lunedì 21 dicembre 2015

Lidia Grimaldi: “Letterina di Natale al Padreterno”




Caro Padreterno, ho in mente da tempo di dirti un paio cose a proposito di Natale e poiché sono divenuta un po’… grandicella per scrivere la solita letterina a Gesù Bambino, che oltretutto non mi risponde mai, quest’anno ho deciso di scrivere a Te, giusto per togliermi qualche sassolino dalle scarpe che si fanno via via più strette.

Qui sul pianeta terra, come tu sai, ogni anno, all’avvicinarsi del venticinque dicembre, prepariamo il presepe, ognuno a modo proprio, cercando di ricostruire la scena della nascita di tuo figlio per filo e per segno come ce la raccontano da duemila e passa anni. Ora non sto a tediarti con gli ultimi dibattiti che hanno animato questa coda del 2015 intorno all’opportunità o meno della preparazione di questa sorta di teatrino, nel senso più sacro del termine eh!, anche perché dovresti conoscere bene le questioni dell’intercultura, delle emigrazioni, delle lingue e delle religioni che ora ci affliggono, avendoci messo proprio tu nei guai quando ti venne il ghiribizzo della torre di babele, ormai di ben misera altezza al confronto di certi grattacieli multilingue contro cui vanno a schiantarsi alcuni aerei, comunque non divaghiamo. E’ che prima ti trastulli a dividere - pure le acque, ti ricordi? - e poi ti dimentichi, e ora fra globalizzazione e internet le acque si richiudono su milioni di uomini donne e bambini in cerca della terra promessa ma senza la guida di quel Mosè che ben conosci e ti assicuro che la babele che avevi fatto tu è niente al confronto di quella che ci stiamo costruendo con le nostre mani.

Ma non stiamo ora a parlare di questioni utili solo a chi tira la solita acqua al suo mulino prendendo le solite posizioni da guerre stellari, la questione che mi preme è un’altra: la neve, ovvero il freddo che attanaglia molti popoli del pianeta terra in questo preciso periodo dell’anno in cui ricorre il genetliaco del tuo figliolo ultramillenario.

Ogni volta mi dico: ma è possibile che doveva farlo nascere in pieno inverno? Quando si dice che uno ce la mette tutta per rendere difficile la vita a un figlio sin dall’inizio!

Volevi farlo nascere povero, lo posso capire. Faceva parte del piano, ché si doveva essere chiari da subito con i fatti e non solo a chiacchiere su quella cosa che gli ultimi saranno i primi. E pure su quell’altra che anche se non si nasce re uno poi lo può diventare, sia pure con molti sacrifici e sofferenza (che poi ti posso garantire che non è mica vera per tutti questa cosa dei sacrifici e della sofferenza per diventare qualcuno, ci siamo fatti furbi e abbiamo scoperto che basta una raccomandazione e qualche bustarella per passare da sotto a sopra, e infatti è tutto sottosopra).

Ma non divaghiamo, torniamo a tuo figlio. Sai dirmi perché ci hai messo il carico del freddo di dicembre? Come ha fatto a non prendersi una polmonite è un vero miracolo. Uno di quelli di cui nessun vangelo parla. Avevano voglia a fiatare i due poveri animali della stalla! Il freddo è freddo, non si scappa. E non c’erano nemmeno gli antibiotici.

Insomma, diciamocelo, come padre non sei stato un granché. Lo hai messo in difficoltà sin da prima che nascesse. A lui e a quei poveri genitori terrestri. Cominciando dalla storia dello spirito santo che nessuno si voleva bere neanche a quel tempo che pure i miracoli erano all’ordine del giorno, come quello della manna che cadde dal cielo.

A proposito di questa manna, perché non ne fai piovere più da nessuna parte? Guarda che ce n’è ancora molto bisogno in moltissimi posti di questo pianeta. Terra. Te lo ricordi? E che, non lo so che ce ne sono tanti che devi controllare? E’ per questo che ci tengo a darti qualche coordinata specifica. Mi sa che ti sei messo a guardare troppa televisione e hai perso il senso della realtà. Lo sai o no che in televisione è tutto finto? Ti fanno credere che va tutto bene, dalle ragazze con la sesta misura ai panettoni sotto i camini, dal grande fratello al politico di turno che sistema le cose a chiacchiere. Spegni la tv e guarda quaggiù, qui dove nasce l’erba e aumenta la spazzatura.

