martedì 11 settembre 2012

Thorstein Veblen: la teoria della classe agiata

A giudicare da quanto pubblicato sul web in questi ultimi mesi, sembra esserci una giusta riscoperta del sociologo Thorstein Veblen (1857-1929). Sull’autore, nel 2007, ho già riportato sul vecchio sito www.itineraricataldolesi.it  un brano tratto dalla monografia di Cristina Zanin dal titolo ‘Thorstein Veblen e la teoria della classe agiata’, 1970, pagg. 49-67. Lo ripropongo ora sul blog in quanto detto sito in futuro sarà lentamente eliminato, mentre il brano in questione sembra aver suscitato non poco interesse ed è pertanto opportuno che rimanga a disposizione dei lettori. Ad esso seguirà anzi la pubblicazione di altri lavori riguardanti l’originale studioso.


Agiatezza e consumo vistoso

Nella teoria di Veblen la classe ‘agiata’ (letteralmente, che ha tempo da dedicare alle cose superflue) sorge con la prima formazione di abiti mentali ‘bellicosi e predatori’ e trova più tardi la sua massima espressione nella società di tipo feudale. Ma solo nella società moderna essa assume un ruolo decisivo e la sua azione diventa determinante nei confronti di tutto l'organismo sociale. La posizione di supremazia, che questa classe è giunta ad occupare, si comprende meglio se si considera il mutamento avvenuto nella società dal punto di vista della stratificazione.
Nella società suddivisa in caste, la possibilità di comunicazione fra i diversi strati sociali era ridotta al minimo, e perciò l'emulazione poteva svolgersi solo tra gruppi ed individui che occupavano la stessa posizione; ne derivava una relativa staticità ed una notevole limitazione dell'influenza di ciascuna classe sulle altre, e ognuna di esse sviluppava perciò autonomamente gli abiti mentali richiesti dalle proprie specifiche occupazioni. Al contrario, la mobilità sociale, che caratterizza le moderne società industriali, ha reso assai labili i confini fra le classi; la stratificazione ha assunto carattere psicologico e la competizione si svolge soprattutto in senso verticale, fra una classe e quella immediatamente superiore.
Ne consegue che la classe che occupa il vertice della stratificazione, influendo su quelle che le stanno a diretto contatto, e poi giù giù fino alla base, attraverso il "confronto antagonistico" è in grado di imporre a tutta la società i propri valori, i propri canoni dì vita, in una parola i propri abiti mentali.

Attraverso tale dinamica il denaro assurge a valore universalmente accettato e, anche fra le categorie direttamente impegnate nella produzione, quella dei lavoratori, una volta superato il limite della mera sopravvivenza si crea l'abitudine all' emulazione finanziaria; ma quel che più conta è che in queste classi, in cui l’emulazione potrebbe svolgersi nel campo del risparmio e della produzione lasciando così all’istinto dell’efficienza una possibilità di più libera e diretta espressione, sono le caratteristiche improduttive dell'emulazione a soverchiare e deformare ogni altra tendenza.
La connotazione positiva della ricchezza come cosa di per sé buona e degna dipende da un lato dalla sua utilità come mezzo per ottenere rispetto ed ammirazione; d'altra parte, ed è questo un motivo complementare al primo, essa deriva dal significato intrinsecamente indegno e degradante che il lavoro produttivo ha parallelamente assunto; la ricchezza è, allo stesso tempo, condizione e conseguenza dell’astensione da tale tipo di occupazione.

Ma, affinché questa duplice virtù del denaro come fonte di stima di sé e di prestigio sociale divenga operante, l’emulazione deve avere caratteristiche di ‘evidenza’. Non basta che la ricchezza sia posseduta, essa deve essere anche usata dal suo proprietario, ed usata in modo vistoso, mediante un tenore di vita agiata e con l’abbondanza di consumi superflui. Agiatezza e consumo vistoso hanno in comune un elemento, lo ‘sciupio’, ed è questo che li rende entrambi segni inequivocabili di ricchezza e perciò validi ai fini della rispettabilità.
L' agiatezza vistosa è sciupio ‘di tempo e di energie’ in attività non produttive; queste si esplicavano una volta in occupazioni quali la guerra, il governo, le pratiche religiose ed in perditempo di vario genere e, indirettamente, nelle buone maniere che, da riti simbolici quali erano, acquistavano anch'esse valore di beni in sé. Essa è fondamentale soprattutto in gruppi umani ristretti, nei quali si può sviluppare una discreta conoscenze reciproca, mentre in una comunità vasta, complessa ed impersonale quale è la moderna società industriale, essa tende invece ad essere sostituita, soprattutto nelle classi medie ed inferiori, con il ‘consumo vistoso’, che è un mezzo più immediato per comunicare agli altri la propria potenza finanziaria e la propria rispettabilità. (1)

