lunedì 6 ottobre 2014

“L’idiota” di Fëdor Dostoevskij

   


  Gli uomini buoni, buoni oltre ogni misura, sono quasi sempre trattati da “idioti”. Così è stato per Cristo se si esclude la devozione degli apostoli e dei miracolati; così è per il principe Myskin nel romanzo di Dostoevskij.
Sono alla terza lettura del romanzo e, devo dire, non m’annoio affatto. Seguo di nuovo con stupore la felice ingenuità del principe Myskin, le lacerazioni interiori della sfortunata Nastas’ja Filippovna e dell’impulsivo Rogozin, la dolcezza della giovane Olga Epančin e i rancori di Gavrila Ardalionyč.
Non ripercorro le vicende di questi ed altri personaggi per due motivi: 1) la trama non è il pregio principale del romanzo; si tratta di una storia d’amore che, se narrata da un autore mediocre, non differirebbe molto da tante altre storie simili; 2) se il film omonimo di Akira Kurosawa del 1951 è stato visto da una schiera ristretta di cinefili, l’ottimo sceneggiato televisivo, trasmesso dalla Rai nel 1959, in Italia ha fatto conoscere il romanzo ad un pubblico vastissimo ed eterogeneo (lo sceneggiato è ancora disponibile su YouTube e ne consiglio caldamente la visione).

Per presentare il romanzo a coloro che non hanno avuto occasione di né di leggere il libro né di vedere la rappresentazione cinematografica o teatrale, anziché tracciare la storia o indugiare sui personaggi ho perciò voluto riportare le prime pagine del libro. Perché proprio quelle? Perché all’ultimo capoverso ho colto delle considerazioni molto interessanti dal punto di vista sociologico.
Ci sono persone che, come l’impiegato intervenuto nella discussione, anche se poco istruite sanno tutto sulla vita privata degli altri. Queste particolarissime conoscenze agevolano talvolta la scalata sociale più di tanti studi. Dal punto di vista pratico sembra proprio che il ‘pettegolezzo’ - consentendo di conoscere il carattere e i punti deboli delle persone con cui si viene, o si potrebbe venire, a contatto – sia, per il raggiungimento dei propri fini egoistici, uno strumento più utile della cultura.
Dal testo originale ho eliminato poche righe riguardanti i caratteri fisiognomici dei due personaggi, per renderne più gradevole la lettura sul web.

Cataldo Marino

* * *

Verso le nove del mattino d'una giornata di sgelo, sul finir di novembre, il treno della ferrovia Pietroburgo-Varsavia si avvicinava a tutto vapore a Pietroburgo. Il tempo era così umido e nebbioso, che a stento si era fatto giorno; difficile era distinguere qualche cosa dai finestrini della carrozza a dieci passi di distanza, a destra come a sinistra della linea. Dei viaggiatori, alcuni tornavano dall'estero; ma soprattutto erano affollati gli scompartimenti di terza classe, e tutti di gente minuta e d'affari che non veniva da molto lontano. Tutti, come succede, erano stanchi, infreddoliti, con gli occhi assonnati e il viso giallognolo, intonato al color della nebbia.

   In una delle vetture di terza classe, fin dall'alba, si erano trovati di fronte, presso lo stesso finestrino, due viaggiatori: giovani entrambi, quasi sprovvisti di bagaglio e vestiti senza eleganza, tutti e due abbastanza notevoli per la loro fisonomia, e tutti e due presi finalmente dal desiderio di mettersi a discorrere insieme. L'uno (Rogozin) era di media statura, sui ventisette anni, ricciuto e quasi nero di capelli, con occhi grigi, piccini, ma pieni di fuoco. […] Vestito di panni pesanti, con un'ampia pelliccia di agnello foderata, non aveva preso freddo durante la notte, mentre il suo vicino (il principe Myskin) era stato costretto a sopportare sulla schiena intirizzita tutta la dolcezza dell'umida notte russa di novembre, alla quale evidentemente non era preparato.
   Aveva addosso un mantello senza maniche abbastanza ampio e spesso, con un gran cappuccio, proprio come lo portano d'inverno molti viandanti in certi lontani paesi stranieri, in Svizzera, per esempio, o nell'Italia Settentrionale, senza tuttavia dover percorrere distanze come quella da Eydtkuhnen a Pietroburgo. Ma quel che faceva al caso ed era sufficientissimo in Italia si era mostrato non del tutto indicato in Russia. […] Il viso del giovane, del resto, era simpatico, fine ed asciutto, ma smorto, anzi in quel momento illividito dal freddo. Nelle mani gli ballonzolava un magro involtino di vecchio e stinto foulard, che conteneva forse tutto il suo bagaglio. Nei piedi aveva scarpe dalle suole spesse, con ghette; e tutto questo non aveva l'aria russa.

