mercoledì 4 giugno 2014

I ‘beni Veblen’ e la curva della domanda: un’eccezione o la regola?


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I testi più elementari di Economia in genere danno per certo che il consumo di un ‘qualunque’ bene aumenta quando il prezzo diminuisce e, al contrario, diminuisce quando il prezzo aumenta.
Poiché la realtà è sempre complessa, quando si semplifica si incorre facilmente in qualche errore; nel caso specifico l’errore sta nel termine ‘qualunque’.
Ci sono beni che si consumano in privato, dei quali cioè i nostri conoscenti, effettivi o potenziali, non vengono a sapere nulla, e beni il cui uso avviene sotto gli occhi degli altri.
Questa è una distinzione importante perché per i primi la regola prima esposta è assolutamente valida, mentre per i secondi è valida solo relativamente.

1) Se, ad esempio, ipotizziamo che in un certo periodo il reddito dei consumatori rimane invariato e il prezzo delle mele aumenta sensibilmente, allora è prevedibile che il consumo di mele diminuisca; se invece il prezzo diminuisce, è prevedibile che il consumo delle mele aumenti. Nel caso di questo tipo di merce la semplificazione fatta dagli economisti classici è tendenzialmente corretta e viene rappresentata graficamente da una curva discendente che indica una proporzionalità inversa fra prezzo e consumi:



2) Il comportamento dei consumatori cambia, almeno in parte, se invece di mele, da consumare nella propria cucina al riparo da occhi indiscreti, si tratta di un abito, un foulard, un’automobile, il divano su cui far sedere gli ospiti, il telefonino ecc. In tutti questi casi sappiamo che i nostri acquisti verranno giudicati da amici, conoscenti e persone che possiamo incontrare anche in modo occasionale, e questo giudizio potrà determinare la ‘considerazione’ in cui saremo tenuti in conto da tutti questi soggetti: ne va della nostra ‘onorabilità’ diceva Veblen. Si tratta di beni infatti che, oltre a essere ‘consumati’, vengono ‘esibiti’ al fine di dimostrare una qualche forma di uguaglianza o di superiorità rispetto agli altri.
Il consumo di questi beni non sempre aumenta al diminuire del prezzo e non sempre diminuisce all’aumentare del prezzo.

Un giorno una giovane badante straniera arrivò in casa con una busta contenente due magliette e un paio di pantaloni e si vantò dell’acquisto dicendo che aveva comprato tutto a soli 15 euro in un mercatino. Quegli indumenti le stavano addosso in modo gradevole e, nonostante il prezzo pagato, potè usarli per un tempo abbastanza lungo: è l’esempio di un consumo intelligente, indipendente dai giudizi altrui.
Purtroppo si tratta però di una eccezione. Le signore e i signori bene inseriti nella società sono in genere molto meno razionali, perché per i beni usati in circostanze ‘pubbliche’ fanno corrispondere la qualità al prezzo, e non il contrario: secondo loro, più spendi più quel bene ‘vale’.

Mi diceva il mio meccanico di fiducia di aver osservato che molti giovani giungevano in officina con automobili da 30 mila euro e spesso però constatava che il misuratore di benzina era vicino allo zero. Non era più razionale comprare un’auto da 10 mila euro e conservare un po’ di denaro per poter comprare la benzina?
Ho letto da qualche parte che c’è gente che compra abiti costosissimi e poi in cucina ha il frigo vuoto. Un’altra irrazionalità: perché non comprare l’abito al mercatino, come la badante di cui parlavo, e avere nel frigo tutto ciò che può essere utile?
Di esempi del genere se ne potrebbero fare all’infinito, ma tutti rispecchierebbero la stessa logica: per un grande numero di beni, gli acquisti vengono fatti in funzione dell’utilità sociale anziché della capacità di soddisfare un bisogno naturale, e questo dipende dal fatto che alcuni beni valgono solo in base al prestigio conferito a chi ne fa uso in pubblico.