Lo spreco in beni superflui si è progressivamente cristallizzato in abiti mentali, e in tal modo ha assunto un carattere di necessità irrinunciabile. Come canone di rispettabilità, derivante dalle classi superiori, esso si è imposto a tutta la società, poiché “i membri di ogni strato accettano come loro ideale di onorabilità il modello di vita in auge nelle strato immediatamente superiore e impiegano le loro energie nel vivere secondo questo ideale”. (2)
E’ ovvio che, rimanendo costante lo stimolo della emulazione, il bisogno di spreco vistoso tende a crescere indefinitamente a tutti i livelli della stratificazione, con la conseguenza che ogni incremento dell'efficienza industriale, essendo assorbito dalla spesa superflua, non si traduce mai nel vantaggio di una diminuzione della fatica lavorativa e nell’aumento del tempo libero.
La forza con cui il modello dello spreco si impone, deriva dal fatto che esso non è vissuto soggettivamente come tale, cioè con il significato di condanna morale implicito nella parola: per il solo fatto di essere il risultato di una scelta, il consumo vistoso assume, dal punto di vista del consumatore, valore positivo di utilità, indipendentemente dai fini che esso si propone di realizzare.
(…)
Veblen ha il merito di avere teorizzato per primo il comportamento di consumo come funzione della struttura sociale, indipendente dalle necessità naturali. Dal momento che il criterio del prestigio finanziario, con il suo corollario dello sciupio vistoso, assume il carattere prescrittivo dell’abito mentale, esso va ad integrarsi nell'insieme organico dell'esperienza umana, finendo per influenzare indirettamente anche gli aspetti non propriamente economici del comportamento. Veblen dimostra come tale principio intervenga a modificare la morale, la religiosità, il gusto estetico e come esso determini anche il fenomeno della moda.


Conservatorismo della classe agiata

Come il significato della ricchezza deriva dalla stima accordata all'attività di rapina e di sopraffazione nella fase barbara della civiltà, anche altri elementi tipici di questo stadio sopravvivono in forma mutata nell'attuale società. Veblen porta come esempi la virtù del coraggio, insita negli sport e nel militarismo, e l'animismo che sopravvive nelle pratiche devote e nel gioco d'azzardo. Anche questi abiti mentali si conservano e si tramandano attraverso la classe agiata, che è depositaria dell'eredità barbara.
Il fatto che la classe agiata possa rimanere legata ad una posizione arcaica deriva, secondo Veblen, dalla sua necessità di difesa rispetto ai mutamenti delle strutture economiche e sociali. Nella società moderna questi mutamenti consistono nello sviluppo dei processi produttivi e dell' organizzazione dell'industria, che richiede una parallela trasformazione negli abiti mentali di chi è a diretto contatto con la produzione. (…) L’avversione per ciò che devia dagli abiti mentali correnti fa sì che la classe agiata, non solo non promuova il mutamento, per l'inerzia che le è propria, ma lo ostacoli; essa assume così nella società il ruolo di elemento conservatore e si pone come un' istituzione frenante nei confronti del processo di evoluzione sociale.
(…)
Il modello della classe agiata si è imposto come obbligo morale per l'intera società, a causa del valore onorifico che esso ha assunto. Ma vi è una via più indiretta, attraverso la quale la classe agiata dà un'impronta conservatrice a tutta la società: l'accumulazione della ricchezza al vertice della scala sociale provoca una privazione nella classe inferiore. Questa, costretta ad impiegare ogni propria energia nello sforzo di sopravvivere, non dispone della forza necessaria a promuovere un qualsiasi mutamento e ad attuare il faticoso riequilibrio che esso richiederebbe.
Questa conclusione di Veblen è stata però confermata solo in parte dalla realtà, perché nei paesi dove il capitalismo ha trionfato, le classi al potere hanno fatto dei lavoratori una forza conservatrice e sostenitrice delle status quo, integrandola nel sistema proprio attraverso l'elevazione del tenore di vita.
Comunque sia, in opposizione alla teoria marxista, per la quale il proletariato è l'unica classe innovatrice, Veblen vede nella massa dei diseredati un elemento altrettanto conservatore - anche se per motivazioni diverse - quanto la classe detentrice della ricchezza.


