domenica 14 luglio 2013

Filmdarivedere: "Il maestro di Vigevano", 1963

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Fra il 1861 e il 2010 i contadini in Italia passano dal 70 al 4%. Nel seguire questa linea discendente essi, alla fine degli anni Cinquanta, si vedono superare in numero prima dagli operai dell’industria e poi dagli addetti ai servizi (1); è questo un momento cruciale della storia del nostro Paese, perché tali trasformazioni dell’economia sconvolgono anche il sistema di valori sul quale, fino a quel momento, si era retto il sistema sociale.

Anche in una società contadina le proprietà e il tenore di vita hanno una loro importanza, ma i professionisti e gli uomini di cultura godono di un certo prestigio a prescindere da questi elementi. Con l’industrializzazione questo assetto si sgretola, perché l’unico metro di valutazione sociale diventa il denaro: se un industriale, un artigiano, un commerciante o un operaio specializzato guadagnano più di un insegnante, questo è sufficiente per assegnare a quest’ultimo un ruolo sociale marginale.
E’ esattamente ciò che succede al maestro Mombelli, protagonista del film tratto dall’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, uscito nelle sale cinematografiche nel 1963, cioè solo un anno dopo la pubblicazione del libro.

Antonio Mombelli insegna nelle scuole elementari di Vigevano, una cittadina che, insieme a Varese, diventerà in quel periodo la capitale dell’industria italiana delle calzature. Molti operai, dopo un periodo di lavoro in fabbrica, visto il rapido arricchimento dei proprietari e impossessatisi dei trucchi del mestiere, si mettono in proprio, e così le attività produttive si moltiplicano rapidamente, i redditi delle persone e delle famiglie coinvolte crescono, e con essi cresce il desiderio inarrestabile di beni con cui ostentare il proprio benessere.
Unici esclusi da questo processo, schiacciati fra i vecchi imprenditori e i parvenu, restano i pochi soggetti ancora legati ai lavori agricoli, gli operai che continuano a lavorare come dipendenti e gli impiegati pubblici e privati. Loro, questa trasformazione, restano a guardarla, e se ne accorgono bene quando vanno nelle piazze affollate con i vestiti logori o non alla moda o quando arrivano a casa per sentire dalle mogli, più sensibili al fascino della moda e dei consumi, un lungo elenco di confronti impietosi.

Anche prima di questi rivolgimenti, il vecchio ambiente scolastico non garantiva un’economia familiare allegra, ma c’era un contrappeso, la ‘dignità’. Il ragioniere d’una azienda, l’impiegato comunale o l’insegnante – soggetti che si usa raggruppare nella categoria residua di ‘piccola borghesia’, perché un po’ al di sopra dell’operaio e del contadino e un poco, ma a volte anche tanto, al di sotto del piccolo o grande imprenditore – erano persone che, una volta uscite dalla fabbrica o dall’ufficio, spesso inchinandosi servilmente ai loro superiori gerarchici, in piazza potevano andare a testa alta per il diffuso riconoscimento dei loro meriti intellettuali e morali. Alla fine degli anni ’50 essi precipitano invece nella parte più bassa della scala sociale perché questi meriti, non essendo monetizzabili, non vengono più riconosciuti. Iniziano così i drammi familiari e umani, dei quali “Il maestro di Vigevano” è una rappresentazione toccante.

La moglie del maestro Mombelli, Ada, una donna carina e ancora giovanile (interprete l’attrice inglese Claire Bloom), non è il personaggio principale del libro e del film, però in essa si coagulano tutte le contraddizioni che dalla società si travasano nella famiglia. E’ lei che, prima del marito avverte ed elabora la nuova condizione sociale; si lamenta con lui per motivi banali, ma simbolici - prova ad esempio vergogna a portare indumenti intimi inadeguati - ma le sue aspirazioni vanno ben oltre. Vede come gli altri spendano con facilità in cibi, vestiti, automobili, divertimenti, e capisce che per rincorrerli in direzione di questa ‘dolce vita’ non c’è che un rimedio: lei andrà a lavorare in fabbrica e il figlio adolescente, che in fondo per lo studio non ha né stoffa né voglia, all’insaputa del padre andrà a consegnare pacchi.
Che lei non si limiti a fare ciò solo per non indossare più mutande maschili, diventa evidente quando, dopo aver costretto il marito ad accettare che lei e il figlio vadano a fare lavori da lui ritenuti umilianti, lo costringerà anche a dimettersi dall’insegnamento e ad affidarle la buonuscita per mettere su la propria fabbrichetta in società con suo fratello. Ed è sempre lei che, una volta raggiunto l’obiettivo economico, andrà alla ricerca di altri segni di prestigio: l’amante, un amante più facoltoso di lei, col quale fa accordi commerciali e andrà periodicamente in gita su una bella coupé… in albergo! E’ lì, in quella coupé, che la sua folle corsa, stradale e sociale, finirà per un incidente. La nemesi.
Ada non appare molto nel film; rispetto al maestro, interpretato da Alberto Sordi - al quale meritatamente la tv dedicherà un ciclo di film dal titolo “Storia di un italiano” – essa apparirà in un numero limitato di scene, quasi personaggio secondario, con ruolo antitetico a quello del protagonista. E però i desideri da lei covati sono il grimaldello con cui vengono scardinati i vecchi modelli di vita, nella società e in famiglia.