Vedi quante cose ti stanno sfuggendo di mano? E quante te ne sono sfuggite negli ultimi duemila anni di storia? Su quelli prima, non stiamo a rivangare. Torniamo a tuo figlio.

Non ti sei accontentato di farlo nascere in povertà né di aver messo in difficoltà quel povero falegname di Nazareth. Hai voluto strafare e l’hai fatto nascere pure al freddo e al gelo di dicembre. Un vero e proprio accanimento. E non solo verso quel povero innocente del bambino Gesù, che non ne aveva affatto bisogno, considerato quel po’ po’ di programmino che avevi in serbo per lui, povero figlio. Ma anche verso l’intera umanità che a tuo dire amavi così tanto al punto da voler sacrificare per lei la vita del tuo stesso figlio.

Che poi questa storia del sacrificio dei figli tu ce l’avevi per vizio, diciamocelo francamente, e ci avevi pure provato diverso tempo prima col povero Isacco. Pensa se l’angelo fosse arrivato in ritardo per un improvviso guasto all’ala. Comunque non ti sei dato una calmata, nemmeno dopo Gesù. Li vedi o no tutti questi bambini che muoiono sulla terra ogni giorno e nemmeno un angelo a fermare la mano del boia prima che sia troppo tardi? Che cosa è successo agli angeli? Sono entrati in sciopero?

Tornando a questa cosa d’aver fatto nascere tuo figlio a dicembre, ti rendi conto che per festeggiare la ricorrenza della sua nascita tutti gli uomini di questo pianeta - la terra, guarda di qua, non ti distrarre, ci sei? - allora dicevo la gran parte degli uomini della terra sono costretti a festeggiare la ricorrenza della nascita del bambinello nei giorni più freddi dell’anno? Questo significa che se vogliono andare alla messa di mezzanotte minimo minimo devono avere un cappotto. E secondo te tutti hanno un cappotto?

Prendi poi i mercatini di natale. Lo sai il freddo che avevano domenica scorsa quei poveri diavoli degli ambulanti sotto i loro gazebo a vendere tutta quella mercanzia di angeli, pastori e cianfrusaglie varie?

Tu pensa se lo facevi nascere a luglio. Ce ne andavamo tutti al mare e i mercatini si facevano sulla spiaggia. Le vendite si sarebbero raddoppiate e se ne sarebbero avvantaggiati anche i migranti che invece di essere rispediti a casa loro o rinchiusi nei campi di Lampedusa avrebbero avuto spiagge affollatissime in cui sistemare banchetti per la vendita delle più inutili chincaglierie che riusciamo a inventarci in questo periodo dell’anno.

E comunque il discorso è anche più ampio. Tu considera che col caldo si mangia meno, anche perché la gente deve indossare i costumi da bagno e quaggiù ci tengono quasi tutti a mostrarsi magri e belli. E infatti ti risulta che per la festa di San Pietro e Paolo o per l’Assunzione qualcuno si abbuffi di abbacchio? Pensa quanti agnelli e capretti risparmiati, come quello che lo stesso Gesù non ebbe il coraggio di portare al tempio, stando alla testimonianza del vangelo di Saramago che secondo me è uno dei più belli in circolazione.

E poi secondo me l’estate è la stagione del massimo grado di uguaglianza: si va tutti svestiti allo stesso modo, ricchi e poveri, le collane d’oro si lasciano a casa perché col caldo ti lascerebbero ustioni intorno al collo e le pellicce non servono così pure le volpi i visoni e tutte le creature amiche di quella grande anima di San Francesco sarebbero più felici.

Dammi retta, sarebbe stato meglio per tutti se tu avessi fatto nascere il Bambin Gesù col caldo. D’estate certe diversità si notano di meno.

E poi, padreterno, che ti devo dire? a me l’estate piace più di più. Vedessi che tristezza è l’inverno! Hai voglia a mettere luminarie! Alle quattro del pomeriggio quaggiù da noi - pianeta terra, ricordati! - è già buio e le riserve per la produzione di energia elettrica sono in esaurimento. Voglio vedere come faranno fra altri duemila anni. Anzi, toglimi una curiosità, tu che sai tutto, ci sarà ancora questo pianeta fra duemila anni?

