domenica 7 ottobre 2012

Lavoro: strategie a confronto

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Ragionare per paradossi non è sempre la via migliore per cercare la verità, ma è sicuramente un buon metodo per mettere a confronto le idee. Provo perciò oggi ad applicare questo metodo al problema della disoccupazione, facendo due ipotesi estreme, teoriche, assolutamente impraticabili nella loro rigida formulazione, ma utili forse per valutare le soluzioni intermedie.

Prima ipotesi: forte abbassamento dell'età pensionabile
Lo Stato ha 3 milioni di disoccupati e chiede agli istituti previdenziali di calcolare quale dovrebbe essere l’età minima per poter mandare in pensione un pari numero di lavoratori. Supponendo che venga indicata l’età di 54 anni e che lo Stato legiferi in tal senso, avremmo le seguenti conseguenze:
- i 3 milioni di disoccupati e di inoccupati prenderebbero il posto di tutti coloro che lo lasciano, azzerando così la disoccupazione;
- gli enti previdenziali, e per essi lo Stato, avrebbero un aumento annuo di spesa di circa 50 miliardi di euro, al quale bisognerebbe far fronte - se ciò fosse possibile - emettendo nuova moneta;
- la massa monetaria in circolazione avrebbe un forte incremento, che provocherebbe una erosione del potere di acquisto dei redditi dei lavoratori attivi e dei pensionati e una diminuzione del valore dei risparmi impiegati in depositi bancari e titoli a reddito fisso.
In pratica si verificherebbe una redistribuzione del reddito, che colpirebbe queste ultime categorie a vantaggio di tutti i disoccupati ed inoccupati che troverebbero finalmente un impiego.

Seconda ipotesi: forte innalzamento dell'età pensionabile
Lo Stato, per via delle difficoltà finanziarie, toglie ogni limite d'età per il pensionamento, in pratica abolisce tutte le pensioni future.
Supponendo che ogni anno in media si verifichi il decesso di 300.000 ex pensionati, gli enti previdenziali risparmierebbero 7 mld di euro il primo anno, 15 il secondo, 22 il terzo e via di seguito. In virtù di tali risparmi lo Stato ogni anno potrebbe diminuire la pressione fiscale dell’ 1,5% .
Lavoratori occupati e pensionati godrebbero di un aumento di reddito, i risparmi in depositi bancari e obbligazioni manterrebbero il loro valore, mentre disoccupati ed inoccupati continuerebbero a restare tali e quindi privi della minima capacità di spesa.

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E’ evidente che per rispettare i vincoli sovranazionali e per non penalizzare eccessivamente una delle due categorie contrapposte – disoccupati e inoccupati, da un lato, e lavoratori occupati, pensionati e risparmiatori, dall’altro – nessuna delle due ipotesi potrà essere attuata in pieno. Ma, se immaginiamo come nella figura qui in basso che fra le due ipotesi estreme ci sia una linea continua, con al centro un punto zero che rappresenta la situazione economica del momento, la scelta dovrà necessariamente collocarsi fra lo zero ed il punto estremo relativo alla prima ipotesi oppure fra lo zero il punto estremo relativo alla seconda ipotesi. La scelta di politica economica, in altri termini, si limiterà a tendere verso uno dei due poli.






Il governo Monti, dopo due mesi dall’insediamento, non ha avuto a questo proposito alcun dubbio: ha innalzato l’età pensionabile e quindi si è orientato verso la seconda ipotesi, proteggendo chi ha già un reddito o dei risparmi. Lo strombazzamento sulle maggiori opportunità di impiego create da questo provvedimento, oltre che dalla flessibilità del lavoro, è privo di fondamento, a meno che non si voglia attribuire un significativo peso economico, e non solo psicologico, alle iniezioni di ottimismo dei rappresentanti del governo. Ma terapie come queste, con effetto placebo, sono già state praticate dal predecessore di Monti - non ne cito il nome per esorcizzare un suo possibile ritorno - e si sono rivelate del tutto inefficaci.

Tuttavia l’innalzamento dell’età pensionabile è stato votato sia dai partiti di destra, che da quelli di centro e di sinistra. Perché? In primo luogo perché, in linea di massima, gli uni e gli altri hanno ormai la stessa base elettorale, e in essa gli inoccupati ed i disoccupati costituiscono una esigua minoranza. In secondo luogo perché siamo ormai vincolati da una comune politica europea, ‘parametrata’ dalla finanza internazionale e orchestrata da una Germania neo-imperiale.
Col Governo Prodi, che era sostenuto dal centrosinistra, tutti siamo allegramente entrati nella moneta unica, pensando che ciò avrebbe creato anche un unico sistema produttivo, monetario, fiscale e forse anche etico, senza però pensare che lo Stato italiano in tal modo non avrebbe più potuto muoversi, sia pur gradualmente, in direzione del ricambio generazionale nei posti di lavoro.

Tutti abbiamo sperato, insieme a Prodi, che con la moneta unica i cittadini italiani sarebbero potuti andare tranquillamente a lavorare in Germania e che i tedeschi avrebbero potuto trovare comodo e redditizio impiantare grossi complessi alberghieri sulle coste del sud: non per nulla Prodi parlò del sud come della Florida, la bella regione americana dal dolce clima e disseminata di agrumeti, in cui molti ricchi cittadini di Chicago e New York vanno a soggiornare periodicamente o vivere stabilmente la terza età.
E invece, per il permanere delle differenze linguistiche e culturali e di interessi nazionalistici, ciò non si è verificato neppure lontanamente. Quando un cittadino italiano va a Berlino (oggi la 'mecca' d’Europa, anche per merito della stessa Europa oltre che degli USA), almeno per i primi anni anni potrà svolgere solo un lavoro in cui non è necessaria la comunicazione verbale, mentre negli USA ogni giorno centinaia di migliaia di lavoratori si spostano in aereo da nord a sud e da est a ovest senza intralci linguistici, normativi ed etnici.
Inoltre, quando le banche di uno degli Stati americani hanno problemi finanziari, interviene immediatamente la banca centrale, la Federal Reserve, mentre per i paesi europei in difficoltà la Deutsche Bundesbank storce il naso e dice che non può pagare per gli altri, e nel frattempo le imprese tedesche in quei paesi esportano dal latte alle automobili, aumentando produzione e profitti.

Fra queste difficoltà, Monti si barcamena come può. Da un lato rassicura la Merkel con la concreta stretta sulle pensioni e dall’altro conquista le simpatie di Obama promettendo una politica di sviluppo. Poi dà una pacca sulle spalle a Bersani e Casini, ricordando loro che in questo parlamento non hanno ancora i numeri per decidere, e dà un buffetto ad Alfano per ricordargli che sta togliendo dai pasticci lui, il suo capo e il suo partito.
Non è un uomo in malafede, è un mediatore che, al contrario del suo predecessore, non sporca l’immagine dell’Italia nel mondo e le dà anzi una ripulitina, facendo così recuperare al paese un po’ di prestigio e di credito internazionale. E’ un prof, come lo erano Moro e Fanfani, e come loro, alla luce del sole o sottobanco, è costretto a procurarsi l’appoggio di opposte fazioni.
Quando ciò accade, perché come oggi in Italia non ci sono altre soluzioni possibili, una nazione diventa simile a un ammalato sotto anestesia, il quale, ormai dormiente, non può intendere né pronunciarsi sulle cure praticate. Deve fidarsi o… crepare. In mancanza di altri medici e altre terapie perciò, per ora, mandiamo giù la seconda delle due teorie, anche se occorre un efficace protettore gastrico.

Cataldo Marino
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