martedì 22 maggio 2012

Ralph Dahrendorf, “Homo sociologicus”: rilettura di alcune pagine di sociologia

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Le scienze sociali - che nel secolo scorso in tutto il mondo occidentale hanno apportato un notevole progresso nella comprensione del comportamento degli individui, dei gruppi sociali e dei fenomeni di massa - vivono da qualche decennio una fase di stallo. Alcuni politici hanno di volta in volta cercato di appoggiarsi ad esse ma, quando hanno cominciato a temerne una intollerabile intrusione, hanno sempre finito per osteggiarle. D’altro canto l’utilizzo improprio dei media da parte di molti “divulgatori” di queste discipline ne ha ingiustamente ridotto la portata culturale, creando una diffusa sensazione della loro inutilità.
Non pochi sono però gli studiosi che nel passato avevano dato contributi culturali di grande rilievo, frutto di faticose ricerche e di seri tentativi di sistematizzazione. E’ per questo che ravvedo una certa utilità nel proporre sul blog l’esposizione o la rielaborazione di alcuni dei concetti più significativi di queste discipline. Se la sociologia rischia da alcuni decenni di essere banalizzata attraverso alcune improvvisazioni giornalistiche o dalle chiacchiere dei salotti televisivi, forse non sarà inutile rispolverare il contributo di pensatori come Marx, Durkheim, Pareto, Weber, Parsons o Dahrendorf, che ad essa hanno dedicato la vita, e di ricordare come anche in Italia abbiamo avuto studiosi di un certo livello. Fra questi voglio ricordare un uomo di grande stile ed intelligenza, il prof. Franco Ferrarotti, che primo fra tutti dagli anni Cinquanta ha dato e dà dignità a queste discipline, ed un docente universitario ingenerosamente ignorato dal web, il prof. Giorgio Braga, che negli anni Sessanta, in tre piccoli Quaderni dell’Istituto Superiore di Scienze sociali di Trento, era riuscito a compendiare magistralmente tutto ciò che poteva servire ai suoi giovani allievi per innamorarsi della sociologia e portare avanti la ricerca.
Il concetto di “ruolo sociale” qui di seguito riportato è una libera rielaborazione del secondo capitolo del saggio “Homo sociologicus” di Ralph Dahrendorf (1929-2009).
Il testo citato è rintracciabile alla pagina web
Il paradosso del "tavolo della fisica".

I concetti di cui si avvale la scienza sono il più delle volte molto distanti dall’esperienza comune. L’atomo, ad esempio, nessuno l’ha mai visto e nessuno potrebbe mai assicurare che corrisponda esattamente all’immagine che ne danno i libri di fisica. Eppure su questa struttura immaginaria si sono costruite molecole vere, utilizzate poi nell’industria per fabbricare materiali prima sconosciuti.
Per esprimere la distanza fra il concetto scientifico di atomo e la realtà comunemente percepita, Ralph Dahrendorf (1929-2009) usa il paradosso del "tavolo della fisica”: per tutti un tavolo è solo un ripiano sostenuto da tre o più assi di legno che poggiano su una superficie solida, mentre per il fisico esso è anche un oggetto scomponibile in parti infinitesimali, invisibili non solo all’occhio ma anche al microscopio. All’uomo comune questa prospettiva sembra del tutto superflua, ma nella vita quotidiana egli stesso ne utilizza i risultati. Oggetti di plastica, automobili o strumenti elettronici non riempirebbero ora le case e le strade, senza il ricorso all’idea che ci si è fatta delle ‘sostanze ultime’ di cui è composto l’universo.
Il metodo di ricorrere ad una “costruzione ipotetica” (‘supponiamo che sia così e verifichiamo se i risultati ci danno ragione’) per spiegare ed eventualmente modificare il mondo fisico può valere anche per comprendere in una certa misura il comportamento umano: tanto quello individuale quanto quello dei gruppi sociali ristretti (famiglia, scolaresca, azienda) o di un’intera collettività. Il concetto più importante finora raggiunto, in questo campo e a questi scopi, è quello di ‘ruolo sociale’.