Dici che sono tanti e non si può fare un pronostico, e quindi mi sto ponendo un problema inutile?

No, padreterno, non è un problema per me. Pensi che non lo sappia che il massimo che mi riguarda è un arco di tempo variabile fra la prossima ora e un paio di decenni?

Me lo domandavo così, per curiosità.

Lidia Grimaldi

Copyright Lidia Grimaldi 2015 - all rights reserved

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Di Lidia Grimaldi su questo blog c’è già un breve profilo, da me scritto in occasione della pubblicazione di “Ritorno”, un ‘racconto poetico’ – non so e non voglio definirlo diversamente – in cui ricorda la sua mamma e la sua bellissima città d’origine, Cefalù. *
Oggi, in prossimità delle feste natalizie, ho avuto il piacere di poter pubblicare una sua speciale “Letterina di Natale al Padreterno”, fatta di rimproveri insidiosi, ma così ragionevoli che forse persino l’attuale Papa Francesco la sottoscriverebbe. Almeno in parte.
Poiché una lettera non contempla delle risposte immediate, questa pagina letteraria, venata di pungente ironia, si configura come un monologo. Un monologo del quale mi è venuto spontaneo immaginare una possibile interpretazione, nel tono e nella mimica, da parte di un attore - Troisi - che ha, anche lui, osato rivolgersi al Padreterno col tono confidenziale che un figlio moderno potrebbe usare verso il suo papà.

Le domande poste sono di carattere etico, non bisogna leggere il testo con pretese storiche o esegetiche. Che Gesù sia nato a dicembre o in primavera, non è in fondo importante; l’ipotesi tradizionale di dicembre, qui accolta, serve solo da filo conduttore per poter porre altre, più importanti questioni, molte delle quali di estrema attualità.
Lidia Grimaldi è poeta e narratrice e i riferimenti particolari al testo sacro sono dunque solo lo spunto per mettere in discussione alcune scelte che nel corso della storia i rappresentanti ufficiali della cristianità hanno operato in aperta contraddizione con i principi ispiratori della Buona Novella.

Dell’autrice ho letto vari racconti scritti alcuni anni fa e devo dire che, confrontandoli con quelli più recenti, trovo una qualche discontinuità di stile, direi una evoluzione. Da forme quasi architettoniche, in cui la logica e la punteggiatura fanno rispettivamente da pilastri e muri separatori, si passa a forme quasi scultoree in cui a prevalere è la libertà espressiva, e il fluire dei pensieri non tollera pastoie formali di alcun genere.
Ci sono esempi illustri di questo genere di scrittura: al vertice James Joyce e, a livello nazionale, il nostro Giuseppe Berto.
Lidia è ancora nel sottobosco degli inediti, ma in quel sottobosco… emerge di parecchie spanne.

Cataldo Marino

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Altri scritti di Lidia Grimaldi su questo blog:

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martedì 8 dicembre 2015

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti: “La gioia e la legge”


La gioia e la legge

Quando salì in autobus infastidì tutti. La cartella stipata di fogli altrui, l'enorme involto che gli faceva arcuare il braccio sinistro, il fasciacollo di felpa grigia, il parapioggia sul punto di sbocciare, tutto gli rendeva difficile l'esibizione del biglietto di ritorno; fu costretto a poggiare il paccone sul deschetto del bigliettaio, provocò una frana di monetine imponderabili, tentò di chinarsi per raccattarle, suscitò le proteste di coloro che stavano dietro di lui e cui le sue more incutevano il panico di aver la falde dei cappotti attanagliate dallo sportello automatico. Riuscì ad inserirsi nella fila di gente aggrappata alle passatoie; era esile di corporatura ma l'affardellamento suo gli conferiva la cubatura di una suora rigonfia di sette sottane. Mentre si slittava sulla fanghiglia attraverso il caos miserabile del traffico, l'inopportunità della sua mole propagò il malcontento dalla coda alla testa del carrozzone: pestò piedi, gliene pestarono, suscitò rimproveri e quando udì perfino dietro di sé tre sillabe che alludevano a suoi presunti infortuni coniugali, l'onore gl'ingiunse di voltare la testa e s'illuse di aver posto una minaccia nell'espressione sfinita degli occhi.
Si percorrevano intanto strade nelle quali facciate di un rustico barocco nascondevano un retroterra abbietto che per altro riusciva a saltar fuori ad ogni cantone; si sfilò davanti alle luci giallognole di negozi ottuagenari.
Giunto alla sua fermata suonò il campanello, discese, incespicò nel parapioggia, si ritrovò finalmente isolato sul suo metro quadrato di marciapiede sconnesso; si affrettò a constatare la presenza del portafoglio di plastica. E fu libero di assaporare la propria felicità.

