venerdì 25 settembre 2015

Arthur Miller e la storia di un commesso viaggiatore, un dramma americano

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Cosa succede quando, a un certo punto della vita, delusione si aggiunge a delusione? La maggior parte degli uomini si rassegna e trova un modo per ‘razionalizzare il reale’, altri reagiscono cercando di deviare il corso degli eventi, altri ancora non sono capaci di fare né l’uno né l’altro e cadono in uno stato di profonda disperazione.
Ma da dove vengono le delusioni? I venditori di oroscopi sono dei mattacchioni che tirano a campare vendendo ottimismo o spacciando per passeggera ogni difficoltà. Però essi hanno saputo individuare i tre campi fondamentali in cui si agita l’animo umano: le condizioni fisiche, gli affetti e il lavoro.

Willy Loman, il protagonista del dramma di Arthur Miller “Morte di un commesso viaggiatore”, è un uomo che fa per tutta la vita migliaia di chilometri alla settimana per vendere indumenti femminili ai piccoli e medi negozietti di mezza America. Ama teneramente sua moglie Linda e ne è ricambiato oltre ogni misura immaginabile; è orgoglioso dei due figli, li stimola a impegnarsi con coraggio nella vita e fa grandi sacrifici, sognando di lasciar loro un giorno la casetta comprata col mutuo. Una vita normale, dunque, quasi felice. Felice fino a quando tutto, gradualmente, non sembra rivoltarglisi contro.
E il capovolgimento ha inizio per colpa sua, quando Biff, il figlio prediletto, per il quale nutre grandi aspettative, lo raggiunge a sorpresa a Boston in un alberghetto e lo trova in stanza con la segretaria di uno dei negozianti. Da allora Biff smette di studiare, perde interesse per la vita, va nel Texas a fare il mandriano e di tanto in tanto, ormai trentacinquenne, torna a casa per… litigare col padre.
Il figlio più piccolo, Happy, lavora invece in una piccola azienda commerciale, ma non riesce schiodarsi dalle sue modeste mansioni, perché pensa solo alle donne; giunge persino, senza farsi scrupoli, a insidiare poco prima delle nozze la fidanzata del capufficio, tradendone la fiducia.
Invecchiando, Willy, che al tempo in cui si svolge il dramma ha più di sessant’anni, perde colpi anche nel lavoro. Parlando di questo argomento con la moglie ed i figli, spesso mitizza le sue capacità di convincere i clienti all’acquisto, ma nei momenti di sconforto dice la verità: non ha mai avuto il fisico e la personalità giusta per vendere e guadagnare abbastanza. Da qualche anno poi conclude poco o nulla, fa ogni settimana migliaia di chilometri in auto per tornare a casa con la valigia in mano e senza provvigione. E il giovane proprietario dell’azienda, senza tener conto dei suoi trentadue anni di stressante lavoro, prima toglierà la parte fissa della retribuzione e poi cinicamente lo licenzierà. Come ogni buon commerciante, "gli affari sono affari" gli dirà.

Quando un uomo perde la fiducia in se stesso, quando tutti i suoi sogni sono sepolti, egli non si salva più in nessuno di quei tre campi fondamentali identificati dai venditori di oroscopi. I fallimenti si intrecciano, si susseguono, forse si inseguono. I pensieri diventano confusi e spesso contraddittori, il passato si mescola col presente, generando rimorsi e rimpianti, e i ricordi più amari restano soffocati nelle parti oscure dell’anima creando inquietudine.
Questa complessa situazione psicologica costringe l'autore del dramma a delle scelte teatrali audaci. I ricordi di Willy entrano in scena, alternandosi con il presente, in un gioco che allo spettatore richiede la massima attenzione, perché i vari passaggi dalla realtà alle allucinazioni sono segnati solo dal sapiente utilizzo delle luci e da una scenografia articolata: soggiorno, stanza da letto e un piccolo giardino privato.
Stravolto e allucinato, Willy ‘vede’ e ‘parla’ coi figli ancora piccoli, con la moglie ancora giovane e col fratello maggiore, da molto tempo lontano, ma da lui osannato perché ha avuto il coraggio di partire per altri continenti e la fortuna di diventare proprietario di una miniera di diamanti. Nella realtà, oltre ai familiari, le uniche persone con cui Willy parla sono solo il suo amico e vicino di casa Charley, che mosso da un misto di pietà e simpatia lo finanzia generosamente, e Bernard, suo figlio, che, diversamente dagli amici d’infanzia Biff e Happy, ha proseguito negli studi con serietà ed ha fatto una brillante carriera.
Alla fine della seconda ed ultima parte del dramma, Biff darà al padre una sua spiegazione del perché lui, diversamente da Bernard, non sia riuscito a sfruttare le sue qualità nello studio, nel lavoro e nella società: 
Non ho combinato mai niente, perché tu mi hai montato talmente la testa che non accettavo ordini da nessuno! Ecco di chi è la colpa!”.
Un imperdonabile e ormai irreparabile errore pedagogico!

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Molto si è scritto sul dramma di Willy Loman, andato a lungo in scena nei teatri di tutto il mondo e che valse ad Arthur Miller il Premio Pulitzer.
Poiché Miller nell’America del dopoguerra venne classificato e ostracizzato come comunista, la critica ha visto nella sua principale opera soprattutto una denuncia all’american way of life.
Per interpretare la storia della famiglia Loman in questa prospettiva, ci sono mille buone ragioni: nel faticosissimo lavoro Willy viene spremuto come un limone e poi licenziato in tronco; i figli, di lavoro ne trovano pochissimo e mal retribuito. Tutto questo, in una società che fa del successo economico di un individuo il segno tangibile del suo valore. Dunque la critica sociale ci sta, e come.
Tuttavia il dramma viene sviluppato da Miller soprattutto sotto il profilo psicologico. Esso nasce in una atmosfera grigia, in una modesta villetta unifamiliare, costruita trent’anni prima su un prato gioioso e che diventa però una prigione dopo che la speculazione edilizia la circonda da tutti i lati con enormi scatoloni in cemento. Il dramma nasce in una modesta famiglia, piena di contraddizioni e di sogni irrealizzabili, nasce in un padre e in un figlio che non si capiscono.

Le incomprensioni familiari sono il perno di tutta la drammaturgia americana. Rifacendosi al teatro scandinavo di Ibsen e soprattutto di Strindberg, come sottolineato da un articolo di www.eoneill.com*, dal 1916 in poi la drammaturgia americana – ma anche alcuni capolavori cinematografici – ha come scena fondamentale il soggiorno o la cucina e, come unici protagonisti, i membri di un ristretto nucleo familiare. Ma mentre i problemi sollevati dagli scandinavi avevano sullo sfondo la società, della quale la famiglia si sentiva partecipe, quelli americani si concentrano unicamente sui sentimenti familiari, sugli affetti e sui contrasti. 
A questo non sfuggono nè Arthur Miller né Eugene O’Neill né Tennessee Williams, autori di testi spesso ripresi negli anni ’50-’60 anche dal cinema (La gatta sul tetto che scotta, Un tram che si chiama desiderio, ecc.).
“Morte di un commesso viaggiatore” è stato portato sul set cinematografico nel ’51 da Fredric March e nel 1985 da Dustin Hoffman. In Italia ne abbiamo una riduzione teatrale del ’68, di produzione Rai, con l’eccellente interpretazione di Paolo Stoppa e Rina Morelli.
Questa riduzione, anche se il video porta i segni del tempo, sono riuscito a caricarla su YouTube un mese fa, dividendola in quattro parti di circa 40 minuti ciascuna, ed è quindi disponibile su quel sito digitando il titolo del dramma o cliccando sui seguenti link:
1) https://www.youtube.com/watch?v=LEEM-oNgCDw
2) https://www.youtube.com/watch?v=kzxh04Q90iQ
3) https://www.youtube.com/watch?v=ovZDnk1DA1c
4) https://www.youtube.com/watch?v=rRTKeY0Lrig
Chi volesse invece vedere il bel film a colori con Dustin Hoffman dovrà ricorrere al peer to peer. Consiglio in questo caso l’iscrizione gratuita a http://www.tntvillage.scambioetico.org/ (ottimo sito in cui per ogni video viene fornita una scheda con presentazione e caratteristiche tecniche) e il download col programma ‘uTorrent’ precedentemente installato.

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