sabato 12 gennaio 2013

Pasquale Saraceno, “Controcorrente”, Rossano, 2010


Brevi cenni biografici sull’autore riportati nelle alette e in quarta di copertina delle sue pubblicazioni.

Pasquale Saraceno, professore emerito e scrittore, proviene da un Casato presente a Rossano Calabro da ben 600 anni.
Dedica il suo tempo allo studio di saggi per trovarvi una risposta ai problemi di vario genere che lo assillano.
"Vive nascostamente", secondo il precetto di Epicuro, il grande saggio dell'antichità ingiustamente denigrato.
La critica è stata con lui piuttosto benevola, tanto che il sociologo Cataldo Marino ha potuto scrivere: "Il Prof. Pasquale Saraceno ai Rossanesi della mia generazione ha trasmesso l'amore per la cultura ed a tutti i concittadini ha fornito, col suo sobrio stile di vita, un nobile modello di riferimento".
In tutti i suoi libri è presente un forte anelito di un mondo migliore, che, secondo l’autore, solo le neuro-scienze possono realizzare quando riusciranno a trovare nella scatola cranica la fonte dell'egoismo ed, agendo su di essa, permetteranno agli uomini di amarsi come ai tempi del mitico Eden.

Opere pubblicate:

- "Un angelo di nome Lucia", ritratto-ricordo dell'adorata moglie scomparsa nel 1992, pubblicato a dicembre 1992, pagg. 142;
- "Riflessioni senilamare di un Rossanese", su problemi locali e non, pubblicato a luglio 1995, pagg. 277;
- "L'incolpevole", storia di una popolana bersagliata dalla sfortuna, pubblicato a luglio 1997, pagg. 295;
- "L'inganno", il Mostro presente in ogni ambito sociale, pubblicato a gennaio 2008, pagg. 303;
- "Controcorrente", mette in evidenza la credulità umana nel campo politico, etico e religioso, pubblicato a giugno 2010, pagg. 263.

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Dal libro “Controcorrente”
La fede consolatoria, cap. XXVI, pagg. 246-251