Racchiuse nel portafoglio erano trentasettemiladuecentoquarantacinque lire, la "tredicesima" riscossa un'ora fa, e cioè l'assenza di parecchie spine: quella del padrone di casa, tanto più insistente in quanto bloccato ed al quale doveva due trimestri di pigione; quella del puntualissimo esattore delle rate per la giacca di "lapin" della moglie ("Ti sta molto meglio di un mantello lungo, cara, ti snellisce"); quella delle occhiatacce del pescivendolo e del verduraio. Quei quattro biglietti di grosso taglio eliminavano anche il timore per la prossima bolletta della luce, gli sguardi affannosi alle scarpette dei bambini, l'osservazione ansiosa del tremolare delle fiammelle del gas liquido; non rappresentavano l'opulenza certo, no davvero, ma promettevano una pausa dell'angoscia, il che è la vera gioia dei poveri; e magari un paio di migliaia di lire sarebbe sopravvissuto un attimo per consumarsi poi nel fulgore del pranzo di Natale.
Ma di "tredicesime" ne aveva avute troppe perché potesse attribuire all'esilarazione fugace che esse producevano l'euforia che adesso lo lievitava, rosea. Rosea, sì, rosea come l'involucro del peso soave che gli indolenziva il braccio sinistro. Essa germogliava proprio fuori del panettone di sette chili che aveva riportato dall'ufficio. Non che egli andasse pazzo per quel miscuglio quanto mai garentito e quanto mai dubbio di farina, zucchero, uova in polvere e uva passa. Anzi, in fondo in fondo, non gli piaceva. Ma sette chili di roba di lusso in una volta sola! una circoscritta ma vasta abbondanza in una casa nella quale i cibi entravano a etti e mezzi litri! un prodotto illustre in una dispensa votata alle etichette di terz'ordine! Che gioia per Maria! che schiamazzi per i bambini che durante due settimane avrebbero percorso quel Far-West inesplorato, una merenda!
Queste però erano le gioie degli altri, gioie materiali fatte di vaniglina e di cartone colorato, panettoni insomma. La sua felicità personale era ben diversa, una felicità spirituale, mista di orgoglio e di tenerezza; sissignori, spirituale.

Quando poco prima il Commendatore che dirigeva il suo ufficio aveva distribuito buste-paga e auguri natalizi con l'altezzosa bonomia di quel vecchio gerarca che era, aveva anche detto che il panettone di sette chili che la Grande Ditta Produttrice aveva inviato in omaggio all'ufficio sarebbe stato assegnato all'impiegato più meritevole, e che quindi pregava i cari collaboratori di voler democraticamente (proprio così disse) designare il fortunato, seduta stante.
Il panettone intanto stava lì, al centro della scrivania, greve, ermeticamente chiuso, "onusto di presagi" come lo stesso Commendatore avrebbe detto venti anni fa, in orbace. Fra i colleghi erano corse risatine e mormorii; poi tutti, e il Direttore per il primo, avevano gridato il suo nome. Una grande soddisfazione, un'assicurazione della continuità dell'impiego, un trionfo, per dirlo in breve; e nulla poi era valso a scuotere quella tonificante sensazione, né le trecento lire che aveva dovuto pagare al "bar" di sotto, nel duplice lividume del tramonto burrascoso e del "neon" a bassa tensione, quando aveva offerto il caffè agli amici, né il peso del bottino, né le parolacce intese in autobus; nulla, neppure il balenare nelle profondità della sua coscienza che si era trattato di un attimo di sdegnosa pietà per il più bisognoso fra gli impiegati; era davvero troppo povero per permettere che l'erbaccia della fierezza spuntasse dove non doveva.
Si diresse verso casa sua attraverso una strada decrepita cui i bombardamenti quindici anni prima avevano dato le ultime rifiniture. Giunse alla piazzetta spettrale in fondo alla quale stava rannicchiato l'edificio fantomale. Salutò gagliardamente il portinaio Cosimo che lo disprezzava perché sapeva che percepiva uno stipendio inferiore al proprio. Nove scalini, tre scalini, nove scalini: il piano dove abitava il cavaliere Tizio. Puah! Aveva la millecento, è vero, ma anche una moglie brutta, vecchia e scostumata. Nove scalini, tre scalini, uno sdrucciolone, nove scalini: l'alloggio del dottor Sempronio: peggio che mai! Un figlio scioperato che ammattiva per Lambrette e Vespe, e poi l'anticamera sempre vuota. Nove scalini, tre scalini, nove scalini: l'appartamento suo, l'alloggetto di un uomo benvoluto, onesto, onorato, premiato, di un ragioniere fuoriclasse.

