sabato 29 settembre 2012

T. Veblen. Il consumo vistoso: radici sociali di un fatto economico


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Su un qualunque testo di economia, dal più raffinato e profondo al più grossolano e superficiale, si trova l’enunciazione inequivocabile delle leggi della domanda e dell’offerta. A parità di altre condizioni, quando il prezzo di un bene aumenta, 1) il suo ‘consumo’ tende a diminuire (relazione inversa), 2) la ‘produzione’ tende invece ad aumentare insieme al prezzo (relazione diretta).
Sulla seconda delle due ‘leggi’ non ci piove: se il prezzo della frutta e della verdura aumentasse stabilmente da 2 a 20 euro, Marchionne chiuderebbe anche l’ultima fabbrica di auto, comprerebbe terreni fertili in qualunque parte del mondo e si metterebbe a produrre pere e cavolfiori.
Qualche dubbio aleggia invece pesantemente sulla legge della domanda. La razionalità dell’homo oeconomicus vorrebbe che, se il prezzo delle cravatte aumentasse sensibilmente, molte persone non ne comprerebbero più, perché ad esse preferirebbero il vecchio papillon rimasto a prezzi bassi oppure imparerebbero a portare la camicia… senza cravatta né papillon.
Questo presunto meccanismo del consumo rispetto al suo prezzo fu giudicato funzionale alla crescita della ricchezza da Adam Smith e fu visto invece come fonte di ingiustizia da Carlo Marx, ma né il teorico del liberismo né il suo più importante avversario ne contestarono la rispondenza alla realtà; quindi la legge economica relativa allo scambio dei beni sul mercato godeva, e gode tutt’oggi, di una accettazione generale e incondizionata.
Eppure alla fine dell’Ottocento ci fu una voce inascoltata, quella di Thorstein Veblen, che limitò fortemente la portata di tale legge, mettendone in discussione gli stessi presupposti. Egli non era come Smith un puro economista, né partiva come Marx dai princìpi economici per approdare alla sociologia; diversamente dai due, partiva da alcuni principi sociologici per meglio comprendere il funzionamento dell’economia. Vediamo come.

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La società è sempre stata strutturata in classi sociali, diverse per composizione, funzioni e importanza, ma, ai fini della sua analisi, Veblen individua quattro diverse fasi della loro evoluzione storica. 1) Nelle tribù primitive, al livello più alto stanno gli uomini che dimostrano potenza e coraggio andando a caccia di selvaggina, poi quelli che con riti magici sembrano propiziarsi il favore degli dei, poi gli uomini che fanno lavori ordinari e infine le donne, che, come le femmine nel mondo animale, subiscono le decisioni, amorose e di ogni altro genere, prese dagli uomini. 2) Nelle prime società stanziali più ampie e politicamente organizzate, dall’antica civiltà egiziana fino alla caduta dell’impero romano, passando per la Grecia e Roma, al vertice c’erano i guerrieri e, a seguire, gli artigiani, le donne e gli schiavi. 3) Nella società feudale c’era una gerarchia fondata sul valore militare e sul livello di nobiltà ereditato: feudatario, vassalli e servi della gleba, non distinti in base al sesso ma comunque con la donna ancora in posizione di inferiorità. 4) Nella società industriale questa gerarchia si svincola dal valore militare, dalla nobiltà di sangue e da altri elementi discriminanti del passato, per fondarsi sulla potenza finanziaria. Vengono così posti al vertice i possessori di grandi capitali, poi i dipendenti di vario grado, prima quelli cui vengono affidati lavori intellettuali e poi quelli che eseguono lavori manuali; ma a questo punto sorge la nuova categoria dei disoccupati; una categoria prima sconosciuta perché nelle epoche precedenti, sia come schiavi che come servi della gleba, tutti erano obbligati a lavorare mentre, nella società industriale, per le attività produttive viene utilizzata solo la quantità di lavoratori necessaria a produrre ciò che il mercato può consumare.

