venerdì 24 agosto 2012

Filmdarivedere: "Mac" di J. Turturro (1992)



- "Le vedi le rrifiniture?"
- "Si"
- "Quella è cura. E’ qualcuno che non tira via. Si vede che l’hanno fatta con calma. Quella, l’ho costruita io. L’abbiamo costruita noi, io e i miei fratelli. Dalle fondamenta. In passato quando esisteva l’artigianato era così che bisognava essere, no come oggi. Oggi è quello che sa parlare che è rrispettato, mentre prima era chi sapeva fare. Altro che chiacchiere, doveva davvero saper fare. E’ quello, che era rispettato. La bellezza è saper fare. E… farlo. Una volta che raggiungi il tuo scopo, è bello, è piacevole. Ma… quello che conta è fare."

(Mentre il papà e il figlio si allontanano dalla casetta che stavano osservando, scorrono i titoli di coda: “In memoria di Nicholas R. Turturro”)

Qualche anno fa, nostalgico di alcuni film che negli anni ’60 avevo visto nelle sale cinematografiche, cercai col computer alcuni di quei gioielli ormai quasi introvabili sul mercato: Le piace Brahms?, Il processo, La valle dell’Eden, I basilischi, Playtime, La strana coppia, Lo spaccone, Il maestro di Vigevano ecc.. Li incisi su dvd, numerandoli ordinatamente. Fra essi, quello che porta il numero ‘1’ non è però un film degli anni ’60, ma uno del 1992. L’avevo visto da poco in tv e mi era piaciuto così tanto che volli anteporlo a tutti. Non credo che abbia maggiore valore degli altri - infatti è un film ormai quasi dimenticato - però doveva aver colpito qualche parte della mia anima, ed è per questo che provo a ripensarlo e parlarne.

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Che cosa è il lavoro? Gli economisti lo definiscono un ‘sacrificio’ a cui ci si sottopone per ottenere ciò che è necessario e ciò che desideriamo, e… non si può negare che in questo caso una contropartita è indispensabile. Conosco tante persone che provano piacere nel far dono di qualcosa agli altri, ma non conosco nessuno che lavori cinque o dieci ore al giorno senza ricevere nulla in cambio.
Eppure il lavoro non è solo questo. Lavorando dimostriamo, anche a noi stessi, che ‘sappiamo fare’ una certa cosa e che ‘la sappiamo fare bene’. Non è necessario primeggiare, l’importante è essere coinvolti - in quell’attività che abbiamo scelto o che il mercato ci ha offerto - con tutte le nostre energie, la passione, l’intelligenza, la pazienza, la capacità di resistere agli insuccessi e di non dormire sui successi.
Al di là di questi aspetti morali, c’è da aggiungerne uno psicologico: se per tutte le ore della giornata non avessimo alcun impegno lavorativo, ci annoieremmo a morte e rinunceremmo ad una certa forma di piacere. Nel Fedone Socrate dice che il piacere è cessazione del dolore: nella calma attesa dell’esecuzione della pena, la sua caviglia era stata legata a un ceppo e, quando la guardia gliela liberò, disse che quello era un momento di piacere. Riporto le poche righe con cui si racconta l’episodio:

Socrate si mise seduto sulla branda, fletté la gamba e cominciò a massaggiarla col palmo della mano. Sfregava e intanto parlava: «Che cosa stravagante, ragazzi, quello che la gente chiama benessere: e che sorprendente intreccio ha, radicato in sé, col suo supposto naturale contrario, il dolore! Il fatto è che quei due, insieme, non ci stanno a convivere nell'uomo. Ma se per caso uno dà la caccia al primo e l'acciuffa, è costretto a prendersi anche il secondo, come se fossero sì due, ma incollati ad una testa sola. Sono sicuro» proseguì «che se Esopo avesse avuto l'intuizione, componeva una storia: c'era il solito dio che volendo far fare la pace a due eterni nemici, visto che non ci riusciva, saldò le loro due in una testa unica, e per questo motivo se il primo si presenta a uno, subito anche il secondo tiene dietro. È quanto succede anche a me. Siccome nella mia gamba c'era la sofferenza, per via del ceppo, sento che adesso arriva il benessere, suo seguace» (Platone:“Fedone”, cap. III).

