martedì 21 luglio 2015

Carla Facchini e Marita Rampazi: “Non più giovani, non ancora anziani”




Ognuno di noi è portatore di un sistema di idee. Naturalmente le connessioni logiche fra gli elementi del sistema possono essere più o meno forti, allo stesso modo in cui in un canovaccio le maglie possono essere a trama fitta o larga. Ma nonostante queste diversità, per acquisire ogni nuovo elemento (un evento, un messaggio scritto o verbale) è sempre necessario un sistema di idee capace di includerlo, stabilendo nuove connessioni.
Ci sono però messaggi nuovi che il reticolo di idee di cui siamo portatori non identifica bene o che rifiuta, e messaggi che invece facciamo immediatamente nostri, ‘come se’ li riconoscessimo, come qualcosa di déjà vue. E’ questo il caso del saggio di Carla Facchini e Marita Rampazi* “No longer young, not yet old. Biographical uncertainty in late-adult temporality”, pubblicato in inglese nel 2009 dalla Rivista Time&Society.

Il lavoro, frutto di una ricerca svolta in Lombardia, ma anche di studi fatti in precedenza separatamente dalle autrici, espone in modo rigoroso e documentato il problema delle incertezze che caratterizzano da alcuni decenni le fasce d’età dei giovani e degli anziani. Essendo destinato prevalentemente all’ambiente accademico, esso contiene frequenti riferimenti bibliografici ed una particolare terminologia specialistica. Poiché però il tema trattato è di interesse notevole per tutte le fasce di età e per tutti gli strati sociali, proverò a darne una versione molto ‘semplificata’, correndo il rischio di omettere qualcosa di importante o di distorcere in qualche misura il senso di alcuni concetti e di alcune classificazioni. E’ il rischio che, pur se in diversa misura, corrono tutti coloro i quali ritrasmettono il messaggio di altri.
Devo confessare che in questo lavoro sono stato facilitato dall’opportunità di leggere l’articolo in lingua italiana, cosa della quale sono grato ad una delle due autrici, Carla Facchini, che ho avuto il piacere di conoscere a Trento nel corso degli studi universitari fra il ’66 e il ‘70.


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In ogni società il corso della vita degli individui è strutturato secondo criteri condivisi. Non c’è bisogno di essere sociologi per includere le varie persone che conosciamo nelle categorie dei ‘giovani’, degli ‘adulti’ e dei ‘vecchi’. Queste sono categorie riscontrate anche nei popoli non civilizzati e nella narrativa di tutte le epoche, oltre che nell’esperienza comune.
Dov’è la novità della ricerca di cui tenterò di fare una sintesi? E’ nella presa di coscienza della diversa ampiezza di queste fasi della vita, e del variare delle difficoltà nella transizione da una fase all’altra, a seconda della società in cui si vive.
Secondo i diversi criteri fatti propri da ogni società, abbiamo segmenti di età di ampiezza notevolmente diversi. In Europa, ad esempio, fino al secolo scorso la speranza media di vita era piuttosto bassa e l’ampiezza degli intervalli non era molto dissimile da quella dei popoli antichi o di quelli oggi sottosviluppati.


Nei paesi sviluppati e in età post-industriale l’allungamento della vita media ha invece provocato uno slittamento in avanti del passaggio fra le tre fasi fondamentali, con un allungamento delle due fasi estreme.


Ma le differenze fra le varie categorie di età non riguardano solo la loro ampiezza temporale. Occorre anche analizzare le difficoltà implicate nel passaggio da una categoria all’altra.
Fino a un certo momento il passaggio dalla giovinezza all’età adulta era segnato con precisione anche da eventi simbolici, che ne comportavano la irreversibilità: ad esempio, i riti di iniziazione nelle tribù primitive o la fine degli studi nella società industriale. Il passaggio dall’età adulta alla terza età invece non comportava eventi celebrativi precisi, ma già la canizie e le malattie inabilitanti erano elementi che segnalavano in modo inequivocabile l’avvenuta transizione.
Gli eventi simbolici, che imponevano all’individuo il nuovo ruolo sociale di adulto o vecchio, per un verso lo stringevano in una gabbia temporale di ampiezza standard, valida per tutti, che non lasciava spazio alle caratteristiche della personalità individuale; dall’altro davano però delle certezze, e a volte delle gratificazioni, che allentavano le tensioni psicologiche. La ‘strada segnata’ come quella di un treno, per riprendere la metafora di Francesco De Gregori, è causa di sofferenze e taglia le gambe a molti sogni; essa però riduce i dubbi, le ansie, i problemi di coscienza. ‘La prateria’, invece, simbolo di libertà indefinita, disorienta, non guida, non sorregge; tutto è nelle mani del soggetto che opera le sue scelte, con le opportunità ed i rischi che ne conseguono.

