lunedì 26 dicembre 2011

Folletto da città


Il mio lavoro si divideva in due tempi: fra le 8.30 e le 13.30 a scuola e dalle 17.30 alle 20.30 alla scrivania, dove correggevo compiti, sceglievo esercizi ed annotavo su un quaderno da 50 centesimi, e non un diario da 10 euro, tutto ciò che avrei fatto il giorno dopo in ogni classe. E’ così che presi l’abitudine di una lunga pennichella post-prandiale, utile per ricaricare le batterie della mente e l’umore.
L’abitudine è rimasta ovviamente anche dopo il pensionamento. Ma adesso, sempre più di frequente, essa viene interrotta da sgradevoli telefonate: “Pronto è lei il signor marino? Io sono marcella della teletré e la chiamo per una eccezionale offerta promozionale fino al 30 marzo con soli 20 euro al mese può avere l’adsl 24ore e può chiamare a soli 15 centesimi al minuto senza scatti alla risposta”. Cosa si può rispondere a una tale raffica di parole, sparate in circa 10 secondi, mentre hai gli occhi ancora socchiusi e la luce delle persiane non ha ancora riacceso la mente alle cose del mondo reale?

Rimpiango la vecchia Sip: una sola offerta uguale per tutti gli Italiani. La rimpiango perché le eventuali fregature non facevano discriminazioni, mentre adesso spesso ti accorgi che è fregato solo chi, su queste cose, è… disinformato. Tu quotidianamente parli al telefono quanto il tuo amico, ma lui un certo giorno, con compiacimento, ti informa che da due anni ha gratis duecento minuti al mese pagando soli 5 euro e, nel vedere che tu di questa “offerta promozionale” non sai un cavolo, ti guarda come si può guardare un… beh, diciamo, un cretino.
Rimpiango la Sip perché non adescava migliaia di giovani laureati in Filosofia o Giurisprudenza per farti fare le telefonatine nel primo pomeriggio all’amaro prezzo, nostro, di venire svegliati di soprassalto e all’amaro prezzo, di questi giovani, di vedere buttati i loro studi ed essere posti sotto schiaffo da parte di utenti meno diplomatici di me, che alla raffica di parole pronunciate meccanicamente (sarà, quello, un lavoro alienante o no?) rispondono col garbato motto di Beppe Grillo, il Vaffanculo.
Io comunque da qualche tempo ho trovato un rimedio meno cruento, almeno per le ore pomeridiane. Fra le 15.00 e le 17.00 stacco il telefono; tanto, per le telefonate urgenti, mi si può rintracciare sul cellulare. I “folletti” di telecom, wind, teletu, tiscali, fastweb ecc., per due ore, sono belli e sistemati. E non possono più tentare di farmi credere che si facciano concorrenza: ognuno di loro, se dà qualcosa con la mano destra, prende qualcosa con la mano sinistra. Come nei supermercati: dieci prodotti con cinquanta centesimi in meno e novanta prodotti con cinquanta centesimi in più. Chi ci guadagna?

Ma oltre a quelli della moderna telefonia, c’è un altro tipo di “folletti da città”, quelli dell’arcifamoso Aspirapolvere Folletto Vorwerk. Loro non hanno orari, possono bussare alla porta alle dieci del mattino, come alle tre del pomeriggio, come alle sei di sera. Sono infaticabili. Tutti alti e bellocci, giacca e cravatta di gala, sorriso a trentadue denti, borsa da professionisti e cartellina con dépliant e contratti con mille clausole in “carattere sette”. Vendono una sola cosa: l’aspirapolvere. E’ inutile dirgli che questo tipo di elettrodomestici, come tutti gli altri, è ora in vendita in mille negozi specializzati e anche nei discount e che chi ne ha bisogno va personalmente a sceglierne uno confrontando i prezzi e le caratteristiche. Loro, per spingere all’acquisto, ti dicono che puoi pagarlo anche in comode rate; e poi, vedendoli, qualcuno si commuove e magari si convince di fare un’azione buona: la signora si fa un regalo e nello stesso tempo aiuta un povero giovane.