   Il suo vicino dai capelli neri e dalla pelliccia di agnello foderata osservò tutto ciò, anche perché non aveva nulla da fare, e alla fine, con quel sorrisetto indelicato in cui si esprime a volte in modo cosi sbadato e poco riguardoso l'umana compiacenza dinanzi alle sfortune del prossimo, domandò:
- Patite il freddo?
E scosse le spalle.
- Molto, - rispose il vicino con gran prontezza, - e questa, notate, è una giornata di sgelo. E se gelasse? Non pensavo davvero che da noi fosse cosi freddo. Non c'ero più abituato.
- Venite dall'estero?
- Si, dalla Svizzera.
- Caspita! Allora, già!...
Il giovane dai capelli neri fece un fischio e si mise a rider forte.
   Si avviò una conversazione. La premura del giovane biondo dal mantello svizzero di rispondere a tutte le domande del suo bruno vicino era meravigliosa e scevra di qualsiasi sospetto che talune di esse fossero troppo disinvolte, fuor di luogo e oziose. Rispondendo, disse fra l'altro che in realtà per lungo tempo, più di quattr'anni, non era stato in Russia e che era stato mandato all'estero per malattia, una strana malattia nervosa, una specie di mal caduco o di ballo di San Vito, con tremiti e convulsioni. Nell'ascoltarlo, il bruno sorrise più volte; soprattutto si mise a ridere quando, alla sua domanda: « Ebbene, vi hanno guarito? », il biondo rispose: « No, non mi hanno guarito ».
- Eh, eh! Avrete speso chi sa quanto denaro per niente, e noi qui abbiam fede in loro, - osservò sarcasticamente il bruno.
- Proprio davvero! - disse, mischiandosi nella conversazione, un signore malvestito seduto lì accanto, qualche cosa come un impiegato fossilizzato nel lavoro di cancelleria, sui quarant’anni, di complessione robusta, col naso rosso e la faccia piena di pustole.- Proprio davvero, non fanno che succhiare tutte le forze russe per nulla!
- Oh, nel mio caso come v'ingannate! - replicò quello che era andato a curarsi in Svizzera, con voce sommessa e conciliativa. - Certo, io non posso discutere, perché non so tutto, ma il mio medico mi ha dato ancora denaro suo, dell'ultimo che aveva, per venir qua, e già mi aveva mantenuto là a sue spese per quasi due anni.
- Come? non c'era nessuno che pagasse? - domandò il bruno.
- No: il signor Pavlisčev, che mi manteneva laggiù, mori due anni fa; io poi scrissi qua, alla moglie del generale Epančìn, mia lontana parente, ma non ebbi risposta. E cosi, eccomi venuto.
- Venuto dove?
- Volete dire, dove mi fermerò?... Non so ancora bene... cosi...
- Non avete ancora deciso?
E i due ascoltatori scoppiarono di nuovo a ridere.
- E questo fagottino, suppongo, contiene tutti i vostri averi? - domandò il bruno.
- Son pronto a scommettere che è cosi, - saltò su a dire, tutto allegro, l'impiegato dal naso rosso, - e che altra roba nel bagagliaio non ce n'ha, anche se la povertà non è peccato, cosa che pure non si può fare a meno di osservare.

   E anche questo era vero: il giovane biondo lo riconobbe subito, con rara prontezza.
- Il vostro fagottino ha però una certa importanza, - seguitò l'impiegato, dopo che i due ebbero sghignazzato a sazietà (è da notarsi che alla fine anche il possessore del fagottino, guardandoli, aveva cominciato a ridere, cosa che accrebbe ancora la loro gaiezza), - e sebbene si possa scommettere che non contiene dei rotoli di monete d'oro straniere, napoleoni e luigi, e nemmeno fiorini olandesi, come si può arguire non fosse che dalle ghette che fasciano le vostre scarpe di marca estera, tuttavia... se al vostro fagottino si aggiunge per soprammercato una parente come sarebbe, verbigrazia, la generalessa Epančinà, anche il fagottino viene ad assumere un'importanza alquanto diversa, ma solo nel caso, s'intende, che la generalessa Epančinà sia vostra parente davvero e che voi non v'inganniate, per distrazione... cosa perfettamente umana, be', non foss'altro... per eccesso di fantasia.
- Oh, avete indovinato ancora una volta, — prese a dire il giovane biondo, - perché è quasi vero che m'inganno, cioè è quasi come se non fosse mia parente, tanto che io allora non mi meravigliai per nulla che non mi avesse risposto laggiù. Me l'aspettavo.
- Avete sprecato i soldi dell'affrancatura. Uhm!... almeno siete semplice e sincero, e questo è lodevole. Ehm!... quanto al generale Epančìn, lo conosciamo, precisamente perché è un uomo notissimo; e anche il defunto signor Pavlisčev, che vi manteneva in Svizzera, lo conoscevamo pure, dato che si tratti di Nikolàj Andréevič Pavlisčev, perché eran due cugini. L'altro vive tuttora in Crimea, ma Nikolàj Andréevič, il defunto, era persona stimata e ricca di aderenze, e a suo tempo aveva posseduto quattromila anime...
- Proprio cosi, si chiamava Nikolàj Andréevič Pavlisčev, - e, dopo avere risposto, il giovane osservò fissamente e con curiosità il signore onnisciente.

   Questi signori onniscienti s'incontrano a volte, anzi abbastanza spesso, in una certa classe sociale. Essi sanno tutto, e l'irrequieta curiosità del loro spirito e le loro capacità si tendono irresistibilmente in questa sola direzione: in mancanza, certo, di più importanti interessi e opinioni morali, come direbbe un pensatore contemporaneo. Con le parole « sanno tutto », del resto, bisogna intendere un campo abbastanza ristretto; dov'è impiegato il tale, con chi è in relazione, quanto possiede, dov'è stato governatore, chi ha sposato, che dote ha presa, chi gli è cugino, chi biscugino, ecc. ecc., e tutte cose del genere. Per lo più questi onniscienti se ne vanno in giro coi gomiti strappati e hanno diciassette rubli di stipendio al mese. Le persone di cui sanno vita e miracoli, certo, non immaginerebbero mai quali moventi li guidino, ma intanto molti di essi, in questo loro sapere che equivale a tutta una scienza, trovano un vero conforto, acquistano stima di sé e perfino il supremo benessere spirituale. È’ infatti una scienza che seduce. Io ho conosciuto scienziati, letterati, poeti, uomini politici, che proprio in questa scienza conseguivano, e avevano conseguito, le loro soddisfazioni e mete più alte, anzi precisamente in tal modo soltanto avevano fatto carriera.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij