domenica 30 settembre 2012

Thorstein Veblen, pioniere dell'Istituzionalismo (di Gilles Dostaler)

Chiudo questo 'settembre vebleniano' con la traduzione, spero fedele, di un articolo di Gilles Dostaler pubblicato dall’“Institut Veblen pour les réformes économiques” alla pagina web http://www.veblen-institute.org/Pourquoi-Veblen?lang=fr   e ripreso col permesso della redazione dalla rivista Alternatives économiques n. 215 del 2003

 
*.*.*
 

Critico implacabile della società del suo tempo, Veblen apre la strada all’opposizione eterodossa contro la dominazione del pensiero neoclassico.
Thorstein Veblen è l’iconoclasta per eccellenza. La sua vita quanto le sue opere sono marchiate dallo stampo dell’anticonformismo e della dissidenza. Nato 1857, egli è allevato in una comunità rurale norvegese emigrata negli Stati Uniti, ma molto ripiegata su se stessa. Dopo aver sostenuto una tesi di dottorato ispirata alle idee di Kant e di Spencer, egli si ritira per sette anni nella fattoria della sua famiglia, dove si immerge in un mare di libri che divora con una sveltezza prodigiosa. Non comincia a guadagnarsi da vivere che all’età di 34 anni. I suoi comportamenti insoliti, il suo abbigliamento, i suoi metodi di insegnamento poco convenzionali, la sua vita sentimentale tempestosa, la sua ostilità alla religione hanno complicato una carriera accademica, punteggiata da mancati rinnovi contrattuali e periodi di disoccupazione.

E tuttavia i suoi colleghi hanno riconosciuto il valore di un’opera che combina brillantemente la critica sarcastica e l’analisi originale, alla frontiera dell’economia, della sociologia e della storia. Nel 1925 , allorché si avvicinava ai 70 anni, Veblen si vide anche offrire il posto prestigioso di presidente della American Economic Association, a condizione tuttavia che egli accettasse di divenirne membro! Fedele a se stesso, egli declinò questo onore, aggiungendo che avrebbero dovuto offrirglielo quando lui ne aveva bisogno. L’anno successivo egli si ritirò in una capanna rustica, per la quale costruì da sé i mobili, su una collina della costa californiana.

Critica della teoria economica

Critico impietoso e sardonico della società del suo tempo, Veblen lo è anche delle teorie che pretendono di spiegare questa società, e più particolarmente della teoria economica. E’ lui che conia l’espressione “economia neoclassica”, per ben sottolineare la continuità, piuttosto che la frattura, tra l’economia politica classica e la nuova scuola marginalista. Come spesso accade nell’ambito delle idee sociali, Veblen sostiene che la teoria neoclassica è in ritardo rispetto alla realtà di cui essa pensa di rendere conto. Astratta, deduttiva e statica, essa è incapace di spiegare la crescita economica e le crisi. Essa si chiude verso le altre discipline quali la sociologia e la storia mentre, per comprendere l’evoluzione sociale e la trasformazione delle istituzioni, è necessario un approccio multidisciplinare. Essa ha una concezione ristretta dell’essere umano, contraddetta dagli insegnamenti della biologia, dell’etnologia e della psicologia. L’homo oeconomicus è un atomo passivo, un “fascio di desideri”, un calcolatore del piacere e delle pene, che non corrisponde a nulla di reale.

Critico dell’economia classica, Veblen lo è altrettanto del marxismo, benché egli sia ad esso manifestamente più vicino. Egli rimprovera a Marx, come al suo ispiratore Hegel, la loro concezione deterministica della storia. Egli considera che la teoria del valore del lavoro e del plusvalore non è adattata alla complessità della società industriale moderna, dominata dalla meccanizzazione. Egli non crede nella lotta di classe così come Marx la concepisce. Egli ritiene che il proletariato non cerca di ribellarsi, ma è corrotto dalle classi superiori, di cui assimila i valori e che cerca di imitare.

Istinti, evoluzione e istituzioni

Lungi dall’essere un mondo di armonia ed equilibrio, la società è, dopo un periodo originario, il teatro di conflitti e di dominazioni. Lungi dall’essere un calcolatore edonista e razionale, l’essere umano è mosso da istinti e pulsioni irrazionali. Questi istinti si evolvono in seguito alle trasformazioni che, partendo dalle comunità primitive, conducono alle società industriali moderne.
Tra gli istinti primitivi, quello più importante è l’istinto predatorio, che determina l’appropriazione della sovrapproduzione da parte di una piccola minoranza. Esso si manifesta all’inizio nelle relazioni tra uomini e donne. In seguito mette in opposizione la “classe agiata” - che si occupa delle attività sportive, religiose, militari e di governo - e quella dei lavoratori. L’istinto predatorio si accompagna allora alla propensione alla prodezza e alla conquista, istinti guerrieri e sportivi. Nella società moderna esso prende la forma di una rivalità finanziaria, che si manifesta con la messa in mostra di consumi e di agiatezza e l’ostentazione di sprechi. Quanto più si è elevati nella scala sociale, meno si consuma per soddisfare i propri bisogni e più si consuma per rendere manifesta la propria superiorità, il proprio potere, la propria ricchezza. E’ per questo che definiamo “Beni di Veblen” quelli la cui domanda diminuisce quando il loro prezzo diminuisce. (...)
Veblen non crede che questi istinti siano appannaggio esclusivo di una sola classe sociale. Li si ritrova, in gradi diversi, in tutti gli essere umani. Anche i più poveri, influenzati dalla pubblicità e dall’esempio, si dedicano ai consumi ostentatori.

Ammiratore di Darwin, Veblen, accanto agli istinti, mette l’evoluzione e le ‘istituzioni’ al centro della sua visione della società. Egli definì queste ultime, non come delle organizzazioni, ma come delle “abitudini mentali predominanti, dei modi molto diffusi di pensare i rapporti e le funzioni particolari dell’individuo e della società” (“Teoria della classe agiata”). Si tratta di costumi, consuetudini, regole di comportamento, principi giuridici. Queste istituzioni hanno dunque una dimensione culturale importante e si evolvono adattandosi a un ambiente in trasformazione. Ma esse manifestano, per la maggior parte del tempo, un ritardo in rapporto al progresso scientifico e tecnologico, ritardo che è la principale origine dei problemi economici e sociali.

Critica dell’economia moderna

Questa analisi in termini di dualità, Veblen l’applica allo studio dell’economia moderna. All’istinto produttivo corrisponde, nell’economia moderna, l’industria; all’istinto predatore corrisponde il mondo degli affari. Il progresso industriale è collegato all’avanzamento delle scienze e della tecnica. L’industria moderna si caratterizza in particolare per il ruolo centrale della meccanizzazione.
Lo scopo dell’attività industriale è la fabbricazione di prodotti per il miglioramento del benessere della popolazione. Si è constatato invece che, nel capitalismo moderno, le attività produttive sono gestite nel quadro dell’impresa di affari. Queste imprese investono al fine di ottenere guadagni finanziari, un profitto, e non si preoccupano di produrre beni, ma di guadagnare denaro.

Niente ci assicura che gli interessi della produzione e quelli dei loro affari coincidano, anzi è precisamente il contrario. Per un’impresa può essere redditizio, anche se antisociale, ridurre la produzione, aumentare indebitamente i prezzi, perdere delle risorse o produrre oggetti inutili o dannosi. Vi fu un tempo, al momento della nascita del capitalismo, in cui l’impresa era diretta da industriali autentici mossi dall’istinto artigiano. Da quel momento in poi il potere economico è passato nelle mani di questi predatori moderni, che sono i capitani di industria e i finanzieri. Veblen è uno dei primi a descrivere gli effetti della separazione tra la proprietà e la gestione delle imprese, e l’emergere della “proprietà assenteista” che si impose nel dopoguerra come forma dominante del capitalismo. Le crisi economiche e la disoccupazione sono il prodotto del “ rallentamento della produzione che la proprietà del capitale esercita mediante il sistema dei prezzi” (“Gli ingegneri e il capitalismo”). L’inflazione del credito e la eccessiva capitalizzazione delle borse creano una distorsione crescente fra il capitale reale, produttivo, tangibile, e il capitale monetario, intangibile.

Per uscire da questa impasse, Veblen sperava in una presa di controllo dell’industria da parte dei genuini portatori dell’istinto produttivo, i tecnici e gli ingegneri, alleati dei lavoratori manuali. Egli non spiegò, tuttavia, come questo regime di “soviet dei tecnici” poteva essere messo in piedi e fatto funzionare. Negli ultimi anni della sua vita era sempre più amareggiato e pessimista, per affrontare ciò che egli vedeva come una collusione crescente nel mondo degli affari, in quello della religione e in quello della guerra. Se resuscitasse oggi, senza dubbio ne resterebbe disorientato.

Morto quasi isolato, Veblen ha lasciato due discepoli, John R. Commons e Wesley C. Mitchell, che sono gli autentici artigiani della corrente istituzionalista, della quale egli può essere considerato il padre. Principale opposizione eterodossa alla dominazione neoclassica negli Stati Uniti, l’Istituzionalismo ha preso forme diverse, talvolta molto differenti dalle idee di Veblen. Dopo aver ispirato il New Deal di Roosevelt, Veblen nel dopoguerra ha conosciuto una lunga ritirata nel deserto. Ha avuto una rinascita importante solo dopo gli anni ’60, specialmente con la fondazione della Association for Evolutionary Economics.
 
Gilles Dostaler
.
Copyright 2012 - all rights reserved 

sabato 29 settembre 2012

T. Veblen. Il consumo vistoso: radici sociali di un fatto economico


.
Su un qualunque testo di economia, dal più raffinato e profondo al più grossolano e superficiale, si trova l’enunciazione inequivocabile delle leggi della domanda e dell’offerta. A parità di altre condizioni, quando il prezzo di un bene aumenta, 1) il suo ‘consumo’ tende a diminuire (relazione inversa), 2) la ‘produzione’ tende invece ad aumentare insieme al prezzo (relazione diretta).
Sulla seconda delle due ‘leggi’ non ci piove: se il prezzo della frutta e della verdura aumentasse stabilmente da 2 a 20 euro, Marchionne chiuderebbe anche l’ultima fabbrica di auto, comprerebbe terreni fertili in qualunque parte del mondo e si metterebbe a produrre pere e cavolfiori.
Qualche dubbio aleggia invece pesantemente sulla legge della domanda. La razionalità dell’homo oeconomicus vorrebbe che, se il prezzo delle cravatte aumentasse sensibilmente, molte persone non ne comprerebbero più, perché ad esse preferirebbero il vecchio papillon rimasto a prezzi bassi oppure imparerebbero a portare la camicia… senza cravatta né papillon.
Questo presunto meccanismo del consumo rispetto al suo prezzo fu giudicato funzionale alla crescita della ricchezza da Adam Smith e fu visto invece come fonte di ingiustizia da Carlo Marx, ma né il teorico del liberismo né il suo più importante avversario ne contestarono la rispondenza alla realtà; quindi la legge economica relativa allo scambio dei beni sul mercato godeva, e gode tutt’oggi, di una accettazione generale e incondizionata.
Eppure alla fine dell’Ottocento ci fu una voce inascoltata, quella di Thorstein Veblen, che limitò fortemente la portata di tale legge, mettendone in discussione gli stessi presupposti. Egli non era come Smith un puro economista, né partiva come Marx dai princìpi economici per approdare alla sociologia; diversamente dai due, partiva da alcuni principi sociologici per meglio comprendere il funzionamento dell’economia. Vediamo come.

*.*.*

La società è sempre stata strutturata in classi sociali, diverse per composizione, funzioni e importanza, ma, ai fini della sua analisi, Veblen individua quattro diverse fasi della loro evoluzione storica. 1) Nelle tribù primitive, al livello più alto stanno gli uomini che dimostrano potenza e coraggio andando a caccia di selvaggina, poi quelli che con riti magici sembrano propiziarsi il favore degli dei, poi gli uomini che fanno lavori ordinari e infine le donne, che, come le femmine nel mondo animale, subiscono le decisioni, amorose e di ogni altro genere, prese dagli uomini. 2) Nelle prime società stanziali più ampie e politicamente organizzate, dall’antica civiltà egiziana fino alla caduta dell’impero romano, passando per la Grecia e Roma, al vertice c’erano i guerrieri e, a seguire, gli artigiani, le donne e gli schiavi. 3) Nella società feudale c’era una gerarchia fondata sul valore militare e sul livello di nobiltà ereditato: feudatario, vassalli e servi della gleba, non distinti in base al sesso ma comunque con la donna ancora in posizione di inferiorità. 4) Nella società industriale questa gerarchia si svincola dal valore militare, dalla nobiltà di sangue e da altri elementi discriminanti del passato, per fondarsi sulla potenza finanziaria. Vengono così posti al vertice i possessori di grandi capitali, poi i dipendenti di vario grado, prima quelli cui vengono affidati lavori intellettuali e poi quelli che eseguono lavori manuali; ma a questo punto sorge la nuova categoria dei disoccupati; una categoria prima sconosciuta perché nelle epoche precedenti, sia come schiavi che come servi della gleba, tutti erano obbligati a lavorare mentre, nella società industriale, per le attività produttive viene utilizzata solo la quantità di lavoratori necessaria a produrre ciò che il mercato può consumare.

Questo rapido excursus serve qui solo per introdurre quella che possiamo chiamare la ‘rivoluzione vebleniana”, basata sui concetti che seguono.
Qual è la cosa più desiderata dagli uomini in tutte le epoche e che guida tanto le loro decisioni a lungo temine quanto il loro comportamento quotidiano? Dalle pagine della ‘Teoria della classe agiata’ questo elemento non risulta più essere – come sostengono molti storici ed economisti - l’impossessamento di ‘beni idonei a soddisfare i bisogni’, ma il ‘potere’, cioè la capacità di imporre agli altri la propria volontà. Il fattore economico passa così in secondo piano, diventa una variabile dipendente. Chi ha potere decide con chi avere rapporti affettivi o di amicizia e chi escludere da questa cerchia; chi premiare o punire; chi innalzare agli onori o fare oggetto di disprezzo; infine può anche, con la violenza o i raggiri, sottrarre agli altri membri della società gli oggetti che lui desidera, ma non è questo il suo primo e più importante obiettivo.

Il potere conquistato non deve però essere occasionale, esso dev’essere stabile, e quindi riconosciuto e rispettato, e a tal fine è necessario che la posizione dominante venga interiorizzata ed accettata dai sottoposti. Quando ciò avviene, l’uomo di potere gode di ‘prestigio’: ecco la parola chiave vebleniana per interpretare il comportamento umano.
Mario Capanna,* uno dei leader del ’68, con significato analogo usa il termine ‘prepotenza’, cioè qualcosa che precede l’esercizio di una imposizione di volontà; chi è capace di prepotenza, come pure la persona a cui viene riconosciuto maggiore prestigio sociale, per imporre la propria volontà non ha bisogno di ricorrere alla costrizione, è già sufficiente che l’altro sia consapevole che ciò può essere fatto.

A questo punto dobbiamo porci un’altra domanda, e cioè come si ottiene il prestigio, che del potere è una forma più sottile e larvata. Nell’analisi di Veblen, e qui torna utile l’excursus iniziale, fino alla fine del feudalesimo la lotta per il prestigio si svolge all’interno della stessa classe, perché fino a quell’epoca l’origine familiare e sociale di un individuo ne determina l’appartenenza ad una determinata casta, e gli atti compiuti durante la vita non possono cambiarne la condizione in modo significativo. Dunque, sempre riferendoci al feudalesimo, il contadino può competere solo col contadino, l’artigiano con l’artigiano, il vassallo col vassallo e il feudatario col feudatario.
Nella società industriale, almeno in teoria, si può invece nascere capitalisti e diventare salariati o disoccupati, come pure, sempre teoricamente, si può nascere salariati e diventare capitalisti. Non ci sono filtri normativi per questi passaggi e questa potenziale mobilità sociale permette a chiunque di competere con persone di livello superiore. Ma, attenzione, nel linguaggio moderno per questa competizione usiamo una particolare espressione: la ‘scalata sociale’, per meglio specificare che il disoccupato non può competere in prestigio direttamente col capitalista: egli deve prima riuscire a diventare un lavoratore dipendente, poi un dirigente e solo allora può cercare di competere con chi sta al vertice.

La dinamica finora descritta è relativa ai cambiamento di ‘status’, cioè ai reali cambiamenti di posizionamento nella società. Ma, a livello psicologico, anche chi rimane a lungo nella stessa classe sociale di appartenenza, cerca attraverso ‘atti simbolici’ (la moderna cultura occidentale ignora o sottovaluta troppo il valore sociale dei simboli) di dimostrare, o almeno far credere, ai conoscenti e alle persone con cui viene a contatto, di appartenere alla classe sociale immediatamente superiore. Quali sono oggi questi atti simbolici? Sono l’acquisizione di beni e l’ostentazione del loro consumo. Chi dimostra di poter acquistare e consumare i beni di un certo valore, dimostra con ciò stesso di appartenere ad una determinata classe sociale. E tale discorso non si ferma ai beni materiali, ma si estende alle abitudini, ai gusti, ai modi di comportarsi ecc.
Questa rincorsa ai consumi che danno visibilità e questa imitazione delle classi superiori nel loro stile di vita sono il tratto caratteristico dell’attuale società e si riflette in comportamenti di vario tipo: nel modo di alimentarsi e di vestire con raffinatezza, nel frequentare ambienti d’alto livello, nel circondarsi di donne belle ed eleganti e di tirapiedi servili, nei festeggiamenti fastosi, nel fare regali voluttuari, ecc, cioè in tutte quelle relazioni che possono mettere in luce una capacità di spesa che conferisce prestigio. Ciò che succede nella vita privata, stranamente, non ha invece la minima importanza: si possono anche spendere somme considerevoli per organizzare sistematicamente delle feste con tanti invitati e poi tenere in cucina un frigo vecchio e vuoto.

Qualche mese fa ho pubblicato qui la recensione d’un film del ‘56, ‘Pranzo di nozze’, in cui un taxista, sotto la pressione psicologica della moglie, rischia di dilapidare per un fatto di prestigio tutti i risparmi accumulati faticosamente in una vita di lavoro. Perché la moglie esercita questa pressione? Perché non sopporta l’idea che i parenti e le amiche possano disprezzare lei e la sua famiglia per la ‘incapacità’ di far fronte alle spese di una ‘onorevole’ cerimonia per le nozze della figlia.
Circa quarant’anni fa assistetti personalmente a una scena che non dimentico: un signore anziano, chiaramente di umili origini, entrò in una gioielleria; i suoi pantaloni erano tenuti su con una specie di laccio anziché una cintura, ma comprò una costosissima parure, probabilmente per la futura sposa del figlio, come previsto da insane tradizioni, segnate dai vincoli del prestigio e del decoro.

*.*.*

Dunque, nel fare acquisti, non siamo poi così razionali come le leggi economiche, superbamente autonome da quelle sociologiche, vorrebbero far credere. Non sempre ci comportiamo secondo il ferreo principio del tornaconto, acquistando la cosa migliore al minor prezzo; spesso compriamo un bene costoso proprio perché è costoso, dimostrando così una capacità di spendere che conferisce prestigio, il quale è il reale obiettivo finale della nostra azione.
Robert K. Merton**, uno dei massimi sociologi americani del ‘900, esprime la rivoluzione teorica vebleniana nel modo seguente: Veblen contrappone la ‘funzione latente'*** del consumo vistoso (prezzo alto = simbolo di più elevato status sociale) alla ‘funzione manifesta' (prezzo alto = qualità superiore della merce). Egli non nega alla qualità delle merci un qualche peso, ma questa da sola non è in grado di spiegare pienamente i modelli di consumo prevalenti nella società capitalistica.
L’analisi di Veblen contiene in forma implicita la possibilità di intervenire sul sistema economico, controllandone il momento finale del consumo anziché, come suggeriva Marx, quello iniziale della produzione. Anche questa era un’idea rivoluzionaria, e in quanto tale prima osteggiata e poi messa in ombra dalle classi dominanti e dalla cultura ufficiale del XX secolo.

Note
* “Il prepotente non si connota solo per ciò che compie (…), ma anche per gli esiti della sua azione. La vittima della prepotenza è testimonianza della sua forza. (…) La consapevolezza che la vittima ha del sopruso subito costituisce il trionfo finale e pieno del prepotente. (“Il fiume della prepotenza”, Rizzoli, 1996, cap. III)
** “Teoria e struttura sociale”, Il Mulino 1966, pagg. 113-114.
*** Le funzioni latenti, cioè quegli scopi che negli atti umani non emergono al livello di coscienza, sono state evidenziate anche da Marx, Pareto e altri, i quali per questo motivo, insieme a Veblen, sono stati raggruppati dal Prof. Franco Ferrarotti fra i sociologi “demistificatori”, cioè quelli che nelle relazioni sociali intravedono e fanno emergere elementi nascosti e irrazionali (Appendice a “Storia della sociologia” di Gaston Bouthoul, Armando Editore, 1966, pagg. 133-136). Accanto ai tre autori, Ferrarotti non menziona S. Freud, che degli scopi e delle pulsioni latenti può essere considerato il formulatore più rigoroso e sistematico; ma l’esclusione del padre della psicoanalisi è certamente dovuta solo alla diversità metodologica delle indagini.

Cataldo Marino 
.
Copyright 2012 – all rights reserved

martedì 11 settembre 2012

Thorstein Veblen: la teoria della classe agiata

A giudicare da quanto pubblicato sul web in questi ultimi mesi, sembra esserci una giusta riscoperta del sociologo Thorstein Veblen (1857-1929). Sull’autore, nel 2007, ho già riportato sul vecchio sito www.itineraricataldolesi.it  un brano tratto dalla monografia di Cristina Zanin dal titolo ‘Thorstein Veblen e la teoria della classe agiata’, 1970, pagg. 49-67. Lo ripropongo ora sul blog in quanto detto sito in futuro sarà lentamente eliminato, mentre il brano in questione sembra aver suscitato non poco interesse ed è pertanto opportuno che rimanga a disposizione dei lettori. Ad esso seguirà anzi la pubblicazione di altri lavori riguardanti l’originale studioso.


Agiatezza e consumo vistoso

Nella teoria di Veblen la classe ‘agiata’ (letteralmente, che ha tempo da dedicare alle cose superflue) sorge con la prima formazione di abiti mentali ‘bellicosi e predatori’ e trova più tardi la sua massima espressione nella società di tipo feudale. Ma solo nella società moderna essa assume un ruolo decisivo e la sua azione diventa determinante nei confronti di tutto l'organismo sociale. La posizione di supremazia, che questa classe è giunta ad occupare, si comprende meglio se si considera il mutamento avvenuto nella società dal punto di vista della stratificazione.
Nella società suddivisa in caste, la possibilità di comunicazione fra i diversi strati sociali era ridotta al minimo, e perciò l'emulazione poteva svolgersi solo tra gruppi ed individui che occupavano la stessa posizione; ne derivava una relativa staticità ed una notevole limitazione dell'influenza di ciascuna classe sulle altre, e ognuna di esse sviluppava perciò autonomamente gli abiti mentali richiesti dalle proprie specifiche occupazioni. Al contrario, la mobilità sociale, che caratterizza le moderne società industriali, ha reso assai labili i confini fra le classi; la stratificazione ha assunto carattere psicologico e la competizione si svolge soprattutto in senso verticale, fra una classe e quella immediatamente superiore.
Ne consegue che la classe che occupa il vertice della stratificazione, influendo su quelle che le stanno a diretto contatto, e poi giù giù fino alla base, attraverso il "confronto antagonistico" è in grado di imporre a tutta la società i propri valori, i propri canoni dì vita, in una parola i propri abiti mentali.

Attraverso tale dinamica il denaro assurge a valore universalmente accettato e, anche fra le categorie direttamente impegnate nella produzione, quella dei lavoratori, una volta superato il limite della mera sopravvivenza si crea l'abitudine all' emulazione finanziaria; ma quel che più conta è che in queste classi, in cui l’emulazione potrebbe svolgersi nel campo del risparmio e della produzione lasciando così all’istinto dell’efficienza una possibilità di più libera e diretta espressione, sono le caratteristiche improduttive dell'emulazione a soverchiare e deformare ogni altra tendenza.
La connotazione positiva della ricchezza come cosa di per sé buona e degna dipende da un lato dalla sua utilità come mezzo per ottenere rispetto ed ammirazione; d'altra parte, ed è questo un motivo complementare al primo, essa deriva dal significato intrinsecamente indegno e degradante che il lavoro produttivo ha parallelamente assunto; la ricchezza è, allo stesso tempo, condizione e conseguenza dell’astensione da tale tipo di occupazione.