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Nel punto precedente ho ampliato, forse oltre il dovuto, l’arco storico entro il quale ripensare i problemi dell’età. In effetti, il saggio di Facchini e Rampazi è il frutto di una ricerca effettuata in un ambito territoriale ben preciso e che prende in considerazione i mutamenti avvenuti negli ultimi tre decenni, indicati come ‘seconda modernità’, in contrapposizione ai decenni immediatamente precedenti, indicati come ‘prima modernità’. Riguarda pertanto un arco temporale molto più ristretto e a noi più vicino.
La prima modernità indica la visione del mondo e il progetto di vita di coloro i quali sono nati nel primo decennio del dopoguerra e, al momento della ricerca (2009), avevano fra i 55 e i 65 anni d’età.
La seconda modernità indica invece il modo di concepire e gestire le fasi della propria vita da parte della generazione successiva, i giovani nati dopo gli anni ‘70. Si può tranquillamente dire che il secondo gruppo è costituito dai figli del primo gruppo.

Questi giovani, che oggi hanno fra i 25 e i 35 anni d’età, sono stati penalizzati dalle scelte del neoliberismo thatcheriano, che è dilagato in tutto il mondo occidentale, facendo diminuire le opportunità di occupazione sia nel settore privato (globalizzazione e delocalizzazione delle attività produttive) che nel settore pubblico (stretti vincoli nel bilancio delle pubbliche amministrazioni).
A questi fattori strutturali bisogna aggiungere alcuni mutamenti culturali, non meno importanti. L’espansione economica e la spinta al consumismo degli ultimi decenni del secolo scorso, cui si sono aggiunte radicali innovazioni tecnologiche, hanno creato l’illusione di una ricchezza capace di autoriprodursi indefinitamente e di estendersi a tutte le classi sociali. Questa illusione ha indotto a una logica di deresponsabilizzazione, la quale, unitamente alle difficoltà oggettive occupazionali prima accennate, ha determinato una dilazione del momento delle scelte lavorative ed affettive e, in alcuni casi, addirittura una rinuncia talmente protratta nel tempo da poter essere considerata definitiva.
L’illusione però prima o poi si scontra inevitabilmente con la realtà e, quando si scopre che la ricchezza non si autoriproduce all’infinito né si estende a tutte le classi sociali, il futuro diventa pieno di incertezze.

Le persone che oggi hanno fra i 60 e i 70 anni, incluse quelle che in età giovanile hanno partecipato attivamente agli ‘autunni caldi’ e ai movimenti studenteschi degli anni Sessanta, hanno in genere finito per accettare una logica tradizionale, progettando la propria vita con scelte irreversibili riguardanti il lavoro e la famiglia e, tanto dal punto di vista economico quanto da quello delle relazioni sociali ed affettive, potrebbero tendenzialmente vivere in condizioni di sicurezza e di stabilità.
La riuscita del progetto viene però messa in discussione dallo stato di disagio in cui vivono i loro figli e, per via del progressivo allungamento della vita, anche dai doveri di assistenza nei confronti dei propri genitori, spesso non più autosufficienti.

Se questa è la situazione in cui vivono i ‘giovani non ancora adulti’ e gli ‘adulti non ancora vecchi’ coinvolti dalla 'seconda modernità', in una nazione che come quella italiana è caratterizzata da un forte familismo, le condizioni di vita acquisite dai secondi non possono non risentire delle incertezze dei primi.
E’ in questo legame che la ricerca di Facchini e Rampazi, trova l’anello di congiunzione fra le due modernità. Gli anziani, alle generali prospettive di cedimento psico-fisico e di nuove problematiche affettive (perdita del partner o instabilità del rapporto di coppia) aggiungono la preoccupazione di dover sostenere materialmente e psicologicamente i propri figli. Per le mamme, a questi disagi psicologici si sommano poi quelli per le cure domestiche per i figli che rimangono a lungo in casa e per i genitori non autosufficienti che non trovano adeguata assistenza nelle strutture pubbliche.
Il saggio mi sembra caratterizzato fondamentalmente dalla sottolineatura di queste incertezze della seconda modernità, che vanno a incidere in modo preoccupante sui giovani e sui sessantenni, e conia, per la linea di trasmissione generazionale che li collega, il suggestivo termine di “incertezza riflessa”.

Tuttavia, intravedendo nella seconda modernità anche un orientamento innovativo, contrapposto a quello tradizionale, la ricerca apre uno spiraglio di ottimismo, in cui io purtroppo non credo molto. In questa diversa ottica, nelle categorie economicamente più solide e nelle famiglie in cui il valore dell’autonomia prevale su quello della solidarietà, le incertezze possono anche essere vissute come fonte di ‘opportunità’. Ma, forse, lo spiraglio ad un possibile ottimismo da parte delle autrici è legato al fatto che la loro ricerca ha, come contesto di riferimento, la realtà lombarda in cui la disoccupazione giovanile e adulta e, in generale, le problematicità economiche sono meno diffuse rispetto al resto del paese, in particolare rispetto alle regioni del Sud.
Le autrici fanno anche notare che la ricerca di nuove opportunità, contrariamente a quanto si sarebbe indotti a ipotizzare, è meno frequente nelle famiglie con alto grado di istruzione. In queste, ai maggiori problemi occupazionali dei giovani laureati, derivanti da uno scarto più elevato fra aspettative e possibilità di lavoro congruo agli studi fatti, si somma in genere l’effetto di sistemi educativi che accettano maggiormente i ritardi nelle scelte di vita e il prolungarsi della giovinezza oltre i limiti normalmente imposti dai ritmi biologici e psicologici.


