lunedì 17 maggio 2010

Film da rivedere: Un uomo da marciapiede, usa, 1969

Ad una signora russa, venuta in Italia per fare la badante, che vedo quasi tutti i giorni a casa di mia madre e con cui s’è creato un simpatico rapporto di amicizia, spesso mi capita di puntualizzare, su sua richiesta, il significato di alcune parole o modi di dire italiani. Un giorno le spiegavo che, quando una persona si ritrova di colpo in un paese ricco o un ambiente agiato, usiamo l’espressione “Ha trovato l’America”. E lei mi ha detto: “Anche noi diciamo così”. E’ dunque opinione abbastanza diffusa in tutto il mondo che negli States si viva bene: il paese dell’abbondanza e delle pari opportunità, dove gli “ascensori sociali” sono sempre ben oliati e continuamente in funzione. Ma, questo, corrisponde poi pienamente alla verità?

Io non ho ormai né tanta voglia né la possibilità di fare viaggi molto lunghi, perciò, con tutti i limiti che ciò comporta, sono portato a conoscere il mondo attraverso le notizie e alcune forme d’arte: soprattutto la letteratura e il cinema. E, a dire il vero, attraverso queste fonti ho avuto l’impressione che negli Stati Uniti non si viva poi così bene come comunemente si crede.
A un amico che aveva il mito degli States ho proposto poco tempo fa di guardare un film americano che nel ‘70 ottenne tre Oscar (miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura), un Nastro d’Argento (migliore regia), due David di Donatello (migliore film straniero, migliore attore straniero per D. Hoffman) e che nel ‘94 fu scelto per la preservazione nel National Film Registry: Un uomo da marciapiede.
E’ la storia di un giovane texano che lascia il lavoro in un ristorante per fare fortuna a New York, perché è convinto che lì le ricche signore siano disposte a pagare profumatamente le sue prestazioni amorose.
La New York reale non si dimostrerà però come quella che lui immaginava: la gente non cammina per le strade, ma corre senza prestare attenzione a chi gli sta intorno; quartieri degradati fanno da contraltare ai grattacieli; gente emarginata fa fatica persino a sfamarsi; persone apparentemente benestanti si ritrovano spesso con pochi dollari in tasca; un italo-americano, che vive nell’indigenza e che, gravemente malato, non può permettersi le cure mediche, muore durante un lungo viaggio verso quella Florida che sia pur vagamente gli ricorda il suo paese d’origine.

Sono trascorsi quarant’anni dalla produzione di quel film e certamente molte cose sono cambiate: i neri non sono più cacciati dagli autobus ed uno di essi è diventato Presidente degli Stati Uniti. Credo però che ancora oggi persistano vaste fasce di povertà e che, rispetto a quell’epoca, il cambiamento più significativo in campo sociale sia di segno negativo: oggi la precarietà colpisce, oltre che i lavoratori, anche i dirigenti d’azienda. Retribuiti in genere con stipendi favolosi, comprano ville e auto molto costose e si abituano ad un livello di consumi altissimo, ma quando l’azienda è in difficoltà vengono licenziati nell’arco di un giorno e, non potendo più far fronte agli impegni finanziari presi, cadono in uno stato di povertà estrema.
Nel suo complesso si tratta pur sempre di una società ricca e dinamica: record di brevetti, industrie efficienti, università che attirano i migliori cervelli da tutto il mondo. Però non è proprio l’Eden di cui si favoleggia. I ricchi sono molto ricchi, i poveri sono molto poveri …e facilmente licenziabili.

Un uomo da marciapiede è un film di denuncia sociale la cui visione è consigliabile per gli ottimi interpreti, l’ambientazione, la colonna sonora, il ritmo incalzante delle immagini, il tratteggio psicologico del protagonista ottenuto anche attraverso suggestivi flashback, il crudo realismo di certe situazioni. Naturalmente bisogna guardarlo senza essere troppo prevenuti sull’anno di produzione: bisogna tener presente che i film di buona fattura, col passare del tempo, possono persino risultare migliori. Sicuramente c’è comunque molto da imparare.


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