Aprì la porta, penetrò nell'ingresso esiguo già ingombro dell'odore di cipolla soffritta; su di una cassapanchina grande come un cesto depose il pesantissimo pacco, la cartella gravida d'interessi altrui, il fasciacollo ingombrante. La sua voce squillò: "Maria! vieni presto! Vieni a vedere che bellezza!"
La moglie uscì dalla cucina, in una vestaglia celeste segnata dalla fuliggine delle pentole, con le piccole mani arrossate dalle risciacquature posate sul ventre deformato dai parti. I bimbi col moccio al naso si stringevano attorno al monumento roseo, e squittivano senza ardire toccarlo.
"Bravo! e lo stipendio lo hai portato? Non ho più una lira, io." "Eccolo, cara; tengo per me soltanto gli spiccioli, duecento quarantacinque lire. Ma guarda che grazia di Dio!"
Era stata carina, Maria, e fino a qualche anno fa aveva avuto un musetto arguto, illuminato dagli occhi capricciosi. Adesso le beghe con i bottegai avevano arrochito la sua voce, i cattivi cibi guastato la sua carnagione, lo scrutare incessante di un avvenire carico di nebbie e di scogli spento il lustro degli occhi. In lei sopravviveva soltanto un'anima santa, quindi inflessibile e priva di tenerezza, una bontà profonda costretta ad esprimersi con rimbrotti e divieti; ed anche un orgoglio di casta mortificato ma tenace, perché essa era nipote di un grande cappellaio di via Indipendenza e disprezzava le non omologhe origini del suo Girolamo che poi adorava come si adora un bimbo stupido ma caro.
Lo sguardo di lei scivolò indifferente sul cartone adorno. "Molto bene. Domani lo manderemo all'avvocato Risma, al quale siamo molto obbligati."

L'avvocato, due anni fa, aveva incaricato lui di un complicato lavoro contabile, e, oltre ad averlo pagato, li aveva invitati ambedue a pranzo nel proprio appartamento astrattista e metallico nel quale il ragioniere aveva sofferto come un cane per via delle scarpe comprate apposta. E adesso per questo legale che non aveva bisogno di niente, la sua Maria, il sua Andrea, il suo Saverio, la piccola Giuseppina, lui stesso, dovevano rinunziare all'unico filone di abbondanza scavato in tanti anni!
Corse in cucina, prese il coltello e si slanciò a tagliare i fili dorati che un'industre operaia milanese aveva bellamente annodato attorno all'involucro; ma una mano arrossata gli toccò stancamente la spalla: "Girolamo, non fare il bambino. Lo sai che dobbiamo disobbligarci con Risma."
Parlava la Legge, la Legge emanata dai cappellai intemerati.
"Ma cara, questo è un premio, un attestato di merito, una prova di considerazione!"
"Lascia stare. Bella gente quei tuoi colleghi per i sentimenti delicati! Una elemosina, Girì, nient'altro che un'elemosina." Lo chiamava col vecchio nome di affetto, gli sorrideva con gli occhi nei quali lui solo poteva rintracciare gli antichi incanti.
"Domani comprerai un altro panettone piccolino, per noi basterà; e quattro di quelle candele rosse a tirabusciò che sono esposte alla Standa; così sarà festa grande."

