martedì 19 novembre 2013

Delocalizzazione delle attività produttive e declino dell’Occidente


Quod non fecit Adolf faciet Angela. Accostamento forse un po’ azzardato, è vero; i due hanno tratti personali quasi opposti (gradevole e diplomatica la signora, un violento paranoico il suo predecessore) e la situazione è cambiata di molto. I due personaggi presentano tuttavia delle analogie nei fini ultimi (l’egemonia in Europa) e nelle strategie (minacce militari per il primo, ricatti economici per la seconda).
Sciocco scherzare sulla signora Merkel, come fece incautamente due anni fa il peggiore dei capi di governo che l’Italia abbia mai avuto: la signora dal bel sorriso e dalle ampie spalle sa il fatto suo e, in due mesi, gli ha sfilato la cadrega. Ma, una volta fatto fuori il nostro Gongolo, la sfida economica lanciata agli altri Stati europei è ancora lì sul tavolo, e tutti purtroppo fanno finta di non accorgersene.

Non so come andranno a finire le cose, difficile per chiunque prevedere il futuro. Credo però che, se la pretesa di egemonia militare degli anni Trenta nasceva da una situazione di forza, la pretesa di egemonia economica di oggi nasce da uno stato di debolezza. Se per ora, rispetto agli Stati Uniti ed ai paesi emergenti, sono per primi i Pigs a dimostrare la loro debolezza, domani toccherà anche agli Stati dell’Europa centrale, Germania compresa.
Non vorrei fare del catastrofismo alla Spengler sul ‘Tramonto dell’Occidente’ – non ne condivido i presupposti né le contromisure – ma credo che la politica di globalizzazione dell’economia, attuata troppo allegramente dagli anni Novanta, renda inevitabile il progressivo impoverimento dell’intera Europa. Finché agli imprenditori europei ed americani sarà permesso di chiudere le fabbriche e le attività di ricerca nei propri Paesi e di trasferirle nei continenti in cui godono di basso costo del lavoro e di una imposizione fiscale più leggera, Europa ed USA continueranno a perdere posti di lavoro, il loro reddito pro-capite continuerà a diminuire, gli Stati avranno minori entrate tributarie e dovranno tagliare le spese per il welfare. Una sola cosa sarà in aumento: le tensioni sociali. Oggi a noi domani a voi, signora Merkel.

E’ un bel sognare che nei Paesi emergenti trasferiremo solo i lavori ‘pesanti’ mentre noi europei, e soprattutto voi tedeschi, ci ritaglieremo per il futuro il ruolo di ideatori di nuove tecnologie e di finanziatori del lavoro schiavistico, nelle terre conquistate col tintinnio delle monetine. I cinesi stanno per costruire il grattacielo più alto del mondo e già finanziano il debito pubblico degli USA; l’India ogni anno immette nell’economia 200.000 nuovi ingegneri; le fonti energetiche della Russia e del Medio Oriente costeranno sempre di più. Non è più epoca di colonizzazioni, si tratta di gente intelligente, che all’inizio copia quello che c’è da copiare e poi metterà sul mercato prodotti nuovi, di qualità e a basso prezzo. Se in Cina fra qualche anno costruiranno automobili da 6-7.000 euro, la Volkswagen forse chiuderà i battenti dopo la Fiat e la Pegeout, ma li chiuderà anch’essa; così come li chiuderanno gli stabilimenti di Detroit. Con l’abbassamento dei nostri livelli salariali sarà possibile cambiare auto, solo comprando quelle costruite in Cina dalle fabbriche dei nostri connazionali più furbi. I quali saranno gli unici a guadagnare dalla globalizzazione e dalla delocalizzazione.

Ho già detto che, di fronte alle previsioni di un tramonto dell’Occidente, non condivido i presupposti (decadenza morale) né le contromisure suggerite da Oswald Spengler. Non servono eroi, né regimi basati sulla forza. Però è necessario fermare il declino, e questo è possibile soltanto impedendo che le attività produttive, con i loro impianti e il loro know how, passino da un paese all’altro senza regolamentazione.
Tutti danno per scontato che il signor Benetton e il signor Marchionne abbiano il diritto di chiudere gli impianti in Italia, trasferire il ricavato sui conti da essi aperti nelle banche rumene o coreane e produrre le stesse cose in quei paesi, sfruttando la miseria delle popolazioni e rimpinguando i loro profitti. Questo diritto è contestabile e deve essere contestato.

I capannoni, gli impianti, i macchinari, i progetti, l’organizzazione nei modi di lavorazione e nella commercializzazione, tutti questi fattori produttivi sono il frutto del lavoro di molte generazioni di lavoratori, tecnici e ricercatori italiani e sono perciò patrimonio dell’intera collettività. Azionisti e dirigenti aziendali, nel rispetto delle regole dello Stato, hanno il diritto di gestire le loro attività finché operano in Italia. Se però, ad un certo punto, non ritengono più conveniente continuare a farlo, lo Stato italiano, in base all’art. 42 della Costituzione, ha il dovere di rideterminare in senso più restrittivo “i modi di godimento e i limiti” della proprietà privata “allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. Liberi di andare dove vogliono gli speculatori, ma le fabbriche restano qua.
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* L’immagine è ripresa dal sito www.e-rossa.org nella pagina in cui l’11.11.2010 è stato pubblicato il “Progetto di Legge Regionale contro le Delocalizzazioni” (Regione Emilia-Romagna).
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