Questo rapido excursus serve qui solo per introdurre quella che possiamo chiamare la ‘rivoluzione vebleniana”, basata sui concetti che seguono.
Qual è la cosa più desiderata dagli uomini in tutte le epoche e che guida tanto le loro decisioni a lungo temine quanto il loro comportamento quotidiano? Dalle pagine della ‘Teoria della classe agiata’ questo elemento non risulta più essere – come sostengono molti storici ed economisti - l’impossessamento di ‘beni idonei a soddisfare i bisogni’, ma il ‘potere’, cioè la capacità di imporre agli altri la propria volontà. Il fattore economico passa così in secondo piano, diventa una variabile dipendente. Chi ha potere decide con chi avere rapporti affettivi o di amicizia e chi escludere da questa cerchia; chi premiare o punire; chi innalzare agli onori o fare oggetto di disprezzo; infine può anche, con la violenza o i raggiri, sottrarre agli altri membri della società gli oggetti che lui desidera, ma non è questo il suo primo e più importante obiettivo.

Il potere conquistato non deve però essere occasionale, esso dev’essere stabile, e quindi riconosciuto e rispettato, e a tal fine è necessario che la posizione dominante venga interiorizzata ed accettata dai sottoposti. Quando ciò avviene, l’uomo di potere gode di ‘prestigio’: ecco la parola chiave vebleniana per interpretare il comportamento umano.
Mario Capanna,* uno dei leader del ’68, con significato analogo usa il termine ‘prepotenza’, cioè qualcosa che precede l’esercizio di una imposizione di volontà; chi è capace di prepotenza, come pure la persona a cui viene riconosciuto maggiore prestigio sociale, per imporre la propria volontà non ha bisogno di ricorrere alla costrizione, è già sufficiente che l’altro sia consapevole che ciò può essere fatto.

A questo punto dobbiamo porci un’altra domanda, e cioè come si ottiene il prestigio, che del potere è una forma più sottile e larvata. Nell’analisi di Veblen, e qui torna utile l’excursus iniziale, fino alla fine del feudalesimo la lotta per il prestigio si svolge all’interno della stessa classe, perché fino a quell’epoca l’origine familiare e sociale di un individuo ne determina l’appartenenza ad una determinata casta, e gli atti compiuti durante la vita non possono cambiarne la condizione in modo significativo. Dunque, sempre riferendoci al feudalesimo, il contadino può competere solo col contadino, l’artigiano con l’artigiano, il vassallo col vassallo e il feudatario col feudatario.
Nella società industriale, almeno in teoria, si può invece nascere capitalisti e diventare salariati o disoccupati, come pure, sempre teoricamente, si può nascere salariati e diventare capitalisti. Non ci sono filtri normativi per questi passaggi e questa potenziale mobilità sociale permette a chiunque di competere con persone di livello superiore. Ma, attenzione, nel linguaggio moderno per questa competizione usiamo una particolare espressione: la ‘scalata sociale’, per meglio specificare che il disoccupato non può competere in prestigio direttamente col capitalista: egli deve prima riuscire a diventare un lavoratore dipendente, poi un dirigente e solo allora può cercare di competere con chi sta al vertice.

La dinamica finora descritta è relativa ai cambiamento di ‘status’, cioè ai reali cambiamenti di posizionamento nella società. Ma, a livello psicologico, anche chi rimane a lungo nella stessa classe sociale di appartenenza, cerca attraverso ‘atti simbolici’ (la moderna cultura occidentale ignora o sottovaluta troppo il valore sociale dei simboli) di dimostrare, o almeno far credere, ai conoscenti e alle persone con cui viene a contatto, di appartenere alla classe sociale immediatamente superiore. Quali sono oggi questi atti simbolici? Sono l’acquisizione di beni e l’ostentazione del loro consumo. Chi dimostra di poter acquistare e consumare i beni di un certo valore, dimostra con ciò stesso di appartenere ad una determinata classe sociale. E tale discorso non si ferma ai beni materiali, ma si estende alle abitudini, ai gusti, ai modi di comportarsi ecc.
Questa rincorsa ai consumi che danno visibilità e questa imitazione delle classi superiori nel loro stile di vita sono il tratto caratteristico dell’attuale società e si riflette in comportamenti di vario tipo: nel modo di alimentarsi e di vestire con raffinatezza, nel frequentare ambienti d’alto livello, nel circondarsi di donne belle ed eleganti e di tirapiedi servili, nei festeggiamenti fastosi, nel fare regali voluttuari, ecc, cioè in tutte quelle relazioni che possono mettere in luce una capacità di spesa che conferisce prestigio. Ciò che succede nella vita privata, stranamente, non ha invece la minima importanza: si possono anche spendere somme considerevoli per organizzare sistematicamente delle feste con tanti invitati e poi tenere in cucina un frigo vecchio e vuoto.