Per il modo in cui si presentano e per quel loro sorriso istrionico, diversamente dai telefonisti dei call center questi non mi fanno alcuna pena, anzi direi che mi irritano alquanto. Negli anni sessanta e settanta c’erano quelli che vendevano a domicilio le enciclopedie o le batterie da cucina ma, all’epoca, le città piccole e le contrade non avevano librerie o supermercati e le visite potevano avere la funzione di avvicinare l’offerta alla domanda. Oggi trovi tutto nel raggio di due chilometri e, perciò, niente più vendita diretta di enciclopedie e pentole. Per la Vorwerk invece il tempo non passa: la visitina a casa funziona ancora.
Non ci credete? Un giorno ad uno di questi giovanotti ho cercato di spiegare che l’invadenza della loro azienda era inutile e fastidiosa, ma lui, intuendo che quella tentata vendita era ormai senza speranza, mi ha buttato in faccia la realtà. “Non è inutile”, mi ha detto. “Io, vendendo questi aggeggi, guadagno in media tremila euro al mese”. Oggi, a distanza di un anno da quell’incontro, tento di fare un rapido calcolo: se la provvigione sul prezzo di circa 1.000 euro fosse del 20%, basterebbe venderne uno ogni due giorni per arrivare a quella cifra. Dunque quel giovanotto in ghingheri non ha mentito.
Mentre scrivo, mi accorgo che è il 22 di dicembre. Siamo in prossimità del Natale: perdoniamo loro, anche se… sanno quello che fanno!
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martedì 13 dicembre 2011

Edward Sapir: Cultura genuina e cultura spuria

“La cultura genuina non è necessariamente alta o bassa, ma solo essenzialmente armoniosa, equilibrata, soddisfacente in se stessa E’ l'espressione di un atteggiamento, riccamente variato e comunque unificato e consistente, verso la vita, un atteggiamento che scorge il significato di ciascun elemento di civiltà nel suo rapporto con gli altri. E’ una cultura, in cui nulla è senza significato spirituale, in cui non una parte importante del generale funzionamento porta con sé un senso di frustrazione, di sforzo mal diretto o non simpatetico. Essa non è un ibrido spirituale di toppe contraddittorie, di compartimenti-stagno della coscienza che evitano di partecipare a una sintesi armoniosa. (…) Se detesta la schiavitù, essa sente il dovere di un ridimensionamento economico che possa ovviare alla necessità del suo impiego; non fa gran mostra, nei suoi ideali etici, di una opposizione intransigente alla schiavitù soltanto per introdurre ciò che corrisponde al sistema schiavistico in taluni settori del suo meccanismo industriale. (…) Se inclina a smantellare le istituzioni religiose, è anche pronta a fare a meno delle case religiose istituite. (…) Non cura l'istruzione dei suoi figli in ciò che sa inutile e non vitale sia a loro che alla propria vita matura, né tollera mille altri ‘compromessi spirituali’ che sono manifesti nella vita americana di oggi.”
(E. Sapir, linguista e antropologo statunitense, 1884-1939) (1)

