martedì 16 novembre 2010

Disoccupazione: che fare? Un contributo

Ho già accennato al problema della disoccupazione giovanile nei post “Peter Pan” e “Le responsabilità dei vecchi”, e l’ho fatto però finora prevalentemente nell’ottica delle responsabilità individuali. Tuttavia le dimensioni assunte attualmente dal fenomeno fanno di esso anche un fatto socialmente rilevante, ed è perciò giusto affrontarlo anche sotto l’aspetto della politica economica.

Le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro sono presenti, dove in misura maggiore e dove in misura minore, in tutti i paesi occidentali. La libera circolazione delle merci e dei capitali ha posto a confronto il prezzo del lavoro e delle merci in Europa con quello, più basso, dei paesi emergenti. Ne è conseguito un progressivo spostamento della produzione industriale verso i paesi asiatici, che ha prodotto nella nostra società una riduzione dell’occupazione, sia per alcuni lavoratori anziani (disoccupati) che per tantissimi giovani in cerca di primo impiego (inoccupati).
Nella vecchia Europa, in conseguenza di ciò, si è venuta a creare una profonda spaccatura fra tre categorie:
1) industriali e commercianti che, sfruttando le opportunità offerte dal mercato internazionale, hanno notevolmente incrementato i loro redditi;
2) lavoratori dipendenti attivi che, pur subendo una riduzione del potere di acquisto, mantengono un livello di vita che, almeno per ora, consente di far fronte alle esigenze quotidiane;
3) lavoratori dipendenti licenziati e giovani in cerca di prima occupazione, che vivono oggi ai margini della società e, per un futuro abbastanza prossimo, corrono il rischio di scivolare nelle attività illecite o verso forme di protesta violenta.

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Sull’analisi della situazione c’è grosso modo un certo accordo. Mancano però i rimedi, e comunque quelli finora timidamente proposti non hanno dato risultati apprezzabili, perché confidano in una teoria priva di fondamenti. Si presuppone che, abbandonando i settori produttivi a basso valore aggiunto a favore dei paesi emergenti e puntando su quelli ad elevata tecnologia, i paesi europei possano ritrovare un soddisfacente equilibrio. Questo presupposto è purtroppo errato perché nei paesi emergenti, come già accadde in Europa nel dopoguerra, allo sviluppo economico si accompagna anche una generale crescita culturale e in particolare una crescita delle competenze nei settori tecnologici. Questo fa sì che, finché ci sarà libero scambio, la torta da dividere in Europa avrà sempre le stesse dimensioni o addirittura andrà a rimpicciolirsi.
Ma esistono terapie d’urto, capaci di fronteggiare questa grave crisi del Vecchio Continente?

La prima possibilità è quella di tentare di correggere il corso della storia degli ultimi venti anni, nel senso di mantenere un’area di libero scambio in ambito europeo e reintrodurre però alcuni vincoli negli scambi con i paesi in via di sviluppo. A livello politico questa sembra un’idea perdente, perché ad essa si oppongono le imprese esportatrici e quelle che hanno approfittato della de-localizzazione della produzione per ridurre i costi; si oppongono i consumatori che trovano sul mercato merci a prezzi più convenienti; si oppongono, infine, i partiti e i sindacati di riferimento dei lavoratori, per motivi di solidarietà con i paesi emergenti. Questi ultimi sbagliano, perché i mercati dell’est (Cina, India e Indocina) hanno ormai raggiunto un livello produttivo capace di autoalimentarsi ed hanno un potenziale mercato interno costituito da miliardi di consumatori. In fondo il boom economico europeo degli anni Cinquanta e Sessanta si è realizzato tutto nell’ambito del mercato interno: perché non dovrebbe verificarsi la stessa cosa nei paesi dell’est?

