quel che dovesse ancora fare.
Per Pëtr Ivànovič fu particolarmente piacevole respirare aria pura dopo l'odore di incenso, di cadavere e di acido fenico.
«Dove comandate?» domandò il cocchiere.
«Non è tardi. Faccio ancora un salto da Fëdor Vasil'evic.»
E Pëtr Ivànovič andò. Ed effettivamente li trovò alla fine del primo rubber, di modo che gli fu facile entrare come quinto.


(Da: Lev Tolstòj “La morte di Ivàn Il'ič e altri racconti”, pagg. 3-13, Oscar Classici Mondadori, 1999)