Qualche mese fa ho pubblicato qui la recensione d’un film del ‘56, ‘Pranzo di nozze’, in cui un taxista, sotto la pressione psicologica della moglie, rischia di dilapidare per un fatto di prestigio tutti i risparmi accumulati faticosamente in una vita di lavoro. Perché la moglie esercita questa pressione? Perché non sopporta l’idea che i parenti e le amiche possano disprezzare lei e la sua famiglia per la ‘incapacità’ di far fronte alle spese di una ‘onorevole’ cerimonia per le nozze della figlia.
Circa quarant’anni fa assistetti personalmente a una scena che non dimentico: un signore anziano, chiaramente di umili origini, entrò in una gioielleria; i suoi pantaloni erano tenuti su con una specie di laccio anziché una cintura, ma comprò una costosissima parure, probabilmente per la futura sposa del figlio, come previsto da insane tradizioni, segnate dai vincoli del prestigio e del decoro.

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Dunque, nel fare acquisti, non siamo poi così razionali come le leggi economiche, superbamente autonome da quelle sociologiche, vorrebbero far credere. Non sempre ci comportiamo secondo il ferreo principio del tornaconto, acquistando la cosa migliore al minor prezzo; spesso compriamo un bene costoso proprio perché è costoso, dimostrando così una capacità di spendere che conferisce prestigio, il quale è il reale obiettivo finale della nostra azione.
Robert K. Merton**, uno dei massimi sociologi americani del ‘900, esprime la rivoluzione teorica vebleniana nel modo seguente: Veblen contrappone la ‘funzione latente'*** del consumo vistoso (prezzo alto = simbolo di più elevato status sociale) alla ‘funzione manifesta' (prezzo alto = qualità superiore della merce). Egli non nega alla qualità delle merci un qualche peso, ma questa da sola non è in grado di spiegare pienamente i modelli di consumo prevalenti nella società capitalistica.
L’analisi di Veblen contiene in forma implicita la possibilità di intervenire sul sistema economico, controllandone il momento finale del consumo anziché, come suggeriva Marx, quello iniziale della produzione. Anche questa era un’idea rivoluzionaria, e in quanto tale prima osteggiata e poi messa in ombra dalle classi dominanti e dalla cultura ufficiale del XX secolo.

Note
* “Il prepotente non si connota solo per ciò che compie (…), ma anche per gli esiti della sua azione. La vittima della prepotenza è testimonianza della sua forza. (…) La consapevolezza che la vittima ha del sopruso subito costituisce il trionfo finale e pieno del prepotente. (“Il fiume della prepotenza”, Rizzoli, 1996, cap. III)
** “Teoria e struttura sociale”, Il Mulino 1966, pagg. 113-114.
*** Le funzioni latenti, cioè quegli scopi che negli atti umani non emergono al livello di coscienza, sono state evidenziate anche da Marx, Pareto e altri, i quali per questo motivo, insieme a Veblen, sono stati raggruppati dal Prof. Franco Ferrarotti fra i sociologi “demistificatori”, cioè quelli che nelle relazioni sociali intravedono e fanno emergere elementi nascosti e irrazionali (Appendice a “Storia della sociologia” di Gaston Bouthoul, Armando Editore, 1966, pagg. 133-136). Accanto ai tre autori, Ferrarotti non menziona S. Freud, che degli scopi e delle pulsioni latenti può essere considerato il formulatore più rigoroso e sistematico; ma l’esclusione del padre della psicoanalisi è certamente dovuta solo alla diversità metodologica delle indagini.

Cataldo Marino 
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