Raccontata la storia di Ada, che rappresenta il nuovo mondo, si potrebbe dire che sia già raccontata anche la storia del maestro Mombelli, personaggio speculare del vecchio mondo. Ma sfuggirebbero degli aspetti interessanti.
Tutti coloro che hanno visto o vedranno il film, si faranno un’idea abbastanza precisa della vita d’un insegnante prima e dopo il boom economico degli anni ’60, ma chi ha passato la vita fra dirigenti, studenti, alunni , libri e registri, forse avvertirà meglio il messaggio dello scrittore Mastronardi e dell’attore Sordi.
Fino agli anni ’60 fare l’insegnante non era un ‘ripiego’ per non aver trovato lavori migliori. Si entrava in un ambiente dove tutti - eccezion fatta per il personale ausiliario allora numericamente irrilevante - avevano un livello di istruzione medio o alto; gli alunni e le famiglie avevano dell’istruzione un’alta considerazione. In un’Italia in cui ancora c’erano larghe sacche di analfabetismo (l’UNLA (2) organizzava i corsi serali per adulti e il maestro Manzi in tv diceva che per imparare “Non è mai troppo tardi”) chi usciva dalle severe scuole magistrali d’un tempo o da un Ateneo in cui, accademicamente, bisognava essere disposti a dare risposta anche sui cavilli, era beneficiario di grande rispetto da parte delle altre categorie sociali. Poi le cose sono cambiate e il destino del maestro Mombelli ne è una testimonianza.

La scuola, avendo il compito essenziale di trasferire conoscenze e valori dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani, è la struttura che recepisce per ultima le innovazioni. Quella di Mombelli non fa eccezione. C’è un dirigente che ‘conserva’ le sue prerogative di superiorità riservandosi il nos maiestatis, suggerendo le risposte alle sue domande con l’aiutino della sillabazione progressiva o dimostrando la superiorità della nuova didattica ‘attiva’. Sopravvive il culto della bella scrittura. Per accedere alla cattedra bisogna ancora conoscere bene D’Annunzio, anche se lo si ritiene un autore ormai superato.
Tutti questi caratteri, che della vecchia scuola rimangono intatti, compreso il modesto stipendio, Mombelli li accetta. Ciò che rifiuta è il riposizionamento del suo ruolo nella società: giudica umiliante che moglie e figlio di un maestro debbano andare in fabbrica o che il padre facoltoso di un alunno (lo stesso che diventerà l’amante di sua moglie) voglia corromperlo con cinquantamila lire. Fa di tutto per salvare la sua dignità, promette alla moglie di guadagnare quanto basta dando lezioni private, ma il suo destino è segnato. Quella, contro il vento della storia, è una lotta impari, destinata alla sconfitta.
In una scena iniziale, Ada cerca inutilmente di spiegargli tutto questo:
- Mandami a lavorare in fabbrica
- Ada!
- Insomma, non possiamo continuare così. Allora troviamo un lavoro per Rino, è grande. Può già incominciare a guadagnare qualcosa.
- No, Ada, Rino non può abbandonare la scuola, Rino deve studiare, lui non è figlio di un operaio, è il figlio del maestro Mombelli. Io faccio scuola agli altri e mando mio figlio a lavorare?
- Non è neanche tagliato per studiare
- Come sei cambiata, Ada.
- I tempi, sono cambiati. Quando ero ragazza la gente diceva “Beata lei, sposa un maestro”. Adesso dice “Povera diavola, ha sposato un maestro”
- Gente ignorante, Ada. Noi siamo migliori. Cerca di dimenticare che siamo poveri e saremo sempre felici.
- Si… buonanotte.
- Tu credi che io non sappia, Ada, quello che ti rende sempre triste. Tu sogni di essere una donna ricca, e non lo sei.

L’autore del libro, Lucio Mastronardi, nel raccontare queste trasformazioni della sua Vigevano, soffre; si sente che soffre come insegnante, ma soprattutto come uomo. La sua vita, come quella del protagonista del suo romanzo, sarà tormentata e finirà in modo tragico. In una intervista a ‘La settimana Incom’, rintracciabile su you tube col titolo “Non è pazzo il maestro”, egli dichiara: “"Sono molto vicino a una piccola borghesia a carattere casalingo, schiacciata dalla classe industriale da una parte e dalla classe operaia dall'altra. Il boom la seguita a schernire con crudeltà".


Note:
.(1) Istat – Popolazione attiva per settore economico, anni 1861-2010 (composizioni %)
 http://www.istat.it/it/files/2011/05/01_occupazione.swf 



(2) Unione Nazionale Lotta contro l’Analfabetismo
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