Le norme sociali.

Quando un bambino nasce, avverte solo i bisogni più elementari e, fra gli altri, il bisogno di protezione affettuosa da parte degli adulti. Per lui ancora non esistono regole di comportamento, ma gradualmente imparerà ad osservarle: imparerà un certo linguaggio e con quel linguaggio imparerà a comportarsi secondo modalità abbastanza precise: “Saluta lo zio! Non toccare il cibo con le mani! Vestiti in fretta, altrimenti fai tardi a scuola!”. Tutte queste regole non sono state create dagli adulti con cui egli viene a contatto, perché essi a loro volta le hanno imparate dalle generazioni precedenti.
Col tempo le regole subiscono delle modifiche, ma ciò avviene sempre gradualmente e riguardano i dettagli più che i principi fondamentali. Persino dopo le grandi rivoluzioni, magari cambiano i gruppi sociali al potere, ma è difficile che cambino radicalmente i comportamenti più diffusi e radicati nella società.

Il ruolo degli individui nella società.

Il concetto di “ruolo sociale” - non del tutto nuovo perché, come ricorda Dahrendorf, se ne trova traccia anche in termini usati quasi con lo stesso significato da duemila anni (maschera, personaggio, carattere) - parte dalla metafora del mondo sociale come ‘teatro’, in cui ad ogni personaggio corrisponde una serie di comportamenti, complementari o contrapposti a quelli assegnati agli altri personaggi, ma sempre tali da essere compatibili nell’ambito di un’unica trama.
Anche nella società, come nel teatro, i comportamenti non sono completamente liberi. Alcuni sono vincolanti per tutti i membri (osservanza delle norme di diritto), ma poi per ogni ‘tipo’ di individuo esiste una ‘gabbia’ di comportamenti, la cui inosservanza prevede delle punizioni ancora più dolorose di quelle pecuniarie o detentive previste dal diritto: sono l’ ‘emarginazione’ dai gruppi sociali di appartenenza o l’ostracismo da parte dell’intera collettività.
Queste ‘gabbie’ di comportamenti, che forse sarebbe più corretto definire ‘schemi’, non sono relative ad un individuo in quanto tale, ma in relazione alla posizione sociale da lui occupata (‘status’). Il comportamento che ‘ci si aspetta da un bambino’ non è uguale a quello di un uomo adulto o un vecchio; quello di un uomo è ancora diverso da quello di una donna; diverso il comportamento previsto per un maestro da quello dei suoi allievi; diverso quello di un imprenditore e di un lavoratore dipendente.

Molteplicità dei ruoli per ogni individuo.

Come in una commedia un attore recita la parte del figlio e in un’altra quella del padre (e talvolta, con opportuni accorgimenti nei vestiti e nel trucco, un dato attore può nell'ambito della stessa commedia uscire dai panni del figlio per indossare quelli del padre), anche nella società lo stesso individuo ha più ruoli, cioè diversi schemi di comportamento correlati alle sue diverse posizioni. La stessa persona perciò ha atteggiamenti, parole e azioni diverse quando entra in ufficio come ragioniere, quando torna a casa per cenare con la famiglia o quando va al bar con gli amici. Ragioniere, padre e habitué di un locale pubblico sono figure diverse che operano in più ambiti, nei quali sono previsti quei particolari comportamenti ritenuti per lui più appropriati. Entrando in ufficio il ragioniere si dimostrerà rispettoso verso i dirigenti, sedendosi a tavola insegnerà ai figli come usare le posate, recandosi in un locale pubblico con gli amici potrà dare sfogo alle sue passioni sportive. Sarà invece quasi impossibile per lui dare sfogo alle sue passioni in ufficio o insegnare agli amici del bar come si usano le posate o essere sussiegoso anziché autorevole mentre siede a tavola coi figli.
Sono esempi e schemi che nella commedia variano a seconda della trama, mentre nella vita reale variano a seconda dei rapporti sociali nei quali ci si trova inseriti, ma in linea generale non esiste società che possa fare a meno di questi schemi, oppure di schemi alternativi. L’importante è che anche i rapporti sociali, come le commedie, siano organizzati in modo coerente e con ‘parti’ che siano complementari le une con le altre.