In uno studio del 1950 (Bandwagon, Snob, and Veblen Effects in the Theory of Consumers' Demand), H. Leibenstein rappresentò l’andamento dei consumi dei beni di lusso (“beni Veblen”) con una curva ben diversa da quella vista sopra. Essa si presenta con un andamento discontinuo, perché fra i punti R ed S il consumo, stranamente, diminuisce al diminuire del prezzo.


Facciamo l’esempio del bene di lusso per eccellenza: la Ferrari, l’auto agognata negli Usa come in Europa e forse ora anche in Russia e Cina.
Sulla linea verticale (asse delle ordinate) indichiamo il prezzo e su quella orizzontale (asse delle ascisse) indichiamo il numero di auto richieste in relazione ai vari prezzi.
A un prezzo esorbitante, mettiamo 5 milioni di euro, probabilmente non l’acquisterebbe nessuno (punto Pn). Man mano che il prezzo diminuisce da 5 milioni a 200 mila euro, il numero di acquirenti aumenta da zero a R. Fino a quel punto tutti coloro che sono in grado di comprarla lo fanno per rientrare in una piccola élite, col piacere di appartenere ad essa e di sentirsi socialmente superiore a chi invece rientra in fasce di reddito inferiore alla propria. Se però il prezzo dovesse ulteriormente scendere al di sotto di 200 mila euro, questa élite tenderebbe ad allargarsi a tal punto da non avere più nella Ferrari un segno distintivo prestigioso come prima e abbandonerebbe l’acquisto di questa automobile per comprarne una più costosa; la diminuzione di prezzo dal punto R (200 mila) fino al punto S (50 mila) determinerebbe un calo delle vendite. Arrivati al prezzo di 50 mila euro, ogni ulteriore diminuzione farebbe di nuovo aumentare le vendite: fra i 50 e i 20 mila euro il ceto medio, ben più numeroso, si sostituirebbe negli acquisti all’élite finanziaria e al di sotto dei 20 mila euro al consumo del ceto medio si sommerebbe quello di una parte del ceto medio-basso. (1)

E’ evidente che c’è una netta correlazione fra prezzi di alcuni beni e categorie sociali. Questo non meraviglia più di tanto; ciò che meraviglia è il fatto che man mano che il prezzo scende da 200 mila a 50 mila euro, gli acquirenti diminuiscano anziché aumentare.
Il fenomeno però non fa che dare una dimostrazione empirica di ciò che in linea teorica era stato detto nel 1899 da Thorstein Veblen nella “Teoria della classe agiata” e, prima di lui, nel 1834, da John Rae (“The sociological theory of capital”, Appendice 1: “Sulla natura e gli effetti del lusso”, pagg. 245-276).
Rae identifica l’origine del lusso nella ‘vanità’, intesa come propensione a dimostrarsi superiori agli altri. Veblen, forse traendo spunto da questa analisi, ne allargò il campo, collegando il comportamento economico non a propensioni individuali ma alla strutturazione della società in classi e ceti sociali.

Ciò che si è detto nell’esempio della Ferrari sarebbe ben poca cosa se la ‘curva a S rovesciata, disegnata da Liebenstein, fosse applicabile solo ad oggetti estremamente costosi. Io ho invece l’impressione che, almeno entro certi limiti, tale curva riguardi un notevole numero di beni. Ho quest’impressione anche quando una signora ben vestita compra al supermercato due etti del prosciutto che costa il triplo degli altri: magari in quel momento lì non sono presenti né parenti né amici né conoscenti, però fa chic. Ho quest’impressione quando per strada vedo un giovanotto che si pavoneggia con un’auto superaccessoriata, i finestrini aperti, lo smartphone all’orecchio e uno stereo acceso. Ho quest’impressione quando si deve fare un regalo e si dice che un certo oggetto non lo si può acquistare in un negozio qualunque ma bisogna andare nella tale gioielleria o profumeria di Via Michelangelo: a volte l’involucro vale più del contenuto. Ho quest’impressione quando all’enoteca vedo qualcuno che acquista una bottiglietta da 30 euro: mi piacerebbe versargliene due dita in un bicchiere e fargliene assaggiare poi anche due dita di una bottiglietta da 5 euro, per vedere se è capace, alla stregua di un sommelier, di distinguere il prezzo dei due vini.