Non voglio indugiare sull’argomento del lavoro anche con l’arcinoto motto che lega l’ozio ed i vizi: i familiari più prossimi spesso mi rimproverano puntigliosamente di ricadere nella banalità. Ma io rispondo che, ogni tanto, alle banalità bisogna dare una rispolverata perché, se da ciò che sappiamo eliminiamo tutte le banalità, rischiamo di diventare preda dell’irrazionalità. La ‘originalità’ a tutti i costi è altrettanto pericolosa della ‘ovvietà’ a tutti i costi.

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Mac, il film che John Turturro ha dedicato a suo padre Nicholas e che oggi propongo agli amici del blog, evidenzia bene il tema del lavoro: è bello fare, fare bene, fare con calma, fare scrupolosamente.
Mac e i suoi fratelli fanno lo stesso mestiere del padre, sono dei carpentieri. Quando il padre muore, i tre si accostano alla salma e, a un certo punto, sembra loro che egli riapra gli occhi e parli: “Chi è che ha fatto questa bara? Non è un ‘vero’ falegname, è un ciabattino. Ricordatevi: ci sono due modi di fare una cosa, il modo giusto e il modo mio… E tutt’e due sono la stessa cosa”.
Il padre è un siciliano emigrato in America e con sé non ha portato la morale mafiosa, ma quella del lavoratore preciso e instancabile, e questa morale l’ha trasmessa a Mac, mentre per gli altri due fratelli il lavoro resta un peso a cui dedicare il tempo indispensabile per vivere.
I tre lavorano alle dipendenze di un imprenditore di origine polacca il quale, per risparmiare nella costruzione dell’intelaiatura in legno, vuole che i pali siano messi a distanza di 60 centimetri. Mac però non è d’accordo: affinchè un’abitazione sia solida, i pali devono avere una distanza di 40 centimetri.
Quel polacco ammette di ‘imbrogliare’, la sua filosofia è ormai quella di tutti i costruttori: guadagnare senza badare ai pericoli che corrono gli operai o le persone che poi andranno ad abitare in quelle case. Ma Mac non scende a compromessi e sfascia con rabbia l’intelaiatura appena ultimata, pur sapendo che lui e gli altri lavoratori saranno per questo licenziati.
Si metterà a costruire in proprio. Comprerà un terreno e vi costruirà quattro villette col giardino intorno. Sono casette fatte secondo i suoi criteri, ma la vendita è difficile perché poco più in là c’è un allevamento di mucche dal quale arriva cattivo odore, e poi perché il polacco, che costruisce anche lui lì vicino, con l’inganno gli sottrae i compratori. A queste difficoltà si aggiungono i contrasti con i fratelli che, non sopportando più il suo esagerato attaccamento al lavoro, pretendono la loro parte e lo lasciano solo.
Mac riuscirà alla fine a vendere le quattro villette, ma i tempi cambieranno – siamo agli inizi degli anni ’50 – e l’edilizia non sarà più opera di bravi artigiani, ma di grandi imprese. Lui non costruirà più, ma passando col figlio davanti alle sue costruzioni si ferma, e gli dice le parole che ho riportato all’inizio. Un piccolo testamento morale, che sta allo spettatore del film saper cogliere, o rigettare.
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Film vincitore della ‘Caméra d'or’ per la migliore opera prima al 45º Festival di Cannes. Interpreti: John Turturro (Mac), Carl Capotorto e Michael Badalucco (i due fratelli), Katherine Borowitz (la moglie), Olek Krupa (l’imprenditore), Ellen Barkin (una modella). Regia di John Turturro.

Cataldo Marino
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