Autenticità dei ruoli.

Nonostante le analogie riscontrate fra teatro e società, esiste fra i due ambiti una differenza di fondo. L’attore di teatro non crede, anzi non deve credere, di “essere” il personaggio che sta interpretando. Per contro l’interprete di un ruolo sociale, non può “fingere” di fare il ragioniere o il padre o il membro di un gruppo di amici che si incontrano con regolarità in un locale pubblico.
Per svolgere in modo credibile quei tre diversi ruoli, deve averli interiorizzati fin da bambino, elaborati nella giovinezza e consolidati nell’età adulta. In famiglia non ci si può togliere con leggerezza la ‘maschera’ del padre per comportarsi come un figlio, né in azienda assumere oggi l’atteggiamento tipico di un lavoratore subordinato e domani quello di un dirigente: o si è l’uno o si è l’altro . Finché non mutano gli status, i ruoli non sono intercambiabili: solo quando il ragioniere, stanco del suo lavoro o insoddisfatto della retribuzione, decide di mettere su una sua azienda ed assume degli impiegati, potrà parlare come un dirigente. Insomma, nonostante che il teatro sia metafora della società, mentre nel primo regolarmente si finge, nella seconda bisogna fare sul serio, bisogna ‘essere’ in un certo modo.

Ambiti di discrezionalità nell’attuazione dei ruoli.

Pochi giorni fa ricordavo, nel commento al racconto di un caro amico, la distinzione fatta da G. H. Mead, nell’ambito della coscienza, fra il ‘me’ e l’ ‘io’. Il primo consiste nell’idea che noi ci facciamo di noi stessi in base a ciò che gli altri si aspettano da noi, il secondo impara ad osservare se stesso oltre che gli altri e a prendere decisioni più o meno coerenti con l’idea che si è fatto di sè. Nel fare ciò, l’ ‘io’ cerca di recuperare, in parte o del tutto, quella libertà di decisione che l’assunzione di precisi ruoli sociali sembra negare, ma è un tentativo di cui bisogna saper valutare le difficoltà ed i rischi.
Come genitori possiamo essere tendenzialmente autoritari o tenden-zialmente comprensivi, come ragionieri possiamo essere tendenzialmente zelanti o tendenzialmente pigri, come habitué di un circolo possiamo assillare gli amici coi nostri problemi personali o essere estremamente generosi nell’ascolto. Leggeri scarti lungo questi assi sono compatibili col ruolo assegnatoci, ma bisogna sapere che maggiore è lo scarto e maggiore sarà la probabilità di essere puniti socialmente e maggiore la durezza della sanzione.
Per godere di una completa libertà di azione è in teoria possibile anche un rifiuto totale dei ruoli assegnati, ma in tal caso ci troviamo di fronte a ciò che la sociologia definisce “devianza”. Personalità molto carismatiche a volte riescono anche ad imporre nuove regole agli altri ‘attori’, ma in genere questi non gradiscono, e non permettono, lo stravolgimento delle regole del gioco: c’è chi teme di perdere posizioni di privilegio acquisite nel tempo e chi, in un temporaneo vuoto fra vecchie e nuove regole, teme di non riuscire a ricollocare se stesso nella società ed a ri-orientare il proprio stile di vita. Le innovazioni di ruolo sono possibili, ma vanno costruite in tempi che permettano agli altri attori di adeguarsi senza il timore di subire contraccolpi pesanti e irreversibili.
Cataldo Marino

.* Questo articolo è frutto di una rilettura del II capitolo del libro di Ralph Dahrendorf “Homo sociologicus”, Ed. Armando Armando, 1966, pagg. 39-46.
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