Sull’origine dei gusti J. Rae, T. Veblen e G. Simmel hanno detto tanto, ma sono rimaste ‘voci nel deserto’. Il capitalismo continua per la sua strada: per arricchirsi bisogna vendere; per vendere bisogna mantenere la divisione della società in strati superiori e inferiori; per mantenere questa divisione bisogna martellare con la propaganda che ‘si è ciò che si ha’. Alla faccia di Erich Fromm e forse… di Cristo. In croce oggi più di prima.

(1) L’ipotesi di un prezzo di molto più basso di 200 mila euro è puramente teorica, in quanto il produttore non trova convenienza a vendere ad un prezzo inferiore al costo. E’ possibile considerare questa eventualità solo in casi eccezionali e per brevi periodi di tempo, al fine di battere la concorrenza e riposizionarsi subito dopo sul mercato con prezzi remunerativi.

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La curva della domanda e i ‘beni Veblen’ visti dal Prof. Richard G. Lipsey

Per chi sui ‘beni Veblen’ desidera una spiegazione economica meno approssimativa e prosaica di quella finora data, rinvio al già citato lavoro di H. Liebenstein.
e al più recente articolo di A. Heineike e P. Ormerod: “Non-additive market demand functions…” (http://www.paulormerod.com/wp-content/uploads/2012/06/demand-curves.pdf ).
Mi piace inoltre riportare qui di seguito una pagina del testo di Economia sul quale ho studiato da giovane e che, per la sua completezza e chiarezza, da anni custodisco gelosamente negli scaffali e nella memoria.

<< La moderna letteratura cita frequentemente un certo numero di casi in cui la soddisfazione che il consumatore ricava da un bene dipende non solo dal bene ma anche dal prezzo pagato per ottenerlo. Il consumatore può, ad esempio, acquistare diamanti non perché i diamanti di per se stessi lo soddisfino particolarmente ma perché egli vuole mettere in evidenza la propria ricchezza (o per usare le parole di Thorstein Veblen, gli acquisti di diamanti costituiscono consumi di prestigio o di emulazione pecuniaria). In questo caso il consumatore apprezza i diamanti proprio perché cari; di conseguenza una diminuzione nel prezzo degli stessi comporta una diminuzione degli acquisti, perché il consumatore sposta la propria spesa ad altri generi più atti a soddisfare le sue esigenze di ostentazione. In questo e in altri casi simili la curva di domanda avrà un andamento crescente anziché decrescente. 
Fino a quando non si abbia un modo indipendente di prevedere quali curve hanno un andamento crescente e quali decrescente, avremo sempre un alibi per neutralizzare qualsiasi prova contraria alla legge di domanda: qualora infatti osservassimo un caso in cui il prezzo e la quantità variano in funzione diretta non saremmo costretti ad ammettere che ‘la legge è confutata’, potremmo piuttosto dire ‘questa è una eccezione che conferma la regola’. 
Arriviamo così alla medesima conclusione a cui siamo arrivati nei precedenti paragrafi: non c’è una teoria verificabile delle relazioni intercorrenti tra le variazioni della domanda di un bene e quelle del suo prezzo. La nozione di curva di domanda è utile solo nella misura in cui si riesca a conoscere, almeno approssimativamente, la forma delle singole curve (cioè delle curve relative ai singoli beni, ndr); se ci mancasse tale conoscenza empirica, la teoria della domanda non sarebbe altro che una scatola vuota non suscettibile di alcuna applicazione alla realtà. >>

(Richard G. Lipsey, “Introduzione all’economia”, Etas Kompass, Milano, 1965, pagg. 215,216)