Considerazioni personali

La sociologia non crea ‘fatti sociali’, come la botanica non crea alberi o fiori. I fatti e le piante esistono di per sé, sono delle realtà oggettive. Però, come un botanico classifica le piante e ne individua le caratteristiche e la loro utilità o pericolosità, il sociologo cerca di scoprire e di comunicare agli altri le condizioni di vita del proprio tempo. La consapevolezza di un problema è il primo passo necessario per la sua soluzione.
E quali sono le possibili soluzioni per combattere i disagi prodotti dalle incertezze vissute oggi dalle due generazioni prese in esame? La ricerca non le suggerisce esplicitamente, perché questo non è in senso stretto il suo compito.

In linea con gli orientamenti ideali che mi guidano dall’adolescenza, penso che sia necessario smontare pezzo per pezzo, con le armi della ricerca critica, l’ideologia neoliberista che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni – non a caso questo periodo viene a coincidere proprio con il passaggio dalla prima alla seconda modernità di cui parla il saggio – e restituire alla politica la supremazia sui poteri economici e finanziari.
Ma in quale direzione ci si deve orientare? Provo a dare alcune brevi risposte, già esposte in modo più articolato in precedenti articoli del blog, anche se sono cosciente di passare da argomentazioni propriamente sociologiche ad argomentazioni di natura economica.
1) La ricchezza si è concentrata in pochissime mani, la ‘trottola’ di Pareto si è troppo schiacciata verso il basso (impoverimento del ceto medio) e allungata verso l’alto (crescita dei profitti e delle rendite finanziarie); occorrono dunque meccanismi di redistribuzione del reddito ed un sistema fiscale che tenga in maggiore considerazione l’aspetto patrimoniale.
2) Come profetizza il sociologo del lavoro Domenico De Masi, non ci sarà mai più una ripresa dell’occupazione. Al sorgere della società industriale forse fu prematuro dire che le macchine avrebbero sostituito interamente la forza lavoro, ma adesso, a livello tendenziale, questo è un dato di fatto. Unico rimedio possibile per questa svolta storica nel sistema produttivo è che il poco lavoro che resta venga distribuito fra tutti, diminuendo le ore lavorative di ciascuno.
3) I paesi del Bric hanno un reddito pro-capite di 5-10.000 euro contro i circa 30-40.000 euro dei paesi sviluppati, e le industrie si spostano liberamente dove il costo del lavoro è basso. Questo sembrerebbe un processo inesorabile, ma io penso che i capitali e il know how di una nazione sono frutto del lavoro dei cittadini di tutte le passate generazioni e non del proprietario pro-tempore o dei suoi discendenti. Credo perciò che si possa, almeno in parte, rimettere in discussione il loro diritto di trasferirli unicamente secondo il criterio della convenienza aziendale.
4) La maggior parte dei paesi europei garantisce un reddito minimo a tutti i cittadini. In Italia questa è una proposta che viene avanzata da un movimento politico non ben caratterizzato ideologicamente, ma per coerenza dovrebbe subito essere fatta propria dai partiti che rappresentano i ceti sociali più deboli. Messo che, di questi partiti, ancora ce ne siano!

Queste considerazioni sono ovviamente frutto di miei personali convincimenti, e, in quanto tali, discutibilissime. Che oggi invece, come evidenziato dalla ricerca di Carla Facchini e Marita Rampazi, le pesanti incertezze dei giovani trascinino nell’incertezza anche la generazione precedente, questo mi sembra un dato incontestabile.


* Carla Facchini - Professore Ordinario di Sociologia della Famiglia, Facoltà di Sociologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
* Marita Rampazi - Professore straordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Pavia


(1) “La crescita numerica è servita a far emergere l'ovvia constatazione che la popolazione anziana è […] tutt'altro che omogenea all'interno della classe '60 anni e più'. Essa infatti include sia gli anziani, che in generale sono ancora indipendenti, attivi e in buone condizioni di salute, sia i vecchi e i molto vecchi che sono spesso completamente dipendenti dagli altri, incapaci di badare a loro stessi e in precarie o cattive condizioni di salute. È necessario perciò tenere in considerazione […] anche la dinamica dell'ammontare e della proporzione dei vari gruppi di età all'interno della grande classe degli anziani e dei vecchi. Le due soglie di età ritenute significative sono i 60 anni e gli 80, ed è a queste età che normalmente si fa riferimento adottando o una classificazione sintetica basata su due classi di età: 60 anni e più, 80 anni e più; o, meglio, una analitica basata su classi […] decennali: 60-69 anni, 70-79 anni, 80 anni e più.
Nell'ultimo caso si può parlare di anziani per la prima classe di età (60-69 anni), di vecchi per la seconda e di molto vecchi (o grandi vecchi, oldest old, nella letteratura americana) per la terza.
Dal punto di vista formale c'è da sottolineare come la classificazione non sia standardizzata né in sede internazionale né in sede nazionale.”
Alla voce ‘Anziani’, paragrafo 3, lettera a
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