Tutti i popoli e tutti gli esseri umani hanno sempre cercato di evadere dalla realtà creando miti in grado di soddisfare il loro desiderio di sopravvivenza. Gli antichi egizi, i greci, i romani, per non parlare degli indiani e dei cinesi, hanno immaginato un futuro roseo riservato agli onesti, categoria a cui anche i furfanti credono di appartenere. Nessun individuo, infatti, si ritiene non degno di essere premiato: si aspira ad un compenso per i dolori sopportati nel corso della vita, ad un paradiso fatto di eterno godimento. Del resto, sognare non costa niente. Perfino la scrofa macilenta sogna le ghiande. Il giovinetto imberbe sogna una bella fanciulla, il povero la ricchezza, l'ammalato la salute, lo storpio un corpo perfetto, la donna brutta l'amore eterno, il generale la gloria, il sacerdote la porpora, la suora la santità. Io ogni giorno vagheggio una comunità di eguali, la messa al bando delle armi, la comprensione e l'amore tra i popoli, una società senza medici e senza giudici, una natura incontaminata. Vedo il lupo accompagnarsi con l'agnello, il gatto giocherellare col topo, il leone con la gazzella, la volpe con la cicogna. Vedo il bianco familiarizzare col nero, il cristiano col buddhista, il nobile col plebeo. Confesso che mi abbandono per ore a tali fantasie. Sul più bello però la ragione si sveglia e mi dice: Dio aveva il potere di creare questi legami tra le sue creature, perché non lo ha fatto? Per una parte almeno del creato non possiamo ricorrere alla giustificazione del peccato originale. Chi allora se non Dio avrebbe dato agli animali l'istinto di sbranarsi a vicenda? È assurdo però pensare che l'Essere supremo, bontà assoluta, abbia potuto determinare una situazione di perenne conflitto, che vede soccombere sempre il più debole. È molto più ragionevole, lo abbiamo messo già in evidenza, accettare la dottrina dell'evoluzionismo, che giustifica la ferocia con la necessità della sopravvivenza. Forse la pensava così anche San Francesco, che amava tanto gli animali e certo non se la sentiva di attribuire al Creatore la paternità di quell'istinto così ripugnante.
Abbandoniamoci allora al sogno, rifugiamoci in un mondo meraviglioso. Mi viene in mente una canzone di Rascel, il piccoletto, il quale cantava che con la fantasia si può ottenere tutto, anche l'intimità con la regina Elisabetta d'Inghilterra. Ma ne vale la pena?
C'è chi non sogna perché ha tutto e s'illude di essere un superuomo. Uno è il nostro caro, ineffabile Berlusconi. Che Iddio ce lo conservi a lungo! Ha perfino innumerevoli escort che allietano i suoi momenti di riposo, oltre naturalmente alla certezza di essere il miglior leader italiano di tutti i tempi. Dimenticavo: cosa sogna il Papa? Il potere, un potere assoluto, politico soprattutto, che gli consenta di guidare verso il bene, il suo bene, questa umanità smarrita.
Abbiamo già notato che le Sacre Scritture non sono esenti da contraddizioni e falsità. Ciò nonostante, su di esse si è modellata la civiltà dell'Occidente. È naturale il bisogno di credere in qualcosa che appaghi il desiderio di un antidoto alla durezza, alle ingiustizie, in una parola al male della vita. Si crede senza riflettere, soprattutto se si cresce in un ambiente dove la fede è patrimonio comune. A che serve ragionare, se la fede rappresenta un'immensa consolazione? Certo, i padri nobili della Chiesa hanno saputo creare un imponente e organico sistema, una teologia che hanno elevata al rango di vera scienza, ritenendo quella profana serva della teologia. Il merito di questa elaborazione va soprattutto alla filosofia scolastica e a San Tommaso in particolare, quello stesso che riteneva lecito uccidere un infedele. Si sa comunque che la teologia non nasce con la filosofia scolastica, ma prima, col vangelo di Giovanni, che parla del Figlio, del Verbo, parola creatrice di Dio. Nasce con le lettere di Paolo, con la Patristica, e si consolida dopo con gli studi di eminenti pensatori. Al centro di questo immane lavoro c'è la figura di Cristo, che è un personaggio gigantesco, un mito, opera dei discepoli, ammaliati certo dal suo carisma. Non conosceremo mai il Gesù storico. Lo abbiamo detto, e non è neanche necessario. E' quello dei vangeli che conduce ad una nuova forma di esistenza, come sostiene il teologo protestante Paul Tillach, che considera Gesù un simbolo. I vangeli non sono resoconti biografici, ma scritti teologici che esaltano il Cristo della fede. In altri termini, il cristianesimo non si fonda su prove storiche, sulle reali esperienze di Gesù, che non sono dimostrabili, ma sul suo messaggio. È questo che ha trasformato il mondo, non le elucubrazioni di quanti hanno creato una teologia che ha dato sì alla Chiesa un enorme potere, anche