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Se la ricetta delle barriere doganali dovesse continuare a risultare una carta politicamente perdente, allora, volenti o nolenti, per fronteggiare il problema occupazionale, non resta che ricorrere a una redistribuzione del reddito, purtroppo dolorosa per quasi tutte le componenti del sistema produttivo.
La prima categoria che dovrebbe contribuire sarebbe quella degli imprenditori: il fatto che in Italia essi partecipino al gettito fiscale solo in misura del 5% significa che c’è una vastissima evasione.
E’ vero che finora nessuno è riuscito a farla emergere e tutti i governi hanno fatto fiasco. Tuttavia è da rilevare come tutti abbiano agito ignorando una regola fondamentale dell’economia aziendale, e cioè che “il reddito è la doppia risultanza del confronto fra costi e ricavi e del confronto fra capitale iniziale e finale”. Finora l’accertamento è stato fatto solo e sempre col primo criterio, che, attraverso il sistematico occultamento dei ricavi e la manipolazione contabile dei costi, consente alle imprese di comprimere in misura consistente il reddito assoggettabile ad imposta.
Intrecciando però i dati contabili sul reddito delle imprese con le variazioni del “patrimonio familiare” degli imprenditori, non dovrebbe essere troppo difficile rilevare le incongruenze più macroscopiche. Quando in una famiglia si acquistano immobili o titoli per un importo cospicuo, è necessario che si verifichi una di queste condizioni:
- che vi sia il corrispondente beneficio di un’eredità o di una donazione;
- che il reddito annuo dichiarato sia tale da consentire una adeguata capacità di risparmio;
- che ci sia stata l’accensione di un mutuo o comunque l’apertura di una linea di credito.
Se non si verifica nessuna di queste tre condizioni, vuol dire che c’è evasione oppure che l’incremento patrimoniale è frutto di attività illecite.

La seconda categoria che dovrebbe accettare un sacrificio sarebbe quella dei lavoratori che oggi hanno la fortuna (!) di avere un’occupazione. Per essi si dovrebbe, a livello legislativo, imporre una riduzione dell’orario di lavoro e, purtroppo, una corrispondentemente riduzione del salario. Se per 20 milioni di lavoratori attivi l’orario di lavoro si riducesse di un 5%, le imprese, per mantenere invariato il livello produttivo, dovrebbero assumere circa un milioni di giovani.
Naturalmente, se un tale sacrificio fosse imposto tramite provvedimento legislativo ai lavoratori occupati, per un principio di equità un qualche sacrificio dovrebbe essere sopportato anche dai pensionati.

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E’ ovvio che, oltre a tutto ciò, andrebbero curate anche alcune piaghe endemiche, specifiche del sistema italiano: le false pensioni di invalidità, l’assenteismo e i casi di doppio lavoro. 1) Per le pensioni di invalidità occorre una normativa rigorosa sulle procedure di concessione e sulle verifiche da parte del personale medico. Inutile parlare impropriamente di ammortizzatori sociali: i riconoscimenti di invalidità pilotati da rapporti politici o amicali vanno combattuti mediante pene e sanzioni disciplinari con forti capacità di dissuasione. 2) Per l’assenteismo la ricetta è più semplice: il 50% della paga giornaliera dovrebbe essere costituito da un’indennità di presenza; nei giorni di assenza, niente certificato medico e visite fiscali: basta il salario dimezzato. 3) In quanto al doppio lavoro, soprattutto nella Pubblica Amministrazione esso crea problemi organizzativi e di efficienza e, in ogni caso, costituisce la più palese ingiustizia nei confronti dei giovani che, ancora a trent’anni, non ne hanno nessuno. A ciò si aggiungono gli effetti iniqui di una pratica diffusa nell’amministrazione pubblica (enti locali, magistratura, aziende sanitarie ecc.): quella di affidare lavori esterni (perizie, difesa d’ufficio, consulenze, revisione dei bilanci, opere pubbliche ecc.) ai vecchi professionisti che già vantano una buona fetta del mercato privato, anziché a quelli giovani, i quali vedono così occuparsi tutti gli spazi di lavoro.
Un’altra grossa anomalia è costituita dai posti creati ad hoc in epoca democristiana: ho visto uffici pubblici in cui erano sufficienti cinque dipendenti, a cui se ne aggiungevano però altri cinque pagati per non fare nulla. E’ zavorra economica ereditata dai tempi delle vacche grasse, ma è difficile porvi rimedio mettendo sulla strada i cinque in esubero, soprattutto se devono mantenere una famiglia. Quella degli impiegati “pagati per reggere i muri” è comunque una razza in via di estinzione, della quale non resta che incaricare il tempo.

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In sintesi. Gli introiti per la lotta all’evasione, basata sull’analisi degli incrementi patrimoniali, ed i risparmi per la lotta alle false invalidità e all’assenteismo potrebbero mettere lo Stato in condizione di finanziare la ricerca e di ridisegnare completamente la mappa delle infrastrutture nazionali, le cui carenze sono, in alcune zone, la principale causa dell’insufficiente sviluppo economico. La riduzione dell’orario settimanale di lavoro, il divieto di doppio lavoro e un più frequente affidamento di incarichi professionali ai giovani s’incaricherebbero d’altra parte, come già detto, di immettere nel sistema produttivo una ormai gigantesca ed esplosiva massa di inoccupati, parcheggiati troppo a lungo nelle famiglie e cinicamente privati di proiezioni temporali.
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