lunedì 2 novembre 2015

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag. 1

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 “Andavano e sempre camminando cantavano eterna memoria, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto.
 I passanti facevano largo al corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano: "Chi è il morto?" La risposta era: "Živago." "Ah! allora si capisce."
 "Ma non lui. La moglie." "È lo stesso. Dio l'abbia in gloria. Gran bel funerale."
 Scoccarono gli ultimi minuti, scanditi, irrevocabili. "La terra del Signore e la sua creazione, l'universo e ogni cosa vivente…"
 Il prete nel gesto della benedizione gettò un pugno di terra su Màrija Nikolàevna. Fu intonato "Con gli spiriti giusti." Poi tutto prese un ritmo spaventoso. La bara fu chiusa, inchiodata, calata nella fossa. Tambureggiò la pioggia delle palate di terra, rovesciata in fretta, con quattro vanghe, sulla cassa, finché non si formò un piccolo tumulo. Sopra vi salì un ragazzo di dieci anni.
 Soltanto quello stato d'inebetito torpore, che di solito prende alla fine d'ogni imponente funerale, poté creare l'impressione che il bambino volesse tenere un discorso sulla tomba della madre.
 Lui sollevò la testa e dal tumulo abbracciò con sguardo assente i deserti spiazzi autunnali e le guglie del monastero. Il suo volto camuso si contrasse. Il collo si protese. Fosse stato un lupacchiotto a levare il capo in quell'atto, c'era da credere che avrebbe preso ad ululare. Il ragazzo si coprì la faccia con le mani e scoppiò in singhiozzi. Muovendo verso di lui, una nube cominciò a colpirlo sulle mani e sul viso con le umide sferze di un gelido scroscio. Alla tomba si avvicinò un uomo, in nero, con le maniche strette che tiravano ai gomiti. Era il fratello della morta e zio del fanciullo che piangeva, il sacerdote Nikolàj Nikolàevic Vedenjapin, ridotto allo stato laicale a propria richiesta. Si accostò al ragazzo e lo condusse via.”

Borìs Pasternàk

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Il 2 di novembre si va in cimitero: è festa. I fiori, l’abito più grigio possibile, sguardi discreti, sussurri. Si lustrano le cappelle, le croci, le statue, le foto. I nostri cari, ancora una volta, devono far bella figura.
Io che sono bastian contrario - forse ci sono nato! - non vado. Tanto, ogni giorno, sono loro – mamma, papà, nonni, cognato e amico – a venire da me. Si nascondono nel cassetto della mia scrivania sotto forma di foto. Una è di grandezza normale, sicché le altre, più piccoline, sembrano quasi accucciarsi vicino ad essa, sotto o di lato.
Vengono ogni giorno perché quello è il cassetto della scrivania su cui sta il computer, dove passo tanto tempo a leggere o scrivere. Ed è inevitabile aprirlo ogni giorno, per prendere una matita o qualcos’altro. E’ in quel momento che loro escono di soppiatto. Io li guardo uno per volta: mi sorridono, gli sorrido, mi dicono qualcosa, dico loro qualcosa, e richiudo.

Niente feste, niente fiori. Opere di bene, ehm, quando capita. Ho l’impressione che loro ne siano contenti. Io lo sono di sicuro, perché da quei brevi ‘contatti’ traggo nuove energie per andare incontro al giorno, se è mattino, o alla notte, quando è sera. 
Come ringraziarli? Oggi lo faccio con la prima pagina d’un vecchio libro. Niente sfoggio di letture, è un libro che, pur se impervio, conosciamo in molti. Impervio nelle lunga e complicata trama, ma non nella prima pagina, che in ogni bel romanzo deve essere la migliore, con le parole scelte ad una ad una. Dalla seconda in poi l’autore può anche permettersi il lusso di qualche divagazione, ma la prima dev’essere perfetta. E questa lo è.

Ci sono momenti in cui la vita prende una svolta definitiva: quando nasce un figlio; quando ci presentiamo a un altare o una bandiera per dire “sì”; quando gli occhi di una persona, che abbiamo guardato con amore per lungo tempo, li vediamo chiudersi per sempre. In tutti questi casi sappiamo che la nostra identità sta cambiando: non saremo più esattamente come finora siamo stati.
Sono momenti difficili, in cui la natura per fortuna ci protegge, stordendoci, rendendo la realtà quasi un sogno. E’ quello che accade al piccolo Jurij Živago di fronte al tumulo di terra che coprirà per sempre il volto della madre. E come lui tutti noi, in quei casi, ridiventiamo bambini.

Cataldo Marino
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