Attività finanziarie e produttive

La resistenza opposta dagli abiti mentali della classe agiata al diffondersi di nuovi modi di pensare e di vivere è rispecchiata nel conflitto fra i due gruppi di istituzioni economiche esistenti: quelle finanziarie, da un lato, e quelle produttive, dall'altro.
Le istituzioni finanziarie sono solo indirettamente legate al processo economico, attraverso un interesse commerciale di sfruttamento, ed hanno caratteristiche parassitarie. Ad esse corrispondono gli impieghi finanziari, che trovano la loro più chiara e diretta espressione nelle funzioni del "capitano d'industria" (oggi gli speculatori finanziari), la cui attività richiede doti non comuni di astuzia e di spirito predatorio.
Alla seconda categoria di istituzioni economiche corrispondono gli impieghi attinenti alla produzione; questi sviluppano abiti mentali non antagonistici, richiedono un interesse impersonale e doti di razionalità, onestà e collaborazione. Ciò, essendo condizione per lo sviluppo della società industriale moderna, risponde all'interesse collettivo e si pone contro quello immediato dell’individuo.
Tuttavia anche qui si fa sentire sugli individui il peso degli schemi finanziari e dei valori contrari al processo industriale, con il risultato di ridurre l'efficienza produttiva e di ritardare così lo sviluppo.
(…)
Secondo Veblen, nella società capitalistica la separazione delle grandi ricchezze dall'attività produttiva avrebbe finito per determinare l’estinzione delle prime. La società anonima (in Italia Società per azioni) avrebbe sostituito la funzione economica della classe agiata, frantumando la proprietà, e ciò che egli prevedeva per "l’ indefinito futuro" si è realizzato, anche se in misura modestissima.
Egli sembra invece sbagliare decisamente quando afferma che la semplice applicazione del principio della massima efficienza industriale valga a ristabilire automaticamente nell'uomo e nella società la coscienza dei propri, veri, scopi. La massimizzazione razionale della produzione, infatti, lungi dall’adeguare i mezzi economici al raggiungimento dei fini riconosciuti come propri dell'uomo, si è fatta a sua volta fine in sé e, come tale, si è imposta né più né meno del prestigio finanziario del tempo di Veblen. I tipi di condizionamento sono dunque mutati, ma lo squilibrio, la competizione, lo spreco sono rimasti, se non addirittura rafforzati.
Il fatto che alla classe agiata tenda a sostituirsi una classe di tecnici che impone alla società le esigenze della produzione, come auspicava Veblen e come conferma l'analisi di J. K. Galbraith, non ha dunque avuto quale conseguenza la realizzazione dei fini collettivi, al contrario tende a strumentalizzare totalmente l'uomo ai fini della produzione. (3)
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Note 
(1) “Per convincere questi osservatori momentanei e conservare sotto il loro esame il nostro autocompiacimento, dobbiamo poter ‘firmare’ la nostra potenza finanziaria in caratteri che anche colui che ha fretta possa ‘leggere’ ” (“Opere di T. Veblen”, Classici Utet, Torino, 1969, pag. 129)
(2) op. cit., pag 127
(3) Lo stesso concetto ritroviamo in K. Marx “La vecchia concezione, secondo cui l’uomo (…) è sempre lo scopo della produzione, appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell’uomo e la ricchezza come scopo della produzione.” (“Forme economiche precapitalistiche”, Editori Riuniti, Roma, 1967, pag. 87)
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