politico, ma l'ha allontanata dal cristianesimo delle origini a causa di concezioni arbitrarie contrastanti col pensiero e con l'azione di Gesù. Ciò non ha impedito alla Chiesa romana di estendere il suo dominio, perché i fedeli accettano acriticamente ciò che la Suprema Autorità stabilisce di volta in volta. Il corpo della Madonna si trova in Cielo, Dio è uno e trino, Cristo è uomo e Dio? Il cristiano non ha dubbi, perché lo ha stabilito il Papa, che è infallibile per autoproclamazione. Accetta tutto, e in compenso gli viene assicurata la sopravvivenza. Ci sono però degli individui che non sono disposti a chiudere gli occhi di fronte a certe assurdità. Se Gesù stesso si manifesta come uomo, perché considerarlo anche Dio? Chi prega Dio non è Dio. Chi sulla croce si lamenta di essere abbandonato da Dio non è Dio. È bene ribadire questo concetto già espresso nel capitolo precedente.
Queste riflessioni sono proprie di chi è dotato di senso critico, ma il fedele di modesta levatura mentale non avverte la necessità di fare chiarezza. Ed è forse meglio, perché, in assenza di dubbi, si ha una vita meno travagliata.
Nel Settecento, il secolo dei lumi, si pensava che la ragione potesse risolvere tutti i problemi dell'uomo. C'è chi sostiene ch'essa non ne ha risolto neanche uno. Abbandoniamoci dunque al sentimento e andiamo "dove ci porta il cuore". Siamo entusiasti del personaggio Gesù, quello dei vangeli? Ebbene, amiamolo, cerchiamo di attuare il suo messaggio, e forse saremo più sereni o, addirittura, felici.
Non si può negare che nel corso dei secoli la religione - ogni religione - abbia esercitato una funzione benefica, mitigando, i costumi e cercando di impedire la lotta di tutti contro tutti. Senza il suo influsso forse non ci sarebbe strato neanche il "Contratto sociale", l'impegno alla non belligeranza, al rispetto reciproco, dettato certo dall'interesse di ogni membro della comunità a sentirsi tutelato.
Gli uomini, in generale, si distinguono in due categorie. I conformisti sono quelli che, arruolati sotto una bandiera ideologica, la difendono, anche a costo di negare la realtà dei fatti. Gli "irregolari " - come li chiama Pierluigi Battista - sono quelli che privilegiano la ricerca della verità. Da una parte c'è dunque chi cerca la verità, dall'altra chi la ignora o la occulta per favorire la propria bandiera. Lasciamo ora da parte il campo politico a cui si riferisce Battista ed entriamo in quello religioso, dove notiamo una terza categoria di persone, gli indifferenti, i quali stanno a guardare senza scomporsi. In Italia è la più numerosa, dato che riguarda l'80 per cento dei cittadini. È amaro constatarlo. A volte l'indifferenza è dovuta a scarsa capacità mentale, quasi sempre a mancanza di interesse. Questa gente non merita infamia né lode e va lasciata vivere nella sua condizione quasi animalesca. Destano raccapriccio invece i conformisti, che sputano giudizi sprezzanti nei confronti di chi rifiuta le leggende e cerca la verità. Onore a quanti, allergici ad inutili quanto infondate disquisizioni teologiche, hanno capito che amare Dio significa amare il prossimo. È proprio questa la missione del cristiano. Si badi bene, amare il prossimo non significa esprimergli affetto a parole, ma aiutarlo, andare incontro ai suoi bisogni. Non c'è solo il problema dell'aldilà. Bisogna anche evitare che ci colga la disperazione, sempre possibile in questa "valle di lacrime".
Mi torna in mente - è non è la prima volta - madre Teresa di Calcutta, che, nella sua benefica ignoranza, badava, non a questioni di dottrina, ma ad alleviare sofferenze, a consolare afflitti. È un gran male che il suo resti un caso isolato. La donna sapeva benissimo che esiste un solo comandamento, quello dell'amore, da cui discendono tutti i doveri di un cristiano.
C'è tanto bisogno di comprensione, di amore. Non è solo la natura con i suoi ricorrenti cataclismi a sconvolgere la vita dell'uomo. Dobbiamo mettere in conto anche le malattie, la miseria, la fame. Non è proprio possibile essere ottimisti. I giovani, nella loro beata incoscienza forse lo sono, anche perché si sentono protetti dai genitori. Andando avanti negli anni, ci si rende conto che la gioia è solo una breve parentesi tra due dolori. Che fare? Abbandonarsi allo sconforto? No, assolutamente. Bisogna trovare la forza di reagire affidandosi all'illusione, al sogno. A me personalmente sono di grande sollievo alcuni versi del Pascoli, che leggo molto spesso. Come si sa, il poeta ebbe un'esistenza molto travagliata ed era anche pensoso dei misteri che ci circondano. Ciò nonostante, la sua poesia come nessun'altra ha il potere di farci sognare. Una meraviglia è "La mia sera", contenuta nei "Canti di Castelvecchio". Ascoltiamo:

"II giorno fu pieno di lampi,
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle..............
..................................
Nel giorno che lampi! Che scoppi!
..........................che pace la sera!
La nube del giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
                  nell'ultima sera".

Sogniamo, illudiamoci. Immaginiamo che alla fine della vita ci sarà una ricompensa per i giusti, e intanto cerchiamo di praticare la giustizia. Questo è necessario: ce lo impone la ragione. Eppure, nella cristianissima Italia i reati, nell'ultimo anno, sono aumentati, rispetto al precedente, del 229%. Non so proprio cosa pensare. L'egoismo, la sete di ricchezza nel XXI secolo sono cosi grandi che il freno della religione non è più in grado di ridurli. E "il Cielo inonda di un pianto di stelle quest'atomo opaco del male", la Terra cioè.
Chiudiamo ancora una volta gli occhi e sogniamo una società perfetta, oltre che una vita eterna. Saremo certamente più sereni, perché il sogno è la panacea di tutti i mali. Amen!


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“Controcorrente”: Un libro spirituale
Recensione dell’ultimo libro del Prof. Pasquale Saraceno
di Gianpiero Calabrò

Colui che si accinge a leggere il libro del Prof. Saraceno, “Controcorrente”, incorre facilmente nell'inganno di trovarsi di fronte ad un saggio, o pamphlet anticlericale o addirittura veterocomunista, con ascendenze anarchiche. L'A. in realtà, con gusto ironico, utilizzando alcuni scherzi retorici, lascia credere tutto ciò, per poi scioccare l'incauto lettore, che all'ultima pagina trova la confessione con cui l'A. si rivolge al Signore con queste parole: “Signore, la mente, la mia mente – questa povera mente – stanca e limitata – non ti riconosce. – Ma il cuore – il mio cuore – questo cuore – di eterno bambino – a Te anela – in Te s’accheta – solo in Te.”
E qui l’incauto lettore deve andare a ritroso per potere comprendere a pieno tutte le pagine precedenti. “Controcorrente” è un libro spirituale, un canto fatto con la ragione che nello svelare i tanti limiti e le ipocrisie di ieri e di oggi, emana poi un anelito, un bisogno di acquietarsi, come un bambino, nelle braccia del Signore.
Il volume, che per chi è stato suo alunno nei banchi del Liceo, fa risentire la voce severa dell’antico maestro, ravvivando così antiche ed intense atmosfere, si suddivide in dieci parti. La suddivisione ha una ragione sostanziale, perché rappresenta non un elemento storicistico e quindi cronologico, ma una specie di ascesa in cui il lettore è trascinato fino all’ultimo gradino, ove il velo dell’inganno viene strappato, per cogliere il vero (aleteia) nella sua essenza nuda e priva delle incrostazioni di cui le culture e il potere politico e religioso lo hanno impregnato.
La prima parte si apre con il caso di Eluana Englaro e quindi con il tema dell’eutanasia, in cui l’A. denuncia non solo l’accanimento terapeutico, le ipocrisie e le violenze di uomini politici e di Chiesa, ma, si sofferma sulla caducità della vita e sul desiderio di una fine indolore e serena. La prima parte si chiude, così, con la critica alla invadenza della gerarchia ecclesiastica, che scende in campo in politica e si compromette con i ricchi e i potenti. Tutto ciò lo porta alla riflessione evangelica, secondo la quale Gesù tutto perdonava ai poveri e nulla ai ricchi, “... che entreranno in paradiso meno facilmente di un cammello desideroso di attraversare la cruna di un ago.”
Nei capitoli immediatamente successivi alla condanna di ogni stupidità e superstizione, segue l’esaltazione dell’intelligenza, intesa come uso ragionevole della ratio. Un afflato, questo, che sembra di sapore illuministico. Anche se privato degli impeti rivoluzionari e degli eccessi giacobini. Vi predomina, semmai, l’atmosfera di un secolo dei lumi di un Voltaire, piuttosto che quello di Rousseau, un razionalismo lieve e leggero, che si guarda persino dal cadere nell’errore di assolutizzare se stesso. Con questo strumentario ermeneutico, il Prof. Saraceno (non riesco a dimenticare il ruolo da lui avuto sulla mia formazione, essendogli