Il giorno dopo, infatti, lui acquistò un panettoncino anonimo, non quattro ma due delle stupefacenti candele e, per mezzo di un'agenzia, mandò il mastodonte all'avvocato Risma, il che gli costò altre duecento lire.
Dopo Natale, del resto, fu costretto a comprare un terzo dolce che, mimetizzato in fette, dovette portare ai colleghi che lo avevano preso in giro perché non aveva dato loro neppure un briciolo della preda sontuosa.
Una cortina di nebbia calò poi sulla sorte del panettone primigenio.
Si recò all'agenzia "Fulmine" per reclamare. Gli venne mostrato con disprezzo il registrino delle ricevute sul quale il domestico dell'avvocato aveva firmato a rovescio. Dopo l'Epifania però arrivò un biglietto da visita "con vivissimi ringraziamenti ed auguri."
L'onore era stato salvato.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

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Giuseppe Tomasi, Principe di Lampedusa, è autore conosciuto per “Il gattopardo”, suo primo ed unico romanzo, iniziato nel 1954 e portato a termine nel 1956, quando egli aveva già sessanta anni.
Nel ‘58, cioè un anno dopo la sua morte, mentre la Mondadori e l’Einaudi ne rifiutarono la pubblicazione (sic!), il libro venne pubblicato dalla Feltrinelli; nel ‘59 vinse il Premio Strega e nel ‘63, per la regia di Luchino Visconti, se ne trasse uno dei più bei film. Non infrequenti, in campo artistico, le inutili rivincite post mortem!
Tutto ciò è già ben noto agli amanti della letteratura e della cinematografia. Meno numerosi probabilmente sono invece coloro che hanno avuto occasione di leggere anche i suoi “Racconti”. Forse perché pochi! Ma, pur se pochi, quei Racconti (La gioia e la legge, La sirena* e I gattini ciechi) - pubblicati ancora dalla Feltrinelli insieme ad alcuni appunti autobiografici (Ricordi d’infanzia) - fatte le dovute proporzioni con il celebre romanzo, sono di una raffinatezza letteraria non facilmente riscontrabile. La gioia e la legge ne è una dimostrazione incontrovertibile.

Girolamo è un impiegatuccio, un Monsù Travet, impacciato e maldestro, che dedica tutta la sua vita con zelo e devozione a un modesto lavoro per un stipendio da sussistenza, con l’aspirazione di dare qualche soddisfazione alla sua famigliola.
Per attenuare lo scompenso fra quanto nel lavoro dà e quanto ne riceve in termini monetari e di considerazione sociale, egli vuole illudersi che l’assegnazione unanime di un modesto premio natalizio da parte dei colleghi sia il simbolo di un significativo riconoscimento (la gioia). Sarà compito della moglie-madre riportarlo, pur con una certa compassione, alla dura realtà, imponendogli la rinuncia al grande panettone ricevuto in regalo, per poterlo 'girare', come un assegno, a persona cui le sembrava opportuno dimostrare riconoscenza (la legge).

E’ una storia un po' triste, cucita però in modo tale che, già dall'incipit, non la si possa leggere senza accennare qualche lieve sorriso; anche a costo di sentirsi poi, per questo, un po’ in colpa col protagonista. Un delicato intreccio che spinge il lettore ad andare con curiosità al rigo e, poi, alla pagina successiva. Non era forse questo stesso tipo di intreccio che per decenni spinse intere generazioni a riempire le sale cinematografiche per assistere alle tragicomiche sequenze di Charlie Chaplin?

In questi giorni sto lavorando sul capitolo di un libro di economia in cui, esattamente due secoli fa, già si denunciavano i danni economici e ambientali prodotti delle mode effimere e dallo spreco. Ma è un lavoro lunghetto e… dall'esito incerto, e perciò, nel frattempo, mi sono voluto concedere il piacere di una pausa, per riproporre questo breve ma gustoso racconto a tre internaute amiche, che rincorro quotidianamente sui social network per via della loro intelligenza, della loro sensibilità e della loro coraggiosa franchezza. 

c.m.