lunedì 30 aprile 2012

Invidia e diffidenza

Nella vita di ogni uomo ci sono eventi realizzati ed eventi attesi, alcuni auspicati ed altri temuti. In genere anche le persone con cui si hanno contatti quotidiani in virtù di rapporti familiari o lavorativi o di amicizia, hanno comprensibili remore a parlarci degli eventi negativi. Della propria crisi matrimoniale o delle difficoltà di saldare un grosso debito non si parla con chiunque e neppure con amici e parenti che si frequentano con discontinuità, ma solo con qualcuno che sentiamo particolarmente vicino e della cui discrezione ci fidiamo completamente. Il non parlare di queste cose personalissime e negative è un più che legittimo atto di difesa della propria privacy e, nel contempo, un atto di generosità: perché scaricare sugli altri parte dei nostri personali fardelli?

Ben diversa è la spiegazione dell’estrema reticenza a comunicare ad altri gli eventi positivi, quelli che migliorano la qualità della vita. Alcuni colleghi, con cui ero anche in buoni rapporti di amicizia, mi comunicarono ad esempio il loro trasferimento in una sede più gradita solo quando se ne ebbe la notizia ufficiale. Ora, bisogna sapere che le domande per ottenere un trasferimento in altra scuola si presentano in febbraio, mentre le graduatorie ed i risultati vengono resi pubblici in giugno. Dunque per cinque mesi io parlavo quotidianamente con questi amici, i quali però mi nascondevano i loro progetti e le loro speranze. Nella loro reticenza, in questo caso mi sembra di non poter ravvedere nessun motivo apprezzabile: se un amico mi comunica una buona notizia sul suo lavoro o in altri campi, non posso che esserne felice. Ma evidentemente ci sono persone che non la pensano così. Chi sono queste persone?

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L’invidia genera il timore di essere invidiati e, quando questo timore si associa alla sottocultura della superstizione, i soggetti ammorbati dal più dannoso dei peccati capitali (superbia, gola, lussuria, ira, avarizia e accidia non hanno la malefica incidenza sociale dell’invidia), diventano diffidenti e guardinghi verso chiunque. La superstizione li induce a credere che altri, con la forza del pensiero e dei sentimenti cattivi possano modificare la loro situazione oggettiva. Quegli amici, a cose fatte ed ormai irreversibili, diedero finalmente la loro felice comunicazione, ma nei cinque mesi di attesa, secondo loro, gli spiriti malvagi dei colleghi avrebbero potuto influire negativamente sull’esito delle loro aspirazioni.

Cosa si può dire di persone che vedono il male dappertutto e che, nell’era del trionfo delle scienze esatte e della tecnologia, temono ancora che il malocchio possa provocare loro dei danni? Si badi che, a credere in queste cose, non sono solo la casalinga e il muratore con la terza media; ci sono anche fior di professionisti che per lungo tempo si sono dedicati allo studio di grossi tomi di economia, di chimica o di anatomia. Come si conciliano questi loro studi col ritenere che l’eventuale sentimento negativo di un amico o di un parente possa influire sul loro posizionamento in una graduatoria, redatta secondo precise disposizioni normative?
Evidentemente gli studi fatti si sono momentaneamente sovrapposti ad una matrice culturale più antica e profonda, che è però rimasta intatta e che in ultima analisi determina i loro atteggiamenti e le loro relazioni sociali.

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Inquadrata la componente culturale della superstizione, resta da spiegare quella psicologica, cioè di come - similmente al ladro che finisce per temere i furti in casa propria e al violento che teme anche per futili motivi le violenze altrui - il nutrire un costante sentimento di invidia verso gli altri possa generare il suo opposto: il timore sistematico di subire l'invidia da parte degli altri.
Una vecchia zia, circa trent’anni fa, citò un motto dialettale che, pur se stilisticamente poco raffinato, è rimasto ben impresso nella mia mente: “U cane ‘e Renz/com’è, si penz” (il cane interpreta le intenzioni ed i comporta-menti umani in base alle intenzioni proprie ed alle proprie abitudini).
Il prof. Umberto Galimberti, nel suo "Dizionario di psicologia" (Utet, 1992), alla voce "Proiezione" spiega più scientificamente questo rovesciamen-to delle proprie colpe e delle proprie paure verso l'esterno (oggetti, persone, gruppi sociali o entità mitologiche)  prima in termini psicoanalitici e poi in base ad alcune tecniche di ricerca psicologica.
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Interpretazione psicoanalitica:
"La proiezione è un meccanismo di difesa inconscio con cui il soggetto reagisce a eccitazioni interne spiacevoli (…), negandole come proprie e attribuendole a cose ο persone esterne. Per Freud la proiezione è alla base della superstizione, della mitologia e dell'animismo..."
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L'interpretazione psicologica non si discosta molto da quella precedente:
"Partendo dall'ipotesi che esista una correlazione tra il mondo interiore (Innenwelt) e il mondo circostante (Umwelt), che ciascuno interpreta a partire dal proprio mondo interiore, sono state messe a punto tecniche proiettive in cui il soggetto, posto di fronte a stimoli ambigui, deve fornire risposte interpretative che, adeguatamente decodificate, permettono di individuare i tratti essenziali della sua personalità."
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