cucito con il crisma sacramentale) esamina e, con amara ironia, demolisce alcuni episodi recenti e passati di credulità e superstizione. Con la lama di un affilato rasoio di Occam, sfronda quelle che, marxianamente, venivano chiamate sovrastrutture. Da ciò la disamina delle aberrazioni di cui si sono macchiati gli integralismi religiosi con i loro effetti nefasti, che hanno prodotto complessi di colpa in intere generazioni, o guerre fratricide che hanno insanguinato le strade della stessa civilissima Europa. Nelle ultime parti l’occhio dell A. si fissa sui tempi di oggi, sulla politica spettacolo e corrotta, sul governo della Chiesa cattolica dopo Giovanni Paolo II, e, di fronte ad uno spettacolo così desolante, riesce a cogliere, tra le tenebre, qualche barlume. Da qui I’ultimo capitolo che, molto opportunamente, viene intitolato l’ “approdo”.
Ricordando la figura leopardiana del venditore di almanacchi, le pagine si riempiono di rimpianti e speranze, anzi in queste ultime la speranza in un tempo migliore, che superi le tragedie prodotte dalla superstizione e dall'ignoranza, diventa predominante e la stessa critica mossa al clero cattolico, viene condotta in nome di un autentico cristianesimo delle origini, in cui si staglia la figura di Cristo, in realtà tradito dai suoi stessi seguaci. Le riflessioni sulla vita e sulla morte, il lamento infinito sulle pene del mondo non devono far credere che l'unica via, l'unico fatale esito siano lo sconforto e la disperazione. C'è ancora una via d’uscita, una via che l'A. indica nella "poesia", e qui scopre tutta la sua umanità ritornando all'antica veste di docente. Infatti scrive: "Bisogna trovare la forza di reagire affidandosi all'illusione, al sogno". La poesia, forza vitale, è capace di cancellare il nero della storia umana e, nello stesso tempo, dare conforto. Un conforto che non può essere inteso, però, in modo meramente consolatorio, come l'atteggiamento di chi, di fronte al male e alle grandi tragedie dell'esistenza, si nasconde, per timore di guardare in faccia la realtà. L'illusione, il sogno di cui scrive Saraceno, è la capacità, (oserei dire rivoluzionaria) dell'homo novus, che, ormai libero dall'ignoranza e dalla superstizione, è consapevole della caducità della vita e guarda con serenità e pace al suo inevitabile compimento. E, in queste pagine finali del libro, fanno capolino i versi de “La mia sera” di Giovanni Pascoli, un poeta che il Prof. Saraceno mi ha fatto amare sui banchi del Liceo. La poesia del Pascoli, scrive l'A., ha il potere di farci sognare. La sobrietà, l'antiretorica, propria della poesia pascoliana, contraddistinguono così tutte le pagine di questo saggio. Si è detto all’inizio che si tratta di un viaggio, di un lungo viaggio attraverso la storia di ieri e di oggi, alla ricerca della verità. Ma qui occorre che il lettore sia molto accorto: la verità per l'A. è un processo di s-velamento, un togliere i veli che ammantano la realtà, alla maniera della filosofia presocratica. L'analisi critica, feroce e a volte sarcastica, non gli serve per demolire e guardare, poi, compiaciuto le macerie prodotte. In realtà, con l'arma affilata della sua critica, egli riesce, comunque, nel buio della notte, ad accendere una pur flebile luce, che possa dare speranza ed indicare il cammino. E, infatti, il suo impegno pedagogico in tutte queste pagine non viene mai meno. Nel lettore egli rivede, così, i suoi studenti, e ancora una volta parla loro con il cuore in mano, con lo stile asciutto e privo di enfasi, con la lucidità di chi ha sempre avuto sete di conoscere e di chi ha creduto nella forza e nella capacità della ragione. Non a caso, nell'accomiatarsi dai suoi lettori, confessa che il suo "...idolo resta, comunque, Gesù, incompreso dai più e tradito da molti". Una confessione, questa, che, come ho detto all'inizio, trasfigura le pagine di questo bel saggio, che giunte a questo punto, trasudano di quella intensa spiritualità, che rasserenando prepara il momento (che ci auguriamo sia sempre più lontano!) del commiato.

Gianpiero Calabrò
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