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A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, gradualmente, tutti i popoli hanno preso a modello di riferimento, economico e culturale, gli Stati Uniti. Eppure proprio da quel paese erano partiti i primi segnali dei pericoli insiti in quel modello. Il sociologo Thorstein Veblen già nel 1899 aveva denunciato le cause e le possibili derive di un consumismo, basato su una esasperata competizione sociale. L’antropologo culturale Edward Sapir, dopo un quarto di secolo, a quella denuncia ne aggiungerà un’altra: quella di una società economicamente efficiente, ma incapace di esprimere una cultura genuina, cioè organica ed aderente alle aspirazioni degli individui.
La cultura americana dà veramente rilievo al principio dell’uguaglianza politica e sociale? A giudicare dai discorsi ufficiali dei loro Presidenti e dalle linee ispiratrici di giornali e televisioni, sembrerebbe non esserci alcun dubbio: gli Usa sono la patria delle pari opportunità e dunque almeno di una 'certa forma’ di uguaglianza. Eppure tutti sappiamo del persistere di una sottile discriminazione razziale e dell’emarginazione dei negri (evito la recente, insulsa variante lessicale del termine) nei quartieri delle grandi città. Siamo dunque di fronte ad una società adagiata su una comoda ipocrisia: nel 2009 elegge un presidente negro, ma ai livelli più bassi il colore della pelle ha ancora la sua importanza.
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A parte una lunga storia della cinematografia contro i nativi “pellerossa” e gli esempi fatti a proposito dei negri, ci troviamo chiaramente di fronte ad una cultura ‘spuria’ in cui idee e sentimenti opposti, parole e fatti, pubblico e privato, entrano perennemente in conflitto. Sapir si addentra poi anche nei meccanismi economici, sostenendo che la forma estrema assunta dall’economia capitalistica in quel paese è in qualche modo assimilabile allo schiavismo. Più avanti nel saggio in questione dirà che la vita di una telefonista, che non sa esattamente a cosa serva il suo lavoro, è “inautentica”, non corrispondente alla sua interiorità, e dunque molto peggiore di quella di un indiano d’America che risolveva il suo problema economico con la pesca al salmone.
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A questo punto dobbiamo porci un'altra domanda, non esplicitata da Sapir nel breve saggio del ’24, ma alla quale egli dedicherà un altro articolo nel 1932 dal titolo Cultural Anthropology and Psychiatry. Poiché di esso non è disponibile la traduzione in italiano, ho potuto coglierne solo le linee essenziali, ma queste hanno rafforzato in me l’idea secondo la quale esiste un nesso abbastanza stretto fra una società “spuria” (non armoniosa e non equilibrata) ed una larga diffusione di stati di disagio psichico individuali.
La psichiatria, prima di assegnare ai meccanismi biologici ed alle terapie farmacologiche un ruolo dominante, con Freud aveva incardinato nel ‘sociale’ il problema delle varie forme di patologia. Su quel versante però essa trovava solo una componente della psiche, quella dei valori morali ufficiali. Sull’altro versante si trovava ancora qualcosa che apparteneva all’eredità genetica dell’individuo: gli istinti; in primo luogo, e non senza una certa esagerazione, quello sessuale. A mediare fra i due era deputato l’io razionale, il quale naturalmente poteva riuscire o meno nel suo compito. La patologia era dunque il frutto di uno scontro fra la natura, protesa sempre verso la piena libertà di espressione delle pulsioni primordiali, e le regole del vivere sociale, che tendono ad inibire questa libertà.
L’approccio antropologico-culturale di Sapir, pur non negando l’incidenza delle forze istintuali di amore ed odio, di vita e di morte, assegna invece ad esse un ruolo secondario. In base a questa diversa impostazione il disagio dell’individuo sembra sorgere non tanto da un conflitto fra gli istinti inconsci e un Super-io morale, ma dai contrasti di una duplice, o addirittura molteplice, educazione morale, derivata da più figure autorevoli e gruppi sociali influenti, portatori di norme e valori antitetici.
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Uno psicologo, del cui nome nella mia memoria s’è persa traccia, ha raffigurato il cervello umano a un nastro di registrazione a più piste, capace di memorizzare contemporaneamente cose diverse. Quando a un bambino il papà dice che il dolce fa male ai denti e nello stesso momento la mamma sostiene che in fondo basta lavarseli spesso, il bambino memorizzerà entrambe le risposte e, quando sarà adulto, di fronte ad un dolce non saprà quale dei due insegnamenti utilizzare.
Finché si tratta di cose simili il dilemma si risolve con facilità, ma quando si tratta di scelte di maggiore rilievo, cominciano i guai. Ad esempio, l’amore è un sentimento di bene che ha come sbocco naturale i rapporti sessuali oppure un desiderio di godimento che può giustificare anche un atto di sopraffazione? Se il giovane adolescente in famiglia e a scuola ha imparato ad avere rispetto per l’altro sesso, ma dal web e nei discorsi fra amici ha imparato ad agire da predatore, qualche anno più tardi, di fronte alle situazioni concrete, sarà indeciso nella scelta fra i due modelli di comportamento perché, scegliendo uno dei due, contravverrà all’altro. Se avrà un atteggiamento molto rispettoso verrà meno al modello interiorizzato dagli amici, mentre se sarà aggressivo verrà meno al modello acquisito in famiglia e a scuola. Nell’un caso e nell’altro, la scelta sarà causa di sofferenza.
Quando si vive in una società non genuina, le cause di sofferenza come quella appena citata saranno tante. Per molte si troveranno intelligenti compromessi, ma non sempre ciò sarà possibile. Ci sono percorsi che alla fine conducono a un punto di rottura, e da questo potrebbe derivare una angosciosa indecisione cronica. Oppure si può giungere alla soppressione di uno dei modelli acquisiti, a vantaggio esclusivo dell’altro, la qual cosa può determinare forme più o meno serie di disturbi fobici o maniacali.


(1) Il brano in corsivo è tratto da un articolo pubblicato dall’antropologo culturale Edward Sapir nel 1924 sull’ “American Journal of Sociology” col titolo Culture, genuine and spurious e, in Italia, nel 1960, in “Antologia delle Scienze Sociali” (Il Mulino) col titolo Cultura e pseudocultura, da me inserito di recente alla pagina web
www.scribd.com/doc/233619377/Edward-Sapir-Culture-genuine-e-culture-spurie
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