Ma, affinché questa duplice virtù del denaro come fonte di stima di sé e di prestigio sociale divenga operante, l’emulazione deve avere caratteristiche di ‘evidenza’. Non basta che la ricchezza sia posseduta, essa deve essere anche usata dal suo proprietario, ed usata in modo vistoso, mediante un tenore di vita agiata e con l’abbondanza di consumi superflui. Agiatezza e consumo vistoso hanno in comune un elemento, lo ‘sciupio’, ed è questo che li rende entrambi segni inequivocabili di ricchezza e perciò validi ai fini della rispettabilità.
L' agiatezza vistosa è sciupio ‘di tempo e di energie’ in attività non produttive; queste si esplicavano una volta in occupazioni quali la guerra, il governo, le pratiche religiose ed in perditempo di vario genere e, indirettamente, nelle buone maniere che, da riti simbolici quali erano, acquistavano anch'esse valore di beni in sé. Essa è fondamentale soprattutto in gruppi umani ristretti, nei quali si può sviluppare una discreta conoscenze reciproca, mentre in una comunità vasta, complessa ed impersonale quale è la moderna società industriale, essa tende invece ad essere sostituita, soprattutto nelle classi medie ed inferiori, con il ‘consumo vistoso’, che è un mezzo più immediato per comunicare agli altri la propria potenza finanziaria e la propria rispettabilità. (1)

Lo spreco in beni superflui si è progressivamente cristallizzato in abiti mentali, e in tal modo ha assunto un carattere di necessità irrinunciabile. Come canone di rispettabilità, derivante dalle classi superiori, esso si è imposto a tutta la società, poiché “i membri di ogni strato accettano come loro ideale di onorabilità il modello di vita in auge nelle strato immediatamente superiore e impiegano le loro energie nel vivere secondo questo ideale”. (2)
E’ ovvio che, rimanendo costante lo stimolo della emulazione, il bisogno di spreco vistoso tende a crescere indefinitamente a tutti i livelli della stratificazione, con la conseguenza che ogni incremento dell'efficienza industriale, essendo assorbito dalla spesa superflua, non si traduce mai nel vantaggio di una diminuzione della fatica lavorativa e nell’aumento del tempo libero.
La forza con cui il modello dello spreco si impone, deriva dal fatto che esso non è vissuto soggettivamente come tale, cioè con il significato di condanna morale implicito nella parola: per il solo fatto di essere il risultato di una scelta, il consumo vistoso assume, dal punto di vista del consumatore, valore positivo di utilità, indipendentemente dai fini che esso si propone di realizzare.
(…)
Veblen ha il merito di avere teorizzato per primo il comportamento di consumo come funzione della struttura sociale, indipendente dalle necessità naturali. Dal momento che il criterio del prestigio finanziario, con il suo corollario dello sciupio vistoso, assume il carattere prescrittivo dell’abito mentale, esso va ad integrarsi nell'insieme organico dell'esperienza umana, finendo per influenzare indirettamente anche gli aspetti non propriamente economici del comportamento. Veblen dimostra come tale principio intervenga a modificare la morale, la religiosità, il gusto estetico e come esso determini anche il fenomeno della moda.


Conservatorismo della classe agiata

Come il significato della ricchezza deriva dalla stima accordata all'attività di rapina e di sopraffazione nella fase barbara della civiltà, anche altri elementi tipici di questo stadio sopravvivono in forma mutata nell'attuale società. Veblen porta come esempi la virtù del coraggio, insita negli sport e nel militarismo, e l'animismo che sopravvive nelle pratiche devote e nel gioco d'azzardo. Anche questi abiti mentali si conservano e si tramandano attraverso la classe agiata, che è depositaria dell'eredità barbara.
Il fatto che la classe agiata possa rimanere legata ad una posizione arcaica deriva, secondo Veblen, dalla sua necessità di difesa rispetto ai mutamenti delle strutture economiche e sociali. Nella società moderna questi mutamenti consistono nello sviluppo dei processi produttivi e dell' organizzazione dell'industria, che richiede una parallela trasformazione negli abiti mentali di chi è a diretto contatto con la produzione. (…) L’avversione per ciò che devia dagli abiti mentali correnti fa sì che la classe agiata, non solo non promuova il mutamento, per l'inerzia che le è propria, ma lo ostacoli; essa assume così nella società il ruolo di elemento conservatore e si pone come un' istituzione frenante nei confronti del processo di evoluzione sociale.
(…)
Il modello della classe agiata si è imposto come obbligo morale per l'intera società, a causa del valore onorifico che esso ha assunto. Ma vi è una via più indiretta, attraverso la quale la classe agiata dà un'impronta conservatrice a tutta la società: l'accumulazione della ricchezza al vertice della scala sociale provoca una privazione nella classe inferiore. Questa, costretta ad impiegare ogni propria energia nello sforzo di sopravvivere, non dispone della forza necessaria a promuovere un qualsiasi mutamento e ad attuare il faticoso riequilibrio che esso richiederebbe.
Questa conclusione di Veblen è stata però confermata solo in parte dalla realtà, perché nei paesi dove il capitalismo ha trionfato, le classi al potere hanno fatto dei lavoratori una forza conservatrice e sostenitrice delle status quo, integrandola nel sistema proprio attraverso l'elevazione del tenore di vita.
Comunque sia, in opposizione alla teoria marxista, per la quale il proletariato è l'unica classe innovatrice, Veblen vede nella massa dei diseredati un elemento altrettanto conservatore - anche se per motivazioni diverse - quanto la classe detentrice della ricchezza.


Attività finanziarie e produttive

La resistenza opposta dagli abiti mentali della classe agiata al diffondersi di nuovi modi di pensare e di vivere è rispecchiata nel conflitto fra i due gruppi di istituzioni economiche esistenti: quelle finanziarie, da un lato, e quelle produttive, dall'altro.
Le istituzioni finanziarie sono solo indirettamente legate al processo economico, attraverso un interesse commerciale di sfruttamento, ed hanno caratteristiche parassitarie. Ad esse corrispondono gli impieghi finanziari, che trovano la loro più chiara e diretta espressione nelle funzioni del "capitano d'industria" (oggi gli speculatori finanziari), la cui attività richiede doti non comuni di astuzia e di spirito predatorio.
Alla seconda categoria di istituzioni economiche corrispondono gli impieghi attinenti alla produzione; questi sviluppano abiti mentali non antagonistici, richiedono un interesse impersonale e doti di razionalità, onestà e collaborazione. Ciò, essendo condizione per lo sviluppo della società industriale moderna, risponde all'interesse collettivo e si pone contro quello immediato dell’individuo.
Tuttavia anche qui si fa sentire sugli individui il peso degli schemi finanziari e dei valori contrari al processo industriale, con il risultato di ridurre l'efficienza produttiva e di ritardare così lo sviluppo.
(…)
Secondo Veblen, nella società capitalistica la separazione delle grandi ricchezze dall'attività produttiva avrebbe finito per determinare l’estinzione delle prime. La società anonima (in Italia Società per azioni) avrebbe sostituito la funzione economica della classe agiata, frantumando la proprietà, e ciò che egli prevedeva per "l’ indefinito futuro" si è realizzato, anche se in misura modestissima.
Egli sembra invece sbagliare decisamente quando afferma che la semplice applicazione del principio della massima efficienza industriale valga a ristabilire automaticamente nell'uomo e nella società la coscienza dei propri, veri, scopi. La massimizzazione razionale della produzione, infatti, lungi dall’adeguare i mezzi economici al raggiungimento dei fini riconosciuti come propri dell'uomo, si è fatta a sua volta fine in sé e, come tale, si è imposta né più né meno del prestigio finanziario del tempo di Veblen. I tipi di condizionamento sono dunque mutati, ma lo squilibrio, la competizione, lo spreco sono rimasti, se non addirittura rafforzati.
Il fatto che alla classe agiata tenda a sostituirsi una classe di tecnici che impone alla società le esigenze della produzione, come auspicava Veblen e come conferma l'analisi di J. K. Galbraith, non ha dunque avuto quale conseguenza la realizzazione dei fini collettivi, al contrario tende a strumentalizzare totalmente l'uomo ai fini della produzione. (3)
.
Note 
(1) “Per convincere questi osservatori momentanei e conservare sotto il loro esame il nostro autocompiacimento, dobbiamo poter ‘firmare’ la nostra potenza finanziaria in caratteri che anche colui che ha fretta possa ‘leggere’ ” (“Opere di T. Veblen”, Classici Utet, Torino, 1969, pag. 129)
(2) op. cit., pag 127
(3) Lo stesso concetto ritroviamo in K. Marx “La vecchia concezione, secondo cui l’uomo (…) è sempre lo scopo della produzione, appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell’uomo e la ricchezza come scopo della produzione.” (“Forme economiche precapitalistiche”, Editori Riuniti, Roma, 1967, pag. 87)
.